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mercoledì 4 dicembre 2024

Pavese e il mito

Un ritratto di Cesare Pavese, poeta, narratore, traduttore eminentissimo e fertilissimo, manager editoriale (della “vera” Einaudi, quella che fece testo per un paio di decenni), nei suoi luoghi. Riportati in vita con moltissimo materiale di repertorio, degli anni 1930 e 1940, soprattutto a Torino, e nelle Langhe, fino al romano Hotel de la Ville per il premio Strega 1950. Con le persone  che hanno contato per Pavese o ne hanno tenuto e ne tengono in vita la memoria. Con vecchie testimonianze di contemporanei, amici o per qualche verso beneficati – Ferrarotti, Raf Vallone, Fernanda Pivano (ancora lusingatissima e meravigliata dell’attenzione critica che da Pavese ricevette da giovane, come traduttrice dall’americano, e sprezzante contro tutti i pettegolezzi). Con l’esumazione anche di Bianca Garufi, collega alla Einaudi, figura mitica del soggiorno romano di Pavese, per la quale e con la quale scrisse in pochi giorni nel 1947 i “Dialoghi con Leucò”. E il commento qua e là, sintetco e affilato, all’opera letteraria di Pavese di Gabriele Pedullà - un romano che cura molto gli scrittori piemontesi, Fenoglio prima di Pavese. Claudia Durastanti ne magnifica le traduzioni.
Un documentario che invoglia a saperne di più, sull’autore e sul personaggio. La biografia di Pavese è ancora da fare, benché abbia tanti ingredienti per stimolarla: inquietudini, amori, arresti, tradimenti, un iperletterato e uno sportive che si uccide a 41 anni - quella di Lorenzo Mondo, “Quell’antico ragazzo”, è piuttosto una testimonianza. Si sa un po’ – il documentario ne parla a più riprese - del suo “non impegno” politico (scandaloso negli anni 1940, ma adesso?). Mentre non si pone abbastanza attenzione alla sua visione “mitologica” della vita, dell’esistenza – come Nietzsche, anche se non c’è alcun punto di contatto. Un bisogno già forte, nel diario e nei primi racconti, nei mesi di confine politico che passò a Brancaleone in Calabria (visse nel borgo sperduto tra reminiscenze greche, e mitizzava le servette). E in questa dimensione, più nel mito che nella storia, confuso e inetto nelle relazioni affettive (pari pari come Nietzsche mezzo secolo prima di lui): appena una donna sorrideva, si proponeva di sposarla.
Una scena da grande cinema Gagliardo s’inventa a metà del documentario, che sembra anch’essa di materiali d’epoca e invece è girata dal vivo: la balera. Con le canzoni d’epoca, la cantante che si atteggia a cantante, chi si limita a bere il suo mezzo bicchiere, chi gioca a bocce, e i tanti che ballano: una girandola di personaggi che si veste, canta, parla, balla come usava.  
Giovanna Gagliardo,
Il mestiere di vivere

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