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Secondi pensieri - 549
zeulig
Democrazia – La deriva populista ne ha messo
in crisi i fondamenti “scientifici”: etimologici, storici, giuridici perfino.
Il governo del popolo. Il governo dele maggioranze.
Su questo fondamento bruto (semplicistico) molto lavoro
di affinamento è stato fatto, certo. Di “fondamenti” costituzionali, cheks-and-balance,
diritti politici, e civili, e umani, inestinguibili. Il populismo, invasivo e invadente,
e perfettamente democratico, anzi “più” democratico, in quanto montante contro
i venti e le maree degli ottimati, dell’opinione pubblica dominante, della
democrazia established, piena di se stessa e delle sue buone ragioni.
Oppure resta – ritorna – il fatto base: che le
masse, che la democrazia è nata per liberare e salvaguardare, non sono democratiche.
Perché oltre la legge del numero non sanno andare. Perché agiscono per “movimenti”,
flussi sotterranei, istintivi, superficiali, in tutto quello che si vuole,
rozzi e anche indifferenti, entro limiti, alle “regole”- libertà di opinione,
di organizzazione, rispetto degli avversari, parità delle minoranze, etc. Tema
vieto, ma è il problema delle democrazie latinoamericame, pure vecchie di due secoli, africane,
asiatiche – con la sola eccezione del Giappone, e forse della Corea del Sud. Come
è democratico il regime castrista a Cuba, oppure Maduro in Venezuela? Come lo
sono le presidenze argentine e brasiliane, sempre alle armi. O in Egitto, altro
apese di antica costituzione, dal generale Naguib al generale Al Sisi. O i
“regimi” indo-pakistani pur in alternanza con regimi elettivi. O come l’en
plein, reiterato, di Berlusconi in Sicilia.
Le masse beneficiano, per così dire, di una
letteratura sterminata. Che ha l’intento di esorcizzarle. Non di democratizzarle.
Perché allora bisognerebbe interrogarsi sul suffragio universale, sui diritti
politici, e l’uno vale uno del politologo comico Grillo. Col problema connesso,
per esempio, del suffragio femminile, che ha portato ai regimi islamici, e li
sostiene quando sono sfidati, in Iran, in Pakistan, nella stessa Turchia.
La democrazia è semplice, è quella che Bobbio
dice “minima”, e cioè “un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni
collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile
degli interessati” (Il futuro della democrazia”, p. XXIV). E se il cavallo non beve?
Di chi la colpa, e come rimediarvi?
Bobbio opina che un equivoco pesa sulla democrazia
come su ogni forma politica: che l’uomo è un animale politico. Sottintendendo
probabilmente che l’uomo è un animale politico nel senso del “meglio”, del bene
ideale, a di là e anche contro i suoi inter essi. La democrazia “minima”
propone dopo avere enunciato l’equivoco (ib.): “La mancata crescita dell’educazione
alla cittadinanza… si può considerare come l’effetto di una illusione derivata
da una concezione eccessivamente benevola dell’uomo come animale politico”. Perché
“l’uomo persegue il proprio interesse, tanto nel mercato economico quanto in
quello politico”. Può essere vero. Le assemblee ecclesiastiche, nelle quali si
è formata e corroborata la procedura democratica del voto, dell’uno vale uno,
sono sempre partecipate, gli ecclesiastici sono per il ruolo, sacramentale prima
ancora che gerarchico, politicizzati. Ma non sono “educati alla cittadinanza”
gli inglesi e gli americani, che votano da alcuni secoli? O i francesi, che fecero
la prima rivoluzione popolare e di massa, per l’uguaglianza, due secoli e mezzo
fa? E perché il populismo non sarebbe democratico? È perfino costituzionale,
anzi strettamente costituzionale, radicalmente, sui fondamenti prima ancora che
sugli articoli e i commi.
Memoria – Si dilata (estende, approfondisce, irrobustisce)
con il digitale, la memoria di dati sterminata di recezione immediata, oppure
si comprime?
Opinione pubblica - C’è un nesso fra la scarsa propensione al voto, meno
del 50 per cento, nelle democrazie “occidentali”, cioè nelle democrazie, e la
mancata lettura o il rifiuto dei giornali? Che dal loro canto fanno di tutto per
evitare di formare (informare) l’opinione pubblica, recependo e spiegando gli eventi
– se non per la parte meno politica, e\o, in qualche modo, anche minimo,
pruriginosa (dossier prevalentemente, e “scandali”). Ci sono altri strumenti
per formare l’opinione pubblica, il nesso tra avvenimenti pubblici e cognizioni
o forme di giudizio private, personali, che sta alla radice del voto – alla comprensione,
alla scelta, e quindi al voto? Della democrazia il fondamento è il voto di base,
il più possibile libero – cioè formato, ma liberamente, per propensioni, ascendenze,
ambiente, ideologie, partito preso, etc..
Storia - È nei volti. Si tratta di vederli – leggerli. E.
Jünger ne fa la constatazione in Sardegna, guardando passanti e conoscenti. Il
doganiere giovane con cui condivide il tavolo alla pensione è “il tipo spagnolo”.
Gli altri commensali “hanno sangue moro. Le fisionomie sono olivastre, hanno un’aria
interrogativa cupa, oppure brune, sveglie, di una mobilità da lucertola, hanno talvolta
anche un taglio netto e nobile”. E dove sono le “impronte fenicie”?, si chiede.
“Ci sono sicuramente qui dei fili mescolati al tessuto, e che ci serpeggiano, indiscernibili,
anche allo sguardo più affinato. Tanto più che contatti ripetuti si sono prodotti,
ancorché separati da lunghe interruzioni: all’inizio ai primi sbarchi di questo
strano popolo di commercianti, poi nell’espansionismo cartaginese, infine con l’intermediazione
degli arabi, che hanno apportato un nuovo schizzo di vecchio sangue semitico. Non
rimane più allora che il motivo, com’è di una melodia spesso ripetuta, e poi dimenticata”.
È nei luoghi – sempre Jünger in Sardegna (“Presso
la torre saracena” – ora in “Terra sarda” e in “Il contemplatore solitario”). “Storia
e preistoria di un’isola come questa si lasciano comprendere per altre vie
oltre che per gli studi. Sui suoi monti, nelle scogliere, e nella pace soleggiata,
fatta per le lucertole, nelle sue valli, deve ancora sonnecchiare fra gli atomi,
nell’intemporale, che nel corso dei tempi si è annodato in disegni di tappezzeria.
Devono potersi leggere nel vento e nelle onde, sui visi delle persone e nelle
loro melodie, nel modo in cui la sera il fumo dei focolari s’increspa sopra le
loro dimore”.
“I tempi passati sono vicinissimi, e che lo siano
sempre di più è uno dei doni inattesi, una delle scoperte corroboranti del
nostro presente. L’antico e il nuovo sono due qualità, due prospettive umane; l’antico
è senza posa presente e il nuovo è sempre stato là”.
Il tempo è cambiato, la percezione del tempo. E con
essa la storia. Sempre Jünger, ib.: “La maniera sottile e miracolosa con cui
noi oggi sappiamo aprirci l’accesso del più lontano passato proviene dalla
metamorfosi della nostra percezione del tempo. L’antico e il nuovo sono due qualità,
due prospettive umane. Lo sguardo storico vi acquisisce una potenza di concentrazione,
di evocazione magica, si fonde con quello del poeta. Questa combinazione dell’umanità
più lontana tirata fuori dalle sue ombre, è uno dei nostri spettacoli grandiosi.
Che sono, in tutto questo, i ritrovamenti degli scavi e dei documenti? Perché
cominciano a parlarci oggi, mentre sono sempre esistiti? Hanno per lo spirito
la funzione di talismani, ed è impressionante vedere quando vengono sfiorati, come
la lampada di Aladino, che cosa viene fuori dalle arcate dei millenni”.
zeulig@antiit.eu
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