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Pavese e il mito
Un ritratto di Cesare
Pavese, poeta, narratore, traduttore eminentissimo e fertilissimo, manager editoriale
(della “vera” Einaudi, quella che fece testo per un paio di decenni), nei suoi
luoghi. Riportati in vita con moltissimo materiale di repertorio, degli anni 1930
e 1940, soprattutto a Torino, e nelle Langhe, fino al romano Hotel de la Ville per
il premio Strega 1950. Con le persone che
hanno contato per Pavese o ne hanno tenuto e ne tengono in vita la memoria. Con
vecchie testimonianze di contemporanei, amici o per qualche verso beneficati –
Ferrarotti, Raf Vallone, Fernanda Pivano (ancora lusingatissima e meravigliata dell’attenzione
critica che da Pavese ricevette da giovane, come traduttrice dall’americano, e sprezzante
contro tutti i pettegolezzi). Con l’esumazione anche di Bianca Garufi, collega
alla Einaudi, figura mitica del soggiorno romano di Pavese, per la quale e con
la quale scrisse in pochi giorni nel 1947 i “Dialoghi con Leucò”. E il commento
qua e là, sintetco e affilato, all’opera letteraria di Pavese di Gabriele Pedullà
- un romano che cura molto gli scrittori piemontesi, Fenoglio prima di Pavese.
Claudia Durastanti ne magnifica le traduzioni.
Un documentario
che invoglia a saperne di più, sull’autore e sul personaggio. La biografia di
Pavese è ancora da fare, benché abbia tanti ingredienti per stimolarla: inquietudini,
amori, arresti, tradimenti, un iperletterato e uno sportive che si uccide a 41
anni - quella di Lorenzo Mondo, “Quell’antico ragazzo”, è piuttosto una testimonianza.
Si sa un po’ – il documentario ne parla a più riprese - del suo “non impegno”
politico (scandaloso negli anni 1940, ma adesso?). Mentre non si pone abbastanza
attenzione alla sua visione “mitologica” della vita, dell’esistenza – come Nietzsche,
anche se non c’è alcun punto di contatto. Un bisogno già forte, nel diario e nei
primi racconti, nei mesi di confine politico che passò a Brancaleone in Calabria
(visse nel borgo sperduto tra reminiscenze greche, e mitizzava le servette). E
in questa dimensione, più nel mito che nella storia, confuso e inetto nelle relazioni
affettive (pari pari come Nietzsche mezzo secolo prima di lui): appena una donna
sorrideva, si proponeva di sposarla.
Una scena da grande
cinema Gagliardo s’inventa a metà del documentario, che sembra anch’essa di materiali
d’epoca e invece è girata dal vivo: la balera. Con le canzoni d’epoca, la cantante
che si atteggia a cantante, chi si limita a bere il suo mezzo bicchiere, chi
gioca a bocce, e i tanti che ballano: una girandola di personaggi che si veste,
canta, parla, balla come usava.
Giovanna
Gagliardo, Il mestiere di vivere
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