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zeulig
Alternativo –
Detto di informazione, cultura, storia, memoria, è equivalente di passeggero,
transeunte. Una “antitesi” che coopera a irrobustire (ridefinire, accrescere,
migliorare) la tesi – l’ordinamento, il maincurrent,
“il pensiero”. È un movimento di scarto, anche quando si vuole rivoluzionario.
La
persistenza è più forte dell’innovazione, per quanto radicale, sia essa il
diluvio, o la scomparsa dei dinosaur, o Heidegger. Un movimento anche di progresso
(miglioramento, affinamento), alternativo solo in quanto aggiuntivo. Una
innovazione-contestazione destinata a “normalizzarsi”, a diventare established.
Ha
avuto senso proprio – movimento di lungo periodo, caratterizzante – sotto le
forme della “cultura alternativa” e dell’“informazione alternativa”, nel
momento storico detto del Sessantotto, che per molti aspetti è stato un
mutamento caratterizzante, epocale (una larga ondata democratiscistica:
giovanilismo, femminismo, infomalità – nell’abbigliamento, il gusto, l’agire, i
rapporti). Vive poco nella scansione ripetitiva – come è l’uso in America, dove
un movimento alternativo esclusivo e irrevocabile s’impone ogni poco tempo, è
il metronomo dell’opinione pubblica, che si vuole oscillante. Della stessa
consistenza delle campagne pubblicitarie, per definizione deperibili (legate a
una merce, a un prodotto). In tempi recenti i movimenti #metoo e #blacklivesmatter,
con cerimoniali annessi (“danni” milionari, ginocchia piegate, mani sul petto),
la cancel culture, la critical theory, l’ideologia woke.
Anima –
“La tradizione classica distingue tra cervello e mente, ora domina la visione
fiscalista che riduce tutto a neuroni e sinapsi, considera il cervello un
computer straordinario. E l’io, la coscienza, la libertà, l’estetica, la
volontà, l’anima?” – Gianfranco Ravasi, cardinale.
Destra-sinistra
– Si sono formati una successione di governi in Italia tra
sinistre e destre: Monti, Conte, Draghi. Anche (Draghi) tra estreme sinistre
(Leu) e destre (Lega, Forza Italia). Le caratterizzazioni restano storiche, non
programmatiche (programmi, impegni, azioni).
In
Francia si è passati, con la stessa maggioranza parlamentare, da governi a guise
socialista a governi a guida di destra.
In
regime costituzionale stabile e garantito, le differenziazioni non sono più di
valori, uguaglianza contro interesse, ma solo politiche – tattiche: adeguate
alle situazioni contingent, guerre, migrazioni, investimenti\disinvestimenti,
fiscalità, servizi pubblici.
Neofascismo – La raccolta “Scritti corsari”
assemblata da Garzanti dopo la morte di Pasolini comprende anche il testo inedito contro
Carlo Casalegno, odiato più del “miserabile fascista di dieci anni fa” - uno
sconosciuto che Pasolini ricorda di avere inseguito per un buon quarto d’ora
attraverso tutta San Lorenzo tanto il suo sdegno era inesausto. A Casalegno
Pasolini imputa, per un articolo sulla “Stampa” contro di lui e Moravia, “la
mania che ha preso gli italiani di darsi continuamente dei fascisti tra di
loro”. Mania che però egli stesso aveva avviato qualche mese prima sul
“Corriere della sera”, con “Il fascismo degli antifascisti”. Con leggerezza,
certo, alla Pannella, alla Ottone, i vaffanculisti dell’epoca, certo tirati ai
quattro pizzi, sobri, inappuntabili. Molto borghesi.
Molto si parla di fascismo in
un mondo che ne è lontano, del tutto. Senza leggi speciali e senza squadre
punitive, semmai, allora, un “fascismo” organato sulla comprensione e sull’inclusione.
Fascismo sta in questo caso per tutto ciò che si detesta, senza un significato specifico
Di Eco fa ancora testo l’urfascismo,
ma non è più del “fascismo eterno” di Croce quando si ricredette su Mussolini –
ma allora critico del fascismo come del marxismo, e del sindacalismo soreliano,
che dice e spiega antimoderni, sopravvivenze ottocentesche e positiviste, con
tendenza al reazionsario – all’ordine esclusivo.
Molto linguaggio va visto nella
tradizione italiana. Del post-Risorgimento dei “primati”, cioè, pur nella
retorica del piccolo e del posto al sole, della potenza.. O anche odierno,
quotidiano: “Mar Rosso, l’Italia si schiera”, dice il giornale per dire che una
nave italiana, piccola, vi si indirizza. Un linguaggio che si vuole imperiale,
ma da mosca cocchiera. E non “patriottica”, giacchè si riferisce a una realtà
sottostante che invece è e si vorrebbe tranquilla, marginale anche, specie
nelle Grandi Questioni. Nel vasto mondo, come già nell’Europa franco-tedesca –
accettato come tale.
Un linguaggio di potenza che
convive con (si nutre di) l’esatto opposto, dell’Italia povera e proletaria, di
cui tutti abusano. Un misto di vittimismo e vanagloria, dal parmigiano alla
pizza e alla “dieta mediterranea”.
Il made in Italy, l’orgoglio,
la bandiera, la preminenza, non è invenzione della destra. La dottrina dei
primati è tanto becera quanto insidiosa. Ma non facilmente imputabile – in
Italia nasce col Risorgimento (ma era lo spirito del tempo). E non
trascurabile, nemmeno agevolmente individuabile, prima che imputabile, tanto è
incarnata.
Verità – “Si possono accertare i falsi ma non si
può accertare la verità: la verità è evidente” - Gerardo D’Ambrosio, Sostituto
Procuratore a Milano, 1969.
Woke –
Il “risveglio” è già passato di moda, come la Critical Theory, e la Cancel
Culture. Una moda, dunque. Ma con danni considerevoli. Sulla polarizzazione
della società americana, e per conseguenza “occidentale” (europea), divisiva in termini politici. E per l’effetto boomerang inevitabile.
“Il
Sole 24 Ore”, giornale degli affari, ne può fare un bilancio positivo in
termini aziendali: quelle che si sono posizionate woke (green, rosa, #blacklivesmatter) ne beneficiano. La
civiltà dei diritti, allora, finisce per accrescere il gerarchismo, nemmeno
dissimulato, e le disuguaglianze. Niente di diverso dall’ormai cinquantennale
neo-capitalismo, il capitale dal volto buono, anzi del “bello-e-buono” autoproclamato,
su pochi e agevoli presupposti: più merci, più consumi, più felicità. Mentre le
disuguaglianze crescono a vista d’occhio, tra i felici forse più numerosi ma
sempre più ricchi, e masse sempre sterminate sempre meno felici – senza più
prospettiva o quasi. Una deriva in affari visibile, quasi prensile. Esempi
minimi: le retribuzonini mostruose che i manager si attribuiscono, i decili più
ricco e meno ricco della statistiche americane del reddito, i tassi di povertà al
raddoppio ogni venti anni.
Woke è una
strategia, una delle tante, per migliorare la redditività se non la produttività, a vantaggio
degli azionisti, del capitale. Potendosi disinteressare, grazie al
distintivo woke, di altri stakeholder,
quali i lavoratori, il reddito dei lavoratori-consumatori, l’impatto della
produzione (p.es. quella automobilistica, sia pure elettrica) nel territorio,
nella comunità, nella società, nell’ambiente. Un affinamento del neocapitalismo,
seduttivo invece che corrosivo, ma sempre
acquisitivo. Con buona coscienza (innovazione, transizione green, risparmio del
territorio, salute, quote
rosa).
zeulig@antiit.eu
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In
una con “Il Fantasma”, racconto ancora più profuso, dove Amore e Morte
dialogano e duellano tra marce nuziali, tazze di porcellana e servi astuti, il racconto del
“Monaciello”, lo spirito impertinente di ogni buona casa napoletana, cattivo ma
buono. La nonna vecchissima nella lontana Libia ne rivive la memoria col
nipotino, come di un’epoca fatata da bambina nell’isola felice della sua lunga
vita quale fu la casa paterna a Napoli, sul mare, di Santa Lucia. Il racconto
delle prime inquietudini d’amore, che redime passo passo, con l’innocenza e la
devozione, l’impulso anarchico, e distruttivo, dello spiritello (prigioniero) di casa.
Due
delle prime prove di Anna Maria Ortese, dopo “Angelici dolori”, con cui nel
1937 aveva debuttato, poco più che ventenne e autodidatta, patrocinata da
Bontempelli. Nel 1940, ospite a Venezia di Paola Masino, compagna di Bontempelli,
scrive e pubblica i due racconti, “Il Monaciello” su “Ateneo Veneto” nel 1940,
“Il fantasma” su”Nove Maggio” l’anno successivo.
Due
divagazioni, in puro stile da fiaba romantica, un po’ gotica, alla E.T.A.
Hoffmann, che forse la allontanano dai lutti drammatici che la inseguivano, in
una vita da sradicata, ogni pochi mesi una città e un mondo diversi. La seconda, affastellata, è irrisolta: Ariel, il Grande Amore, si rivela il mondo e i Parenti - la famiglia - battono la Morte, ma è il Fantasma il potere salvifico della musica? Di una
scrittura però sempre viva in ogni virgola, come fosse un dono del cielo.
Notevole che la bellezza
eterea del “Fantasma”, che “non avrà avuto più di quindici anni”, fosse
divinata nel 1941, su una rivista del Guf, come “una vergine ebrea, tale era la
bianca e soave bellezza di quel volto”.
Anna Maria Ortese, Il Monaciello di Napoli, Adelphi, 119 €
12
Una pala eolica vuole 600 tonnellate
di cemento a acciaio come fondamenta. Di che devastare l’ambiente, prima
ancora di entrare in esercizio con l’inquinamento acustico. Oltre che le casse dello
Stato, che le finanzia integralmente.
Attraverso gli “pneri di sistema”, che tutti pagano in bolletta – due e tre vplte
il costo dell’elettricità o del gas consumati.
Il “Corriere della sera” fa due pagine
sulle auto elettriche che costano poco. La più economica costa 20 mila euro, e ha un’autonomia di 175
km. – con un abitacolo, non si dice, per forse due persone, scomode (le
ginocchia al mento).
Non si dice la capienza delle macchine elettriche, di passeggeri e bagaglio.
Bisogna essere piccoli e magri.
Restano praticamente
inutilizzati, utilizzati solo al 2-3 per cento, i 415 milioni di incentivi
pubblici per auto elettriche e auto ibride stanziati due mesi fa. L’auto elettrica
è simpatica, non fa fumo e non fa rumore, ma ci si entra con difficoltà e serve
solo in città, o per la gita fuori porta. Un lusso.
Con l’IA la domanda di elettricità
triplica, dal 2 al 6 per cento della domanda totale, stima l’Iea. Dai 460 terawattora del 2022 a 620-1.050 terawattora
nel 2026 – in dipendenza dallo sviluppo e dalle applicazioni dell’Intelligenza
Artificiale e le cripto valute. L’IA vuole molta CO2.
Il presidente Biden conservò privatamente
e divulgò volontariamente materiali segreti quando era un privato cittadino
(dopo essere stato vice-presidente per otto anni con Obama). Inclusi documenti
sulla politica militare ed estera in Afghanistan, e altre “questioni sensibili”.
Ma non ne ha colpa.
È la conclusione del Procuratore
speciale Robert Hur, nominato per indagare sulle carte sequestrate dall’Fbi in
un garage del presidente dal ministro della Giustizia, nominato a sua volta dallo
stesso presidente.
Diverso il caso dell’ex presidente
Trump. Che anche lui deteneva in un suo garage documenti segreti. Il Procuratore
speciale Jack Smith, nominato sempre dal ministro della Giustizia di Biden, lo aveva
sei mesi fa dichiarato colpevole. Incriminandolo con sette capi d’accusa. Tra
cui falsa testimonianza e cospirazione per ostacolare la giustizia, ma non la divulgazione
di segreti.
Del presidente Biden, però, il Procuratore
speciale Hur dice anche, per alleggerirne la posizione?, che è un “uomo anziano
bene intenzionato” ma “con scarsa memoria”. Non da ora, dice ancora, poiché non
ricorda gli anni esatti della sua vice-presidenza, né la data della morte del
figlio Beau di cancro – 2016.
Il cervello di
un feto, trapiantato su una donna resuscitata da un chirurgo abile e pazzo (il
feto di una donna incinta suicida trapiantato sulla madre), crea una strana
combinazione: un corpo adulto con un cervello in sboccio. Quindi lallazione,
gattonamento, camminata rigida e prime esperienze. Che toccheranno
l’affettività (l’inaffettività: il bambino, senza la famiglia, non è
“empatico”, come si dice spesso qui, anche se siamo in un fine Ottocento), il
senso e valore del denaro, e soprattutto il piacere sessuale. Quindi pratiche onanistiche,
poi con un amante focoso, ma anche lui fino a un certo punto, e infine in un
bordello, dove, altra scoperta, insieme col piacere ripetibile senza limiti, si
guadagnano soldi.
È il film più
visto in sala anche in questa settimana di Sanremo - con un incasso di 6
milioni, il secondo film più visto questo inverno dopo Cortellesi. Eccezionalmente
proibito ai minori negli Stati Uniti – in Italia ai minori di 14 anni. Ma si
vede come un film per ridere, forse: il pubblico, prevalentemente di ragazze,
ride. Forse perché impone a Emma Stone, oltre le rigidezze facciali, muscolari
e psicologiche, una grossa fatica. Si direbbe da pornostar, anche se fredda -
la moltiplicazione delle “posizioni”, con i tipi più orridi, non ne altera
l’inespressività da manichino.
Un grosso
impegno comunque s’impone allo spettatore per la protagonista. Per la fatica dello
sguardo sempre inespressivo, oltre che per le posizioni. E per le scenografie,
tanto appariscenti quanto false – fantasiose: le riprese sono avvenute nel
vuoto, di attori soli con le loro maschere e i loro costumi, e rigidi come manichini: le
ambientazioni, tutte sontuose, enormi, dettagliatissime, sono digitali,
fantasmagorie create in post-produzione.
È il secondo o
terzo film di Lanthimos che spernacchia le donne. Scritto anche questo con lo
sceneggiatore Fred McNamara - invece dell’amico Philippou con cui aveva fatto
i primi film della sua rapidissima ascesa, dieci anni o poco più, quelli “greci”.
Ma ambitissimi dalle attrici, che s’imbruttiscono per farli. Olivia Colman per
il precedente, “La Favorita”, su un stolida regina inglese, Anna, e le sue
favorite – tra cui Emma Stone. Emma Stone in questo, immancabile in ogni scena.
Forse perché a premio. Coppa Volpi per Olivia Colman nel 2017, e per Emma Stone
alla scorsa Mostra di Venezia, Oscar per Olivia Colman, un dozzina di candidature
(la più “sicura” è della protagonista) agli Oscar quest’anno.
Coppa Volpi
anche la moglie di Lanthimos, Ariane Labed, nel remoto 2010, dalle mani di
Quentin Tarantino.
Jorghos Lanthimos, Povere creature! (Poor things)
astolfo
Association Internationale Africaine – Fu il predellino di lancio
del Belgio nel Congo. Nel 1876 il re del Belgio Leopoldo II convocò una Conferenza
Geografica di Bruxelles, all’esito della quale fondo l’Association, a fini
“scientifici e umanitari”. Che fece patrocinare da un comitato internazionale
ricco di grandi nomi.
Alla
Conferenza Geografica avevano partecipato i presidenti delle Società
Geografiche di Londra, Parigi e Vienna, geografi tedeschi (Gerhard Rohlfs, Ferdinand
von Richtofen), filantropi inglesi (Thomas Folwell Buxton, John Kennaway,
entrambi in politica), qualche uomo d’affari, come l’americano William Mac Kennan.
Più nutrita la delegazione britannica, con quattro alti ufficiali,
dell’esercito e della marina, oltre ai politici-filantropi (abilizionisti), e
al presidente della Società Geografica di Londra, Sir Rutherford Alcok, un diplomatico
che era stato il primo console
occidentale a Tokyo dopo l’“apertura” del Giappone all’Occidente.
Erano
stai invitati anche i tre paesi senza colonie. Per la Germania parteciparono gli
studiosi di geografia. Per la Russia M. P. de Semenow, vice-presidente della
Società Geografica di San Pietroburgo, presidente del Consiglio Statistico. Per
l’Italia Cristoforo Negri, lo studioso e diplomatico milanese, già
collaboratore di Cavour, che era stato il presidente della Società Geografica
Italiana, di cui aveva promosso la fondazione nel 1867.
Il
Gerhard Rohlfs dell’Associazione è l’esploratore tedesco, solo omonimo del più
tardo linguista, studioso dei dialetti italiani.
Obiettivo
della costituenda Association, stabiliva la Conferenza, sarebbe stato “l’esplorazione
scientifica” delle regioni sconosciute dell’Africa, al fine di “facilitare la
penetrazione della civiltà attraverso la creazione di nuovi passaggi e trovare
soluzioni per sradicare la tratta degli schiavi”.
Berberi (seconda
parte) - Nell’infanzia e la prima giovinezza di Federico II, re di Sicilia
a soli 4 anni, nel 1198, e re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero a
18 anni, nel 2012, tra i mussulmani di Sicilia si produssero molte rivolte. In
particolate in area berbera, nella Sicilia centro-occidentale, segnatamente
attorno a Jato e Entella. L’esito fu un esodo dei mussulmani benestanti, che
liquidarono beni e proprietà e lasciarono la Sicilia per il Nord Africa. Nel
1220 Federico II, ventiseienne, intraprese una serie di campagne contro i
ribelli dell’agrigentino - non a caso identificati già come saraceni, parola derivata d all'arabo sarach, rubare. Contemporaneamente, decretava l’espulsione della comunità
mussulmana abbiente, artigiani, studiosi, notabili, oltre che dei ribelli,
verso il continente. Nel 1224 indicò le località di Lucera, in Puglia,
Girofalco (poi Girifalco) in Calabria, e Acerenza in Lucania per il soggiorno
obbligato o confino. Piccoli numeri di
musulmani furono deportati anche a Stornara, posto isolato verso Cerignola,
Castel Saraceno in Lucania, e un Castel Monte Saraceno non più reperibile. Una
deportazione prevalentemente, se non nella totalità, di musulmani berberi, come
si deduce anche dal nome che le località presero, Luceria Saracinorum, Castel
Saraceno.
Nel 1239 Federico II ordinò il concentramento delle comunità mussulmane di
Sicilia a Lucera e in Puglia. Un anno dopo la risistemazione era stata
effettuata: 20 mila musulmani a Lucera, 30 mila in altre località della Puglia,
10 mila in Calabria, Lucania, e la bassa Campania. Un’ipotesi che prende sempre più piede è che, fra le tante bande
islamiche riottose, furono proprio i berberi a spingere Federico II, sovrano
illuminato e amico dell’islam, a confinare le residue colonie islamiche in
località lontane dai luoghi da loro abitati.
Fu una migrazione senza confronto con quelle, pur
micidiali, di oggi. Anche se su terraferma e non per mare. Il resoconto più
attendibile (sono tutti di parte islamica) della migrazione forzata, detta
“grande sovvertimento”, il “Ta’rikh al-Manrusi” di Al-Hamawi, riportato da
Amari, 1889, racconta che Federico II in persona fosse passato a Lucera
nell’occasione alla testa di duemila cavalieri e sessantamila fanti.
Alla guida di una massa di centosettantamila saraceni. La cifra è giudicata
inattendibile, ma secondo lo storico la metà dei saraceni deportati morì nel
trasferimento.
Secondo le stime attualmente più attendibili, la deportazione coinvolse
circa 60 mila persone. La stima è basata sull’obbligo per queste comunità di
fornire, se richieste, un contingente militare di 6-7 mila uomini armati,
arcieri e frombolieri. Che furono effettivamente impiegati, come risulta dalle
cronache dell’epoca, almeno una volta, nella battaglia di Cortenuova, Piacenza,
nel 1237, dove Federico II sconfisse la seconda Lega Lombarda: del contingente
insulare di circa 6 mila uomini che contribuì alla vittoria facevano parte
“arcieri mussulmani di Puglia”.
Le colonie islamiche continentali prosperarono. Specialmente Lucera, presto
una città di 20 mila abitanti. Molto attiva in agricoltura e nell’utensileria.
Che Federico II dotò presto di una fiera annuale. E nel 1233 abbellì con un
palazzo fortificato, su uno dei colli. Manfredi, il figlio di Federico II e
Bianca Lancia, ebbe il titolo di sultano di Lucera. Ed ebbe sempre gli arcieri
di Lucera al suo fianco nella lunga guerra sfortunata che gli mosse il papato,
che aveva spostato il suo patrocinio dai Normani, ora Hohenstaufen, agli Angiò.
A fine secolo, nel 1300, la città fu letteralmente distrutta da un Giovanni Pippino di Barletta, per ordine di Carlo II d’Angiò.
La storia berbera meglio acquisita riguarda gli anni, metà 600-primo 700, della
Conquista araba. Che i berberi opposero. Un regno berbero, Regno dell’Aurès
(Regnum Aurasium latino) era stato creato a fine Quattrocento nelle montagne
oggi del Nord-Est algerino. Che durò due secoli, fino al 703 a.d., quando fu
abbattuto dagli arabi.
La Conquista araba in Nord Africa fu difficile, lunga oltre mezzo secolo. E poi
a lungo contestata, anche dopo che i berberi, 702, si convertirono all’islam.
Fu subito difficile attorno a Tripoli: le armate arabe arrivavano di corsa dal
Fezzan, dal Sahara, e vi si bloccavano. L’invasione fu contrastata, fra
Tripoli e l’odierna Tunisia soprattutto dalle tribù berbere degli Zanata e dei
Hawwara, che rappresentavano la parte maggiore della popolazione.
(continua)
Carlo Bianco di Saint-Jorioz – Patriota rivoluzionario dimenticato, fu un mazziniano
teorico della “guerra per bande”, ideatore di un tentativo d’invasione-sollevazione
della Savoia piemontese, nel febbraio del 1834. Ci prese parte Garibaldi, che
per questo dovette emigrare in Sud America.
Mazzini
aveva conosciuto Saint-Jorioz in Francia, e se ne fidava – lui, solitamente
diffidente dei giovani rivoluzionari infiammati. Nel 1934 Carlo Bianco aveva
quarant’anni, ma l’impresa, poco preparata, finì male, disastrosamente. Anche
per l’incapacità, o l’inefficienza, di Gerolamo Ramorino, cu era stato affidato
il comando dell’operazione – Ramorino è il generale genovese dell’esercito
sabaudo che si ritroverà in molti episodi del Risorgimento, finendo fucilato a
fine 1849, in quanto responsabile personale della sconfitta di Novara nella
prima guerra d’indipendenza Il sollevamento di Genova, che doveva fungere da
diversivo, falliva contemporaneamente. E questo coinvolse Garibaldi.
Bianco
di Saint-Jorioz avrà avuto il merito di avviare Garibaldi alla politica nazionalrivoluzionaria.
Il futuro Eroe dei Due Mondi era un marittimo ventisettenne, imbarcato da un decennio.
Nel 1832, a Odessa, il secondo imbardo da lui ricordato, aveva conosciuto un
mazziniano, che l’aveva convertito alla politica e al repubblicanesimo. Nel
marzo del 1833, imbarcato per Costantinopoli, aveva
scoperto il socialismo, seppure utopistico: la polizia aveva imbarcato di notte
sul mercantile tredici francesi seguaci di Saint-Simon, destinati all’esilio in
Turchia. Erano guidati da Émile Barrault, un professore di retorica, la cui
eloquenza incantò Garibaldi.
Barrault,
che sarà poi deputato repubblicano moderato in patria, era anche l’inventore di
una assetto particolare del sansimonismo, una comune celibataria dove si applicavano
nuove regole, della “società dell’avvenire”. Un
avvenire comunitario che si rinsaldava con l’abbigliamento: giacche e corsetti
dovevano abbottonarsi sula schiena, per esercitare la dipendenza di ognuno dai compagni.
Di lui Garibaldi ricorderà nelle tarde memorie confidate a Alexandre
Dumas la massima: “Un uomo, che facendosi cosmopolita adotta l'umanità come
patria, e va ad offrire la spada ed il sangue a ogni popolo che lotta contro la
tirannia, è più di un soldato: è un eroe”.
Nello
stesso viaggio, proseguito nel mar Nero, nello
scalo russo di Taganrog Garibaldi incontrò un altro mazziniano, detto “il
Credente”, che lo portò mettere insieme gli
ideali di redenzione, umana e sociale, con quelli di patria: “Certo non
provò Colombo tanta soddisfazione nella scoperta dell’America come ne provai io al ritrovare chi s’occupasse
della redenzione patria”, scriverà nelle “Memorie”.
Fallita l’insurrezione della Savoia, Garibaldi si rifugiò a
Marsiglia. E da
Marsiglia s’imbarcò per il Sud America, dove il marinaio si trasformerà in capopopolo.
astolfo@antiit.eu
Il barone Camillo, “il quale,
raccoglieva in sé lo stillicidio vitale di centoventisei tra baroni e
baronesse, se non isbaglio”, dopo avere spulciato senza mai distrarsi – se non
due giorni, per il necessario matrimonio - e rispulciato tutte le filosofie
morali dall’antichità ai giorni suoi, insoddisfatto, convoca il maggiordomo Floriano,
“il più antico arnese di casa Nicastro”, gli fa preparare la valigia, e insieme
partono. Una spedizione affrontano alla ricerca della virtù nel mondo.
Un racconto ne segue dal ritmo
serrato e l’inventiva continua. Di un personaggio molto “Candido” alla
Voltaire, in una trama montesquieviana, da “Lettere persiane”. Con più
buffoneria. “Or fa un secolo”, è l’attacco, “scriveva
Giangiacomo essere la Corsica il paese più vergine d’Europa. Ma dappoi
l’eredità di un tale privilegio, toltole ladramente dai Francesi, fu adita col
benefizio dell’inventario dalla sorella Sardegna; e forse sperò costei d’invogliare
così gli sposatori, che solamente adesso
cominciano a inuzzolirle dintorno. Peraltro ai tempi di cui parlo, la verginità
della Sardegna non correva ancora di tali pericoli; anzi da Cagliari a Sassari
la sua prole irrequieta, viveva allo scuro come un devoto uditorio sotto il
tendone del predicatore, credeva a Dio, ad alcuni santi, e a tutte le streghe
della tragedia, e s’accoltellava con rara semplicità senza dar di sé contezza o
desiderio al parentado oltremarino”.
Un racconto tratto dal “Novelliere
Campagnolo e altri racconti”. Di un autore da riscoprire – ha cominciato
l’America, con la traduzione delle pur voluminose “Confessioni di un italiano”,
già “Confessioni di un ottuagenario”. Per la leggibilità, e per l’inventiva
irriverente.
Uno scrittore prolifico, che
fu anche attivo patriota. Morto di nemmeno trent’anni, il 4 marzo del 1861, nel
naufragio del piroscafo “Ercole”, col quale riportava a Torino le “pezze”
giustificative della guerra che aveva fatto l’Italia unita. Da Palermo, dove era
arrivato n. 690 fra i Mille, presto colonnello, poi vice-intendente generale della
spedizione, cioè amministratore, contabile – onesto.
Silvia Contarini ne correda la
pubblicazione con una serie di note, e con corposa storia dell’idea e delle vicenda
editoriale del racconto – tra le riviste “Il Pungolo” e “Fuggilozio”, il
Risorgimento era anche scherzoso.
Ippolito Nievo, Il barone di Nicastro, pp. 126, Fondazione
Nievo, free online
Ibis, pp. 144 € 14
s. i.e., pp. 160 € 7
Con nota introduttiva,
commento, e note al testo di Silvia Contarini, Academia.edu
spock
La
verità è una, il falso tutto il resto?
La verità è che non c’è la verità?
La verità non sarà un falso scopo - un trucco del falso?
Se un amico inseguito si
nascondesse in casa nostra, e se il sicario ci chiedesse se la sua vittima è da
noi, e non fossimo in grado di evitare di rispondere, dovremmo, secondo Kant, dirgli
la verità?
“Nessuno ha diritto a una verità che danneggi altri”, B.
Constant?
Ma non ci sono punti fermi, la verità è scivolosa?
spock@antiit.eu
La storia fu poco felice dei fuoriusciti spagnoli alla fine della
Repubblica, in Francia. Erano troppi, almeno mezzo milione di miliziani si riversarono
in Francia a gennaio del 1939, seguiti da civili. L’esodo da Barcellona via mare
verso l’Urss era impedito alla maggior parte di essi, nemici ideologici: anarchici,
socialisti, comunisti – anche perché Stalin, che li aveva perseguitati durante
la guerra civile, era ora l’alleato di Hitler. La Francia non li voleva: forse
non poteva trattarli bene, erano troppi e tutti insieme, ma decise di trattarli
male: una pagnotta buttata oltre il filo spinato dei campi di concentramento,
l’utilizzo di (pochi) lavoratori nelle campagne, l’adescamento delle ragazze per
la prostituzione. La Spagna non ne ha memoria buona.
In queste condizioni, molti trovarono una via di fuga entrando in
guerra con la Resistenza francese, su fronte di De Gaulle. Molti di loro, prigionieri
dell’Italia nel Sud della Francia e internati nel campo di Laterina,
nell’aretino, dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani, fra Arezzo e Monte San Savino, o sull’Amiata. Nell’aprile 1945 la brigata
spagnola delle forze golliste fu la prima a raggiungere Torino scendendo dalle
Alpi – fu fermata alle porte della città per far passare prima i francesi.
La Brigata spagnola si era già distinta nella liberazione di Parigi,
dove perdette 28 ufficiali e 600 soldati – anche a Parigi non fu lasciata entrare
per prima, perché sui suoi carri “campeggiavano scritte rivoluzionarie”. La
Brigata continuo la Guerra fino alle ultime ore in Germania. Sono stimati in 50
mila i fuoriusciti spagnoli che parteciparono alla guerra con le forze francesi.
Di cui un 30 per cento ci lasciò la vita, o in combattimento o nella prigionia
in Germania.
La partecipazione alla guerra, su base volontaria, fu elevata perché
l’attesa era sicura che dopo ci sarebbe stato anche il rovesciamento di Franco.
Ma la Brigata venne invece spedita in Indocina, contro i Vietcong. Diverse
centinaia, second Ramella, disertarono,
per unirsi agli insorti vietnamiti. Ma la Brigata era ora una minoranza, tra
tutti i fuoriusciti: la maggior parte di essi, “poco meno di 15 mila”, erano
rientrati in Spagna, fiduciosi che, “dopo Hitler e Mussolini, sarebbe toccato a
Franco”. Non avvenne, e dovettero riattraversare i Pirenei, con morti e feriti.
Operarono contro Franco con “azioni di guerriglia operate da piccole bande”. A
nessun effetto, se non la loro decimazione. Secondo i dati ufficiali spagnoli,
dal 1944 al 1952 si ebbero 8.275 “azioni illegali”, a opera di circa 15 mila
“ribelli”. Che fecero 5.548 morti e 634 prigionieri.
Pietro Ramella, La Retirada,
Lampi di Stampa, pp. 240 € 15
Giuseppe Leuzzi
Fuori l’Italia dal Sud
Foggia ha votato a ottobre a sinistra, per darsi una
nuova faccia, contro la “narrazione” ufficiale che la vuole capitale del
caporalato e mafiosa, ma confusamente – per non votare il vecchio Pci. E poi ha
avuto problemi a fare la giunta, attorno alla sindaca 5 Stelle, e fra i 5
Stelle medesimi.
Nelle more del dibattito, il consigliere più
giovane, Mario Cagiano, 22 anni, che però ha la sapienza politica del vecchio
Pci, rileva amaro – Foggia veniva da due scioglimenti del consiglio comunale
per infiltrazioni mafiose: “Nel bene e nel male i protagonisti di questa città
sono giovani. Gli autori dei reati hanno quasi tutti meno di 35 anni…. Una
classe della mia scuola ora è quasi per intiero in carcere e i ragazzi osannano
i boss”.
Non c’è male per dei giovani. Ma è con la Repubblica,
con la democrazia, che sono nate molte mafie: le ‘ndranghete in Calabria, per
lo più impunite, che i servizi segreti vogliono una piovra globale, e l’avvelenamento
del sereno Tavoliere della Puglie, con Gargano annesso.
Non c’è riparo, la soluzione
è sempre “Fuori l’Italia dal Sud”. Via dalla “costruzione” delle mafie, invece
della punizione dei delitti man mano commessi. Oggi si sgomina in tv una banda
nei Nebrodi, i monti sopra Messina, dove si lucrava sui fondi Ue per l’agricoltura
e l’allevamento. Gran movimento, agenti mascherati, lampeggianti, qualche
elicottero s’immagina, e il solito commento tonitruante. Ma di che? Di pratiche
vecchie quanto la Ue, quando ancora si chiamava Mec. Nei Nebrodi come altrove.
Che non si combattono alle radici – agli inizi, sulle stesse carte, di richiesta,
o di concessione, dei fondi europei - e si magnificano a intervalli con l’inevitabile
banda.
Ode alla Calabria – o degli innesti
Il lungo ricordo dell’amico
Antonio Milano, di Nicastro, morto prematuramente, Paolo Rumiz conclude (“Una
voce dal Profondo”), con una commossa ode alla “Calabria tutta”. In forma di
scoperta, “a me che scavavo nelle fondamenta dell’Italia”. Per “il culto dell’ospitalità”.
Per “il rapporto viscerale con la Terra e la presenza delle Grandi Madri”. Per
“le usanze intatte che gran parte dell’Italia aveva perduto”. Per il pane, il
vino, il garum. E per l’incrocio delle
culture – cui il triestino Rumiz è specialmente sensibile: “Affiorava anche, in
Calabria, il segno dell’immigrazione dall’Egeo e dalla Sicilia che fece
ripartire la coltura dell’àmpelon e
dell’èlaion, la vite e l’ulivo”.
Un incrocio come un innesto,
di nuova linfa e di migliore futuro.
Il figlio maschio
“Mio padre avrebbe voluto un
figlio maschio, ma ebbe due femmine e scelse me per rappresentare il maschio
mancato. Mi sottoponeva a prove assurde. Nella casa di campagna mi chiudeva in
una stanza frequentata da topolini e dovevo ucciderli schiacciandoli con i
piedi. «Così diventi forte come un uomo»”.
Presentando le sue memorie,
“Siciliana”, con Alessandra Ziniti su “la Repubblica”, Teresa Principato
esordisce così. La “prima pm antimafia della storia d’Italia”, sposa di un
altro pm antimafia, Scarpinato, quello del “Dio mafioso” e di “Andreotti mafioso”,
da cui si è divorziata (colpa di Andreotti, “come moglie non esistevo più”), ce
l’ha anche con la madre - “donna algida, insoddisfatta e rancorosa”. Ma col
padre di più: “Un avvocato di provincia che non si sentiva realizzato. La sua
ferrea convinzione della superiorità del maschio ha avuto per me enormi
ripercussioni”. Sarà un pm (una pm?) ferreo.
Il rapporto genitoriale ha connotazioni personalissime,
all’evidenza (“ho pensato che per lui sarebbe stato gratificante se fossi stata
uccisa dalla mafia”). Forse solo caratteriali, dell’una e dell’altra parte. Un
padre crudele con la figlia sembra poco siciliano – per quel poco che può
significare “sembrare siciliano”. Ma essendo lei la seconda figlia femmina, è plausibile,
e anzi probabile: il senso del potere viene nell’isola prima dell’affetto.
Parlare, anche con le mani
Tommy De Vito, quarterback e
leader dei New York Giants, i campioni del football americano, ha creato una
moda negli stadi e fuori con un gesto che, ripreso in tv, è diventato virale:
il gesto del carciofo – le dita della mano destra unite e il polso agitato, per
significare, da lontano: “ma che vuoi?”, ”che intendi?”, “che ne sai?”. Molto
citato nei commenti, variamente riprodotto sulle magliette, commentato nei
giornali, anche non sportivi, come un gesto italiano, dilagante in video e
vignette su TikTok e Instagram. De Vito ha spiegato che gli è venuto spontaneo,
senza pensarci, avendolo mediato dai suoi vecchi. Il “New York Times” gli ha dedicato
un lungo commento, firmato Mark Rotella, lo scrittore che è anche direttore del
Coccia Institute for the Italian Experience in America, della Montclair State
University, una università pubblica del New Jersey.
Rotella la prende alla
lontana. Dopo aver detto che il gesto di De Vito, seppure è stato un diversivo,
come tifoso, dal campionato non buono dei Giants, ha “anche provocato in molti
osservatori italo-americani, me incluso, una buona dose di ambivalenza, se non
di imbarazzo”. Crescendo in Florida, dice, dove non c’è “la densità di italiani
che esiste nel Nord-Est”, la sua famiglia veniva riconosciuta come
italiana “dal modo come parlavamo con le
mani”. E ricorda una vecchia battuta: “Come fermi la chiacchiera di un
italiano? Legagli le mani”.
Poi ci ripensa: “È un tratto
che molto probabilmente si è sviluppato come un modo per facilitare le
comunicazioni in un paese dove i dialetti differiscono da paese a paese”. Ed è
un linguaggio “in gran parte universale”, tra italiani. Quindi un segno di
vitalità. E anche di un linguaggio che non si standardizza ma si vuole e si mantiene
molteplice.
Rotella ricorda, a questo
proposito, quando uno dei suoi “idoli musicali”, Ronnie James Dio (Ronald James Padavona), il
cantautore bassista e cantante di varie band da lui formate, da ultimo i Black
Sabbath e i Dio, “figura centrale dell’heavy metal” (wikipedia), quarant’anni
fa lanciò il gesto delle corna: le corna si fanno “contro il malocchio”, ma Dio
trasformò il gesto “in un simbolo del ribellismo del rock’ n’ roll”. Da qui la
conclusione soddisfatta: “La cultura italo-americana è in conversazione costante con le sue proprie
tradizioni e insieme col resto della cultura americana”.
Cronache della
differenza: Sicilia
Belice è Belìce, spiega Rumiz nel suo viaggio tra i
terremoti, “Una voce dal Profondo”: “Belìce da ‘U-Bilik’, nome antico del fiume
che scende nella valle” – “poi la tv nazionale disse ‘Bélice’, e
quell’arretramento romanesco sulla ‘e’ divenne sinonimo di sfiga, così la valle
perse anche il nome, dopo aver perso la memoria”. Così si fa la storia.
“Il siciliano odia il sole”, spiega un sconosciuto
alla cassa di una libreria a Napoli a Rumiz. “Pensi alla luce e all’ombra”, gli
dice, a proposito del concetto di “porosità” in cui Walter Benjamin ha racchiuso
Napoli. E sottintende: sono indistinte - “Non sono in antitesi drammatica
come in Sicilia. Una canzone cone «O’ sole mio» un siciliano non la comporrebbe
neanche morto”.
“Striscia la notizia” mostra a Palermo un “mercatino
dell’usato” a cielo aperto, dove si vende la roba rubata, anche su commissione
(cellulari per lo più, ma anche monopattini). Gestito da immigrati africani.
Mafia?
La Sicilia Rumiz, sempre a Napoli, in dialettica con
la “napoletanità”, espansiva, estroversa, dice irrimediabilmente malinconica.
Un’isola in La minore, spiega – in contrapposizione a Napoli, in Sol maggiore.
Dovendo parlare dell’Etna, il “viaggiatore inglese”
Peter de Blois (in realtà anglo-normanno, Pierre de Blois) si chiede (si chiedeva
al suo tempo, nel XIImo secolo?): “Chi
mai, domando io, può vivere sicuro là dove, in aggiunta ad altri pericoli, le
montagne vomitano sempre fuoco infernale ed emanano un vapore sulfureo?”
Se lo chiede nel “Viaggio in Sicilia” di Brydone,
1770.
La “scoperta della Sicilia” è recente, notava
Vittorio Frosini presentando Brydone, “Viaggio in Sicilia e a Malta. 1770”.
Thomas Hobwart, che vi si era avventurato prima, scriveva di “un paese
segregato in certa guisa, dal consorzio dei popoli”. E un John Brewal, che era
stato in Sicilia nel 1724, ne scriveva nel 1638 nei “Remarks on several Parts
of Europe” menzionando la Sicilia di passaggio, solo per l’Etna - per un’ascesa all’Etna che non poté fare.
Nell’entusiasta prefazione a Brydone, Frosini fa della
Sicilia il paradiso terrestre. Sull’autorità di Milton, che il rapimento di
Proserpina colloca nel “bel campo di Enna”. E di Dante – che però, a proposito
di Proserpina e del rapimento, non parla di Enna, né della Sicilia.
“I siciliani hanno sempre avuto fama di grandi
amorosi”, nota Brydone, “e non senza ragione. Tutti sono poeti, anche i
contadini”. Brydone trova nella pratica una conferma: “Io credo che sia ormai
universalmente ammesso che la poesia pastorale ha avuto origine in quest’isola”.
Brydone incorona i siciliani, oltre che poeti, anche
maestri di gesticolazione, “più dei francesi e dei napoletani”. E sul risparmio,
del gesto e del detto, invece dell’eccesso – il troncamento, il suono o il
gesto polivalente, la contrazione delle sillabe.
“Struògnuli” è Stromboli, il vulcano, nel locale
dialetto., nota Carmine Abate in “Un paese felice”. E tale è: “Anche da vicino,
ha la forma di uno strummolo, una trottola in mezzo al mare”.
Ascoltando il cantautore Alfio Antico, che “canta” il
terremoto, Rumiz ci trova la Sicilia (“Una voce dal profondo”, p. 69): “Puoi
anche non capire le parole, ma senti il fatalismo in ogni sillaba…. La morte,
insomma, vissuta non come evento terminale, ma come corrosione quotidiana”. Con
l’inciso: “Come in Leonardo Sciascia e in Gesualdo Bufalino”.
Si direbbe un’isola di scrittori,
se anche i mafiosi latitanti si occupano di scrivere, d’immortalarsi con la scrittura. Messina Denaro
ora, dopo Provenzano, volumi di pizzini. Magari ortograficamente non perfetti, ma
elaborati, concettosi. E sempre pieni di “umanità”. Bisognerà riscrivere la mafia?
leuzzi@antiit.eu
Ci fu tra i comunisti chi si
consolava, “non moriremo democristiani” (Luigi Pintor sul “Manifesto” nel 1983,
quando la Dc perse il per cento, e i
servizi cominciarono a preparare “Mani Pulite”), c’è chi assolutamente vuole morire
comunista, anche a costo di crearsi trappole e inganni. Canfora, che è stato pamphlettista
di gusto, otre che filologo robusto (sua la contestazione vent’ann fa
dell’autenticità del “papiro di Artemidoro”, avallata da Settis e altri
studiosi), e che del fascismo tutto lascia credere abbia conoscenza anche
storica, non fa mancare la sua stessa pietra al martirio. Al martirio invocato:
che il fascismo avvenga, si legge tra le righe di questa sua perorazione – come
di altre recenti, di Michela Murgia, perfino del disincantato Eco.
Il fascismo storico non gli manca
– Canfora alla fine è uno storico. Sa anche che ebbe un ruolo importante tra le
due guerre, in “Occidente”, diretto e indiretto. Diretto sugli stati e
staterelli europei e viciniori. Indiretto sulle potenze, già allora, dell’“Occidente”,
Gran Bretagna e Stati Uniti. Fino all’impero,
l’Abissinia, l’Asse, l’antisemitismo - all’alleanza con Hitler, proprio lui che
di Hitler e del razzismo tedesco diffidava da sempre (a differenza, per
esempio, della Gran Bretagna). E oggi, che c’entra? C’è violenza, bellicosità,
razzismo? No, ma il fascismo serve, anche al filologo, per tenere in piedi il vuoto antifascista, la ritualità - che ha soffocato la sinistra politica, una qualsiasi idea o proposta, dietro il comodo arrocco del fascismo in agguato. Roba da mezzo secolo fa, anni 1970 - Canfora non è cresciuto?
Luciano Canfora, Il fascismo non è mai morto, Dedalo,
pp. 96 € 13
Taylor
Swift, che il mercato ora decreta recordwoman
del pop per il quarto o quinto anno consecutivo, si era illustrata, oltre che per l’avvenenza,
per far aumentare il pil con i suoi concerti.
Uno
anno fa il primo esperimento: i suoi concerti, due, fanno aumentare di un punto
il pil della Svezia. Vero o falso? Non si può sapere – a nessuno interessa
veramente. Ma è una novità facile facile di tecnica pubblicitaria,
promozionale. Di enorme impatto, in automatico, in tutto il mondo, a tutti i
livelli di attenzione. E non costa nulla. Poi ha aumentato di 3.600, o 3.880 (l’esattezza
ci vuole) miliardi di dollari il pil degli Usa. Vero o falso? Ma la promozione
non si ferma: ora la ragazza in gambe farà il presidente degli Stati Uniti, votando
Biden – il suo annuncio è un endorsement decisivo.
Male non fa, la promozione è l’anima del commercio, ma la politica?
C’è
una penetrazione ubiqua delle tecniche
promozionali e di relazioni pubbliche. Sull’onda dell’invasione dei messaggi dichiaratamente
pubblicitari in tutte le forme di comunicazione sui social, le mail comprese
che pure dovrebbero esser e private e protette (Google è un padre-padrone
esigente). Si veda la campagna pro Ucraina, anzi le campagne pro Ucraina, inglese
e americana, inventive e accattivanti, ogni giorno da due anni ormai. Che
affiancano ai vecchi temi delle notizie di guerra (bambini morti, asili, scuole,
ospedali, mercati) una serie vastissima di immagini, più o meno significanti, di
attacchi vittoriosi, bandiere al vento, resistenze eroiche.
Ma
c’è un affinamento delle tecniche. Dalla ricetta facile: lasciare campo libero
alla fantasia, solo la “narrazione” conta. Si veda, in piccolo, per il film di
Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. Modesto, malgrado il finale a sorpresa,
e quasi intimistico, malgrado si racconti Roma occupata, a fine guerra. Diventato
il film dell’anno, grazie a una promozione tanto acuta e insistita quanto semplice:
ogni giorno social occupati da una story. Un giorno un ricordo familiare,
un altro le location, un altro alcune vedute di Testaccio,
il quartiere del film, o l’MP americano. Senza strafare ma con diligenza, un
messaggio ogni giorno per un mese, un mese e mezzo, quanto il film è riuscito a
durare in sala.
La tecnica non è
nuova. Se ne giovava per esempio lo scià di Persia: ogni giorno una notizia “benefica”
andava fornita ai giornali e alla tv per illustralo positivamente. O più recentemente
W. Veltroni quando era sindaco di Roma: ogni giorno faceva o diceva una cosa che
gli meritava di necessità l’attenzione dei media – anche dotare una ragazza
povera. Con i social è più facile.
Con
i social la persuasione occulta è diventata “il” messaggio. Facile, praticabile
con poca applicazione – il “caso Ferragni” è significativo al contrario: di
come somme enormi sono state e sono spostate con superficialità. E di nessun
costo: basta lanciare ogni giorno un messaggino, anche modesto, modestissimo.
Lo stesso con la propaganda di guerra: basta ogni giorno un’aggiunta minima alla
“narrazione” – un reminder, un richiamo. Che
inevitabilmente, prima o poi, coinvolgerà. Anche i più recalcitranti o
distratti.
Non
è uno sviluppo positivo - accumulativo, di crescita. È dispersivo – di spreco, di
risorse e attenzione (buona volontà), di perdita. Ma il problema non è la
produzione, l’industria della persuasione occulta, il problema è alla ricezione,
scesa a liveli bassissimi, basta niente per eccitare il recettore\consumatore.
Perché, chi è poi Taylor Swift, che fa?
Il racconto della ricerca del
padre. Semplice, disteso. Lungo, e senza grandi attrattive, né di eventi né di immagini. E tuttavia accattivante – sorridente nel grigiore.
In un’epoca remota, 1970-1971,
come di romanzo storico, in un lungo del New England chiuso dalla neve, di luce
grigia, un college, alcuni ragazzi variamente trascurati dalle famiglie, passano
le vacanze invernali per le Feste - Natale e Capodanno - con un professore di Storia antica, la macchietta dei ragazzi, con le sue massime di saggezza, latine e greche, solo, solitario, che il liceo normalmente
incastra durante le feste per garantire la permanenza. E con la grande cuoca,
che ha appena perso il figlio in guerra - dopo il marito in un incidente sul lavoro.
Una storia di “sfigati”. Che si trasforma, a loro insaputa, nella ricerca del
padre. Di chi padre non è, e di chi il padre ha perduto o ne è rifiutato.
Alexander Payne, The Holdhovers –
Lezioni di vita
Il
“Controluce” di Graziani sul “Sole 24 Ore” mette a confronto la settimana di
bilanci e previsioni delle banche italiane (oggi Unicredit, domani Intesa,
etc.), che si annuncia tutta positiva, con i flop nelle attese, e in Borsa, di
altre grandi banche europee i giorni scorsi – la francese Bnp, specialmente, e
l’olandese Ing. Le banche che sono state
osteggiate, con durezza, a Bruxelles dalla direzione Concorrenza, della (non) inflessibile
Vestager, e a Francoforte dalla Vigilanza Bce. E non si sa il perché.
Due
colonne di contumelie di Leonetta Bentivoglio, solitamente garbata, su “le
Repubblica”, contro Beatrice Venezi sul podio di un’orchestra sinfonica. Perché
contestata, sullo stesso giornale, “dagli orchestrali” della Filarmonica di
Palermo. Senza mai essere andata a vederla - cita stroncature altrui. Rimproverandole
di non essere Karajan, e nemmeno Thielemann – né di aver mai diretto a Bayreuth
(in quanto di destra?). Fondamentale, per Bentivoglio, la stroncatura di
Piersanti, il musicista di “Montalbano”, Nanni Moretti e Gianni Amelio. L’odio è
un sistema di echi.
Né
Bentivoglio né “la Repubblica” ricordano – giornalismo elementare – che Venezi
è stata contestata da tre orchestrali – anzi d a uno, un flautista, a nome di
altri due. Che le “prime parti” si sono dissociate dai tre. E così il presidente
della Fondazione e il direttore artistico del Politeama – che non sono di
destra . E che l’orchestra aveva appena “defenestrato” il direttore artistico
Gianna Fratta – la moglie di Piero Pelù, anche lei pianista e direttore come
Venezi – e il sovrintendente Di Mauro.
“Aspettando
il Giubileo i cantieri aperti sono seimilasettecento”. Dovrebbe essere una
buona notizia e invece accascia. Seimilasettecento? Questi “eventi” sono una
sagra della corruzione – si sa, si vede perfino. Diffusa, condivisa, e per
questo non denunciata – nessun anonimo alla Procura della Repubblica. Roma certo è fortunata, il giubileo non glielo
ruba nessuno – poi ci sono le Expo, le Olimpiadi, i Mondiali, le occasioni sono
infinite.
“Non
conta il marchio, conta dove l’auto si fabbrica”. Scopre infine l’acqua calda
il segretario della Cisl. Non si chiede però ancora come e perché l’Italia, che
produceva tre milioni di automobili, ora non arrivi a 700 mila l’anno – e che
le macchine “italiane” si facciano in Polonia o in Serbia. E perché fra tutte
le fabbriche ex Fiat l’unica a pieno volume sia Pomigliano, dove i lavoratori sconfissero
il referendum anti-fabbrica di Landini.
Quanti
delitti, quando si farà la storia del sindacalismo italiano. Ci furono anni,
gli anni 1970, in cui alla Fiat di Torino si faceva di tutto, cucina, vendita
di abbigliamento, manicure, snack, si conversava, si fumava, e ogni tanto si
fissava un bullone. Ci volle la marcia dei 40 mila per riportare la fabbrica al
lavoro – lì, per la marcia, ci volle anche il grande statista Berlinguer, che
incitava gli operai a prendersi la fabbrica, nel 1980.
La
Spagna, negli stessi anni abbandonata dalla Fiat come mercato di terz’ordine, marciò
spedita verso i tre milioni di auto l’anno, con grandi marchi come Ford e
Volkswagen. Con un governo socialista.
L’Italia
è ora il paese europeo che fabbrica meno auto. Come l’Inghilterra, che già
negli anni 1960 Ford lamentava pubblicamente scelta d’investimento sbagliata,
invece della Germania, tra pause pipì, pause snack, pause sigaretta, e conversazione.
Un tempo non remoto ai box dei Gran Premi si parlava italiano,
prevalentemente, e inglese.1
Stellantis è la vendita del gruppo Fiat da parte della
Famiglia Agnelli, che non sapeva o non voleva più gestirlo. Con grossi
dividendi. Ma non per i lavoratori, e nemmeno per gli azionisti, quelli che non
hanno la residenza olandese, e quindi devono pagare cedolare doppia. Il gruppo non
è simpatico – e non gliene frega.
Nessuno che ricordi, allo spettacolo in tribunale a
Budapest della maestra milanese carcerata per violenza le “traduzioni” analoghe a Milano di “Mani
Pulite” con gli imputati che non “collaboravano” (non denunciavano altri), per
esempio quella famosa di Renzo Carra, mite democristiano, neppure ladro.
Farebbe rigaggio, e anche colore. O un qualsiasi processo americano, dove
l’imputato è alla gogna, anche in tuta arancione, e i ferri sono pesanti e
rumorosi. È un giornalismo di memoria cortissima, istantanea. O ci sono mostri
solo a Budapest?
Ngonzi Okonjo-Iweala, la
direttrice della Wto, World Trade Organisation, assicura che l’economia globale
è in piena rifioritura,
http://www.antiit.com/2024/02/e-sempre-globalizzazione.html,
la presidente del Fondo
Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, dice di no. Al Council on
Foreign Relations americano:
“La coeperazione internazionale
è in ritirata… Il mondo sta assistendo a un aumento della frammentazione: un
processo che iniziai con barriere crescenti al commercio e agli inevstimenti e,
nella sua forma estrema, termina con la rottura dei paesi in blocchi economici
rivali…Un certo numero di forze potenti sta guidando la frammentazione.
“L’aumento delle restrizioni
al commercio di beni e servizi potrebbe ridurre il pil globale fino al 7 per
cento, o di 7,4 trilioni di dollari, l’equivalente del pil combinato di Francia
e Germania.
“Le barriere commerciali sono
proliferate grandemente negli ultimi anni. Nel 2019 sono state imposte quasi
mille restrizioni al commercio internazionale. Nel 2022 il numero è salito a
quasi tremila.
“Con il calo del commercio e
l’aumento delle barriere, la crescita globale subirà un duro colpo. Secondo le
ultime previsioni del Fmi la crescita annuale del pil globale nel 2028 sarà solo
del 3 per cento, la previsione più bassa degli ultimo tre decenni”.
Però, una crescita “solo” del
3 per cento in Europa non si produce da alcuni decenni. Dall’inizio della
globalizzazione – che si sia fatta a spese dell’Europa?
Kristalina Georgieva, Globalization
at Risk, free online