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Spoon River di Sicilia
“Sicilia, un
niente che pretende di essere qualcosa”. E “la sicilianità
altro non è che la presunzione di credersi unici o, nella versione di Sciascia,
la metafora del mondo” – “esiste un frammento di mondo che non sia metafora dell’intero
mondo?”. Tanto vale dirlo subito, con la conclusione, il succo della riflessione.
Una conclusione folgorante come l’attacco. Con Giufà,
il personaggio eponimo della letteratura popolare burlesca – sciocco\saggio suo
malgrado in Sicilia, l’isola privilegia il paradosso (l’autore scuserà, ma lui
stesso è molto siciliano). Giufà, vedendo la luna riflessa nel pozzo, pensa ci
sia caduta e si premura di salvarla – congratulandosi poi con sé quando,
alzando la testa, la vede in cielo.
“Un porcile con inspiegabili gioielli”, è un’alrra
conclusione: “È l’immagine che i non Siciliani e molti Siciliani hanno della
Sicilia. Ricosruirne la storia era uno degli scopi di questo libro”. La storia
dell’immagine, naturalmente, non della Sicilia. Contrapponendo ad essa “la Sicilia
vissuta e raccontata da Vittorini – una Sicilia popolata da Gran Lombardi”, da
siciliani fattivi e dedicati.
Ma ci si ariva per
un un affascinante autoritratto della Sicilia. Una sorta di autoscatto: un’istantanea
ricca di umori, ricchissima.
Il sottotitolo è “Psicoanalsi
di un’identità”. In poche pagine una folta serie di problemi e di anamnesi
circostaziate. Con abbondanti esumazioni linguistiche a conforto. Specie del Trecento.
E poi del Cinque e Settecento.
Perché la Sicilia
non sarebbe Italia? Il siculo fu il primissimo italiano letterario. Per Dante
la cosa è scontata, risaputa. Nel “De vulgari eloquentia” e nella “Commedia”. Una
prima edizione dell’italiano, poi adottato nella vocalizzazione, se non la
fonetica, toscana. Il passaggio
dal siculo al toscano fu sancito autorevolmente dal veneto Bembo - che fu in Sicilia,
si può aggiungere, a Messina, prima che a Firenze. E da allora incontestato. Se
non da un Claudio Maria Arezzo (il letterato siracusano-messinese che fu per
alcuni anni lo storiografo al seguito di Carlo V), che confuta Bembo. Ma con un
intervento, per così dire, in difesa: che non s di dica che la Sicilia è Africa
– “mandar fora Siclia di Italia e dil parlar thoscano”. Machiavelli, aggiunge
Lo Piparo subito dopo, lo aveva già scritto, anche se nessuno lo sapeva (questa
cosa, se è sua, è stata pubblicata postuma): una sorta di Feltri del
Cinquecento, “non aveva dubbi: la Sicilia non è italiana” - “Discorso o dialogo
intorno alla nostra lingua”). Contro un Bembo peraltro che in effetti ribalta Dante
cialtronescamente: fra provenzale e siculo, il toscano è provenzale. Dante, nel
“De vulgari eloquentia”, riporta il toscano al siculo come un dato di fatto,
dandolo per scontato in mezza riga, e per una ragione semplice: “Perché sede del
trono legale era la Sicilia, e pertanto tutto quanto i nostri predecessori hanno
prootto in volgare si chiama siciliano”.
Una riflessione
polemica, ma piena di chicche. Emizionante la lettura in parallelo tra Vittorini
e Tomasi di Lampedusa, tra “Conversazione in Sicilia” e “Gattopardo”, sulle figure
femninili, la condizone, i ruoli. Curiosa, e sottovalutata, la chiosa che il siculoitaliano
è stato per tre secoli, da metà Seicento, la lingua dei sinodi, e delle
attività in chiesa, catechismo e predicazione, e probabilmente confessione, “fino
agli anni a ridosso dell’Unità”, quindi per due secoli. O di Gramsci – di cui
Lo Piparo è studioso – che di Pirandello, dopo aver visto “Liolà” a Torino, fa l’erede
dei riti dionisiaci dell’antica Grecia. O di Marx che sdottora di “Sicily and
the Sicilians” in una delle tante corrispondenze ai giornali americani con cui
si manteneva, qui alla “New York Daily Tribune”, 17 maggio 18690.
Contro il sicilianismo,
la diversità. “I pupi siciliani nascono in lingua italiana”, e prosperano. Ilscialisnmo,
siciitudine comoersa, è sterile. Uno Statuto autonomo della Regione Siciliana,
e solo della Sicilia, è stata varato in fretta dalla Luogotenenza del Regno il
15 maggio del 1946, ed è stato poi recepito dalla Costituzione, a nessun effetto.
L’approccio è
disincantato: la Sicilia è un “fantasma che diventa realtà”. O non è il contrario?
“Il mito della Sicilia culturalmente isolata è stato prodotto e diffuso da pensatori
e scrittori le cui esistenze smentiscono il mito”. Goethe, alla radice moderna dell’equivoco, col suo “senza la Sicilia non
ci si può formare nessuna idea dell’Italia – è qui la chiave di tutto”, va riletto
in originale: “Senza la Sicilia l’Italia non lascia nessuna immagine
nell’anima”. Non c’è Italia senza la Sicilia sta per dire che nell’isola si
assommano bellezza (natura), cultura, cucina – subito dopo la conclusione Goethe
parla di clima, paesaggi, gastronomia, arte. Senza strafare – ha appena detto severo
delle stavaganze del principe di Palagonia a Bagheria “un niente che pretende
di essere qualcosa”.
Insomma, Goethe non c’entra. E il fatto è, può dire in esergo il linguista
Lo Piparo con Isidoro di Siviglia, il primo linguista della storia: “Ex linguis
gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt”.
L’Accademia
Poetica Letteraria di Pura Lingua Siciliana di fine Settecento, i cui statuti sarebbero
stati redatti dall’abate Meli, ragiona in italiano, e si dedica in siciliano a
un poema del ficodindia – che non redige. Meli, il poeta dialettale per
eccellenza, in prosa scrive in italiano – di lui Capuana ha potuto scrivere: ”Bisognerebbe
tradurre il Meli in siciliano” (era peraltro uno scienziato, docente di chimica
per trent’anni, sempre aggiornato in materia, tra i primi ad aderire alle tesi
innovative di Lavoisier).
Un inno, alla
fine, l’ennesimo, all’isola, anche se da prefica severa. Nell’intelligenza dell’idea
e nella resa narrativa. Severo con Sciascia, in tema di “sicilianità”, l’autore
è a sua volta paradossale ma veritiero, a fronte delle montagne di vulgate che
seppelliscono la Sicilia. Anche per la frequentazione, vuole che si sappia,
dello storico Giarrizzo, personalità poco corriva - lo storico, socialista,
del Settecento, della Massoneria, del Meridionalismo, dello stesso Statuto eccezionale,
luogotenenziale, del 1946.
L’idea-programma è
dichiarata, è la “psicoanalisi di una identità”, e “l’origine continentale
della Sicilia moderna”. L’origine linguistica, prima ancora che storica – Lo
Piparo è linguista, prima ancora che ottantenne saggio. Forse con una evidenza
trascurata: i Normanni chiamati e protetti dal papa pe latinizzare la cristianità
del Sud, di rito ancora persistentemente greco-bizantino, malgrado la scomarsa
dell’impero. Dopo la debolezza manifestata dai primi riconquistatori, i
longobardi. Fatto più evidente forse in Puglia e in Calabria - dove i Normanni ristagnarono
per un secolo, guardando la Sicilia che non gli riuciva di abbordare, da terragni,
non più gente di mare.
Franco Lo Piparo,
Sicilia isola continentale, Sellerio, pp. 336 € 16
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