sabato 24 febbraio 2024
L’Etiopia non rinuncia al mare
Anche l’Etiopia del Nobel per la Pace Abyii persevera nella politica ormai secolare di assicurarsi uno sbocco al mare. Dopo l’annessione postbellica dell’Eritrea (nella confusa liquidazione dell’Impero di Mussolini), e la lunga guerra che ne seguì, finita col ritorno dell’Eritrea all’indipendenza. E dopo la guerra sanguinosa con la Somalia per l’Ogaden, la regione orientale che confina con la costa di Gibuti, a unpasso cioè dal mare. .
Ecobusiness
L’enorme tassa in bolletta (luce
e gas, una tassa mensile) denominata “oneri di sistema” va a finanziare impianti
di energie alternative di poca o nessuna utilità, molto inquinanti. Molto redditizie
per i gestori, senza alcun riscontro di efficienza. Di “percepita” larga corruzione - non perseguita, cioè suddivisa “equamente”
fra sinistra e destra.
Specialmente inquinanti e inutili
le pale eoliche in terraferma.
Il grande affare degli ultimi mesi
– post guera di Ucraina - è il fotovoltaico: campi di centrali desertificanti
di pannelli solari, dove niente più ricrescerà.
Si comprano in Puglia, e più in Sicilia,
dove maggiore è l’insolazione, a tre e quattro volte per ettaro il valore di
mercato per coltivazioni agricole. Tale è la cornucopia degli “oneri di
sistema”, doppiata al Pnrr. E si produce un kWh a prezzi esageratissimi. Per i quali
c’è l’obbligo di immissione in rete, con aggravio anche del costo del kWh.
Cronache dell’altro mondo – infantili (256)
L’assistenza all’infanzia (nidi, asili,
scuole materne) è diventata un settore d’investimento per i fondi di private equity – di investimento in
attività “private” (cioè non quotate per il “pubblico”, in Borsa). Perché è un
settore stabile – un bisogno primario – e naturalmente in crescita. Ed è a grande
rendimento.
La scoperta è stata fatta durante
la pandemia. Insieme con la constatazione, nota da tempo ai governi (federale e
statali) che la cura dell’infanzia si fa a costi molto elevati.
Durante e dopo la pandemia gli
investimenti pubblici per l’assistenza all’infanzia si sono moltiplicati, e i fondi
di private equity sono entrati
vantaggiosamente nel mercato.
Ci sono rischi assicurativi nela
cura dell’infanzia. Ma i fondi li evitano perché tecnicamente non sono gestori, e normalmente investono nell’infanzia
a debito. Se insorgono problemi, la loro posizione giudiziale è :”Noi non siamo padroni dell’attività,
noi siamo manager di un fondo che assiste i gestori”.
(“The Atlantic”)
Tolstòj viene meglio in inglese
Un contadino che, sul principio
della “ricottina”, si vede crescere e crescere, diventa proprietario, di terre
sempre più grandi, sempre più fertile, sempre per gradi, viene a sapere di
favolosi baškiri, di terre fertilissime lung il fiume che i Baškiri cedono per
nulla. Lascia tutto e parte. Compra te, vino e altri regali lungo il viaggio, e
all’arrivo i capi baškiri non lo deludono: per la (non) piccola cifra di mille
rubli può avere tutta la terra che riesce a percorrere in un solo giorno, purché torni al punto di partenza prima del tramonto. Il contadino non si stanca di
camminare, trascinato dalla bellezza dei campi, al punto che, quando a sera
ritorna, non si regge in piedi, e mentre il capo dei Baškiri si complimenta, “si
è guadagnata molta terra!”, crolla e muore. Il suo servo gli sfila la spada, e con
essa segna una modesta tomba, di sei piedi: è tutta la terra di cui un uomo ha
bisogno.
Un racconto breve la pieno di
annotazioni di mondi e mentalità diverse, sotto il tono favolistico, che si legge
d’un fiato. In inglese. In italiano è irto – p.es. nell’edizione Oscar,
“Racconti popolari e altri racconti”, curata da Igor Sibaldi (che forse ha solo
rivisto precedenti traduzioni). Di termini presuntamente intraducibili, che
bisogna spiegarsi in nota, di annotazioni filologiche, e soprattutto di una
fraseologia ardua. Il racconto pare sia costruito con la tecnica skaz, la parlata popolare, in questo
caso dei mužik, della gente di
campagna. Ma per più leggibilità, nelle intenzioni allora dell’autore, oltre
che per la verosimiglianza.
Lo skaz è probabilmente arduo da tradurre, nello spirito giusto. Ma la traduzione non
può andare a scapito dello spirito del racconto. Che è un apologo morale - forse
anche moralistico, sicuramente di complesso, elevato, senso economico (il
principio della “ricottina” non è quello del “calzolaio, non oltre la
scarpa!”). A cominciare dal titolo.
Leo Tolstoy, How much land does a man need?, Penguin Classics, pp. 64 € 2,38
venerdì 23 febbraio 2024
Ma il terzo mandato non lo vuole nessuno
Salvini fa proporre un terzo mandato
per i presidenti delle Regioni per gratificare Zaia, che non ha altra
ambizione, ma non lo vuole – vincerà in Veneto anche senza Zaia, e non avrà il
governatore-salvatore tra i piedi sui media. È evidente. Come Schlein non vuole
Bonacini e De Luca in posizioni di potere.
È anche giusto giuridicamente che
gli incarichi elettivi in posizione di gestione (amministrazione, decisione),
quindi sindaci e presidenti di regioni, non siano eleggibili a vita. Quando sono eletti direttamente, dal voto popolare. Come avviene, nelle democrazie presidenziali, per i capi
dello Stato eletti dal voto popolare. Diverso è l’incarico parlamentare, che può essere di decisione,
ma senza poteri esecutivi, dopo previe analisi in varie forme procedurali, e comunque sempre in concorso
con una maggioranza estesa. Qui la lunga titolarità può al contrario favorire
la capacità consultiva.
Tutto ciò è evidente. Ma non viene
detto. Sul “terzo mandato” dei presidenti di Regione le cronache politiche navigano
al loro livello più basso - poiché sono cose che tutti sano ma non si dicono, ogni parte usa la questione per giochetti coperti.
Ma che fa il papa
Lascia perplessi il papa che
viaggia serafico, malgrado le difficoltà ambulatorie, tra la condanna di una
guerra, accento appena intristito, la carezza gioiosa ai bambini che lo
festeggiano con le famiglie, le conversazioni distese con chi capita, malgrado
i dolori, anche con Fazio, a lungo, ogni tanto in tv, mentre si propone di “scuotere
le coscienze”. Sembra la macchietta del vecchio prete, quello dei sacramenti,
cui non gliene “poteva frega’ de meno” – o anche “Sudamerica, Sudamerica…”..
In diplomazia si può salvarlo, c’è
una scelta errata, tecnicamente, del ruolo del Vaticano e dei messaggi. Come si
fa ad arrivare alla “mediazione” di un cardinale giulivo, che non sa nulla e a
cui nulla viene richiesto, da nessuno dei contendenti, e nemmeno dai loro proxies? A meno che non sia lui stesso a
decidere modalità e messaggi. Mentre non si è mai attivato alla protezione dei cristiani
a Gerusalemme e in Cisgiordania. Così come altrove nel mondo. Nonché delle chiese,
bruciate o minate, e delle vite dei cristiani, che a migliaia ogni anno vengono
uccisi, specie in area mussulmana, in Asia e in Africa, e perfino in Turchia.
Con un’assurda paciosa giocondità
aggirandosi fra trappole perfino grottesche, da beffa dichiarata. Come quella
che narra oggi Filippo Di Giacomo su un settimanale del giornale “Repubblica”,
quindi filo-papalino benché laico dichiarato. Di quando, ospite del governo massone
di Trudeau in Canada, si fece abbindolare da una donnetta che si spacciava per
antropologa e assicurava di avere trovato fuori di una scuola cattolica “i resti
sepolti di 215 bambini indigeni”. Che semplicemente non c’erano. Il papa chiese
scusa, e da allora “96 chiese in Canada sono state date alle fiamme o profanate”.
La povertà in Calabria, ieri
Una serie straordinaria di
foto di bambini calabresi a scuola, e delle loro scuole, nel 1950, emersa dagli
archivi dell’Unesco, ora in mostra online. Il quadro di una povertà
imimmaginabile. Documentato in numerose località: Bagaladi, Roggiano Gravina,
San Nicolò da Crissa, San Marco Argentano. Opera di David Seymour, uno dei
fondatori dell’agenzia fotografica Magnum, alla quale nel 1950 l’Unesco aveva
affidato la documentazione della campagna di alfabetizzazione in atto nel Sud
dell’Italia. Il progetto s’inquadrava in una più larga documentazione,
“Children of Europe”, avviata due anni prima, sempre con la Magnum, dall’Unicef
e l’Unesco.
Ai primi del 1950 Seymour era già al lavoro. Assistito da volontari
locali, e dall’Associazione per la Lotta contro l’Analfabetismo, creata dal
governo De Gasperi su impulso di Manlio Rossi Doria. Parte del suo servizio era
uscito sulla rivista dell’Unesco, “Courier”, nel 1952 – “The Battle against Illiteracy.
Calabria Italy” – ma poi il materiale era andato disperso.
L’anonimo autore della presentazione
collega Seymour al neo realismo italiano postbellico. A Roma risiedette all’hotel d’Inghilterra
e fotografò le stelle di Cinecittà, ma “nella serie sull’analfabetismo il suo
stile fotografico si allinea con quello dei fotografi neorealisti italiani
postbellici, quali Enzo Sellerio, Mario de Biasi, Fulvio Roiter, Ando Gilardi,
Aldo Beltrame, Arturo, Nino Miglioro, Tullio Perrelli…”. Da maestro ad allievi,
si suppone, considerando l’anagrafe.
David Seymour, They did not stop at Eboli, Magnum
Photos, free online
giovedì 22 febbraio 2024
Letture - 544
letterautore
Georg Brandes –
Hamsun gli porge un omaggio fuori programma al termine del suo viaggio nel Caucaso,
a proposito della profonda impressione che riceve in Georgia, a Tiflis: “Mi
sento per un momento giovane e guardo estatico lontano davanti a me e sento che
il cuore batte. Provo la stessa impressione che ebbi quando per la prima volta dovevo
ascoltare una lezione di Georg Brandes. Ero in un salone dell’università di Copenhagen.
Eravamo stati un’eternità fuori per la strada sotto la pioggia, pigiati davanti
ad una porta chiusa; poi la porta fu aperta e noi ci precipitammo per le scale,
per un corridoio, dentro un salone dove trovai un posto. E aspettammo ancora un
bel po’, il salone si riempiva, un ronzio e un brontolio di voci, e
improvvisamente un gran silenzio, un silenzio mortale, sentivo battere il mio
cuore. Poi egli salì in cattedra”.
Un grato ricordo tanto più
affascinante per un antisemita, sapendo che Brandes prima si chiamava Cohen.
Cosacchi - Sono
lirici. Hamsun in Russia ne apprezza soprattutto la poesia (“Terra favolosa”, 31): “Di tutte le poesie
degli abitanti della steppa quella dei cosacchi è la più sinceramente sentita e
la più melodiosa. Né nella steppa dei calmucchi o in quella dei chirghisi o in
quella dei tartari si dicono parole tanto belle e piene di tenerezza come in
quella dei cosacchi”.
Fascismo – È stato
curiosamente erotizzato nei primi anni 1970 - in contemporanea con l’insorgere del
terrorismo, nero e rosso. In film di grande attrattiva: Visconti, “La caduta
degli dei” (1969), Cavani,
“Portiere di notte”, Pasolini, “Salò-Sade”. Da registi di sinistra, comunisti o
para. La cosa incuriosiva
Susan Sontag, “Fascino fascista”, che non sapeva ancora di Pasolini ma includeva
nel revival il cineasta
sperimentale e underground Kenneth Anger, per il cortometraggio
“Scorpio Rising”,
su omosessualità, satanismo, magia nera, bikers,
cattolicesimo, nazismo. E Mishima, che concludeva
con “Tempesta d’acciaio” (tradotto “Sole e acciaio”, per sterilizzarlo?) la riflessione avviata
con “Confessioni di una maschera” – e manca a Sontag “Il mio amico Hitler”. L’attrattiva Sontag
riduce agli omosessuali, chiedendosi in particolare: “Perché la Germania nazista,
che erauna
società sessualmente repressiva, diventa erotica? Come può un regime che perseguitava
gli omosessuali
diventare un eccitante gay?” E si rispondeva con Genet: “Il fascismo è teatro.
E la sessualità
sadomasochistica è più teatrale di ogni altra”.
Femminismo – In polemica con la poetessa Adrienne Rich, sul “New Yorker” del 20 marzo
1975, che voleva il femminismo “appassionatamente anti-gerarchico e anti-autoritario”,
Susan Sontag scrive: “Questa frase, sia un campione di «valori femministi» o semplicemente
una reliquia del sinistrismo infantile degli anni 1960, sembra a me pura demagogia.
Per quanto io sia opposta all’autorità basata su privilegi di genere (e di
razza), non posso immaginare alcuna forma di vita umana o società senza qualche forma di autorità, di gerarchia”.
Sontag era stata apprezzata femminista in quanto autrice del saggio pubblicato
due anni prima sulla “Partisan Review” intitolato dalla rivista “Il Terzo Mondo
delle donne”. A Rich precisa, col bisogno di auctoritas, altri tre distinguo: 1) “Molta della retorica femminista
non solo tende a ridurre la storia alla psicologia ma lascia con una psicologia
superficiale e così come con un senso assottigliato della storia”. 2) “Ci sono
sicuramente altri scopi che la depolarizzazione dei sessi, altre ferite che le ferite
sessuali, altre identità che le identità sessuali, altra politica che la
politica sessuale – e altri «valori anti-umani» che quelli «misogni»”. 3)”La
retorica femminista commette un’insistente imprudenza: l’anti-intellettualismo”
– che è proprio, aggiunge, del fascismo storico.
Hamsun - Voleva fare il cowboy in America, ci aveva provato. In viaggio per la Russia
in treno, nel 1899, prima dell’epopea del West, osservando ne,le pianure “mandrie
che comprendono, se non superano, mille buoi, vacche, vitelli”, ricorda: “Non
posso fare a meno di pensare alla vita delle grandi praterie del Texas, dove i
mandriani vanno a cavallo ed hanno facoltà di far uso della rivoltella contro i
mandriani del vicino che vogliano rubare le giovenche. Non ho fatto personale
esperienza di ciò, un paio di volte cercai di essere ingaggiato come cowboy, ma
per diversi motivi non fui assunto”. Uno era la miopia.
Monte Cristallo – Il monte tra Cortina e Misurina troneggia sinistramente nel primo film di
Leni Riefenstahl da regista, l’ultimo della serie fortunata di film della
montagna, una decina, di Arnold Fanck. Nel film, “Das Blaue Licht”, la luce
blu, nelle notti di luna piena una luce appunto blu irradia dalla cima del Cristallo,
che attrae i giovani a scalare il monte, a raggiungerla. Le famiglie tentano in
tutti i modi di tenere i ragazzi al chiuso, dietro imposte serrate, ma l’attrazione
prevale: i giovani si avviano come sonnambuli verso il monte e la morte nei
suoi crepacci..
Popoli dominatori – A Mosca, in viaggio nella “Terra favolosa” (prima del bolscevismo) Knut
Hamsun fa una sintesi della pensiero comune europeo in questi termini: “Slavi
penso”, si dice di due commensali al ristorante, vecchi e lucidi, “il popolo
dell’avvenire, i dominatori del mondo dopo i germani!”. Nel 1900.
Dei cinesi, in termini però non elogiativi ma accusatori
(dell’Europa imbelle) parlerà Céline, negli anni 1930.
Russia – “Una letteratura come quella russa” Hamsun a Mosca, in viaggio verso il
Caucaso, nel 1899, dice “immensa, titanica, dalle otto possenti sorgenti calde dei
suoi otto poeti giganti”.
Saffo – La prima analisi (dopo il remake di Catullo), e quella che ne stabilisce
il canone, è di Longino (o Pseudo-Longino), “Del Sublime”, I sec. D.C.: “Saffo
descrive ogni volta gli effetti dei trasporti amorosi secondo chi li vive e
secondo la verità della cosa. E dove rivela la sua eccellenza? Quando è abile a
raccoglierli e concatenarli nei loro stati estremi e le loro eccessive tensioni”.
Il trattato quindi cita alcune strofe. E commenta: “Non ti meraviglia vedere
come, in un solo movimento, va a cercare l’anima, il corpo, l’udito, la lingua,
la vista, la pelle, come tanti elementi estranei che s’allontanano da lei, e come,
contraddittoriamente, gela e brucia, sragiona e riflette (perché ha paura o è
quasi morta), per non mostrarsi in preda a un sola e unico turbamento? Tutti
gli stati di questo genere sono noti agli innamorati, ma la scelta, come ho
detto, degli estremi, e la loro fusione nello stesso insieme fanno il
capolavoro”.
“Sylvie” – Il
racconto di Nerval è stato il livre de
chevet di Umberto Eco. Per tutta la vita, confessa in “Sei passeggiate nei
boschi narrativi”: “L’ho letto a vent’anni, e da allora non ho cessato di
rileggerlo. Vi ho dedicato da giovane un bruttissimo saggio, e dal 1976 in
avanti una serie di seminari all’Università di Bologna”, con alcune tesi di
laurea e un numero speciale della rivista “Vs”. E poi, alla Columbia di New
York, un Graduate Course, con “molti
interessanti term papers”: “Ne
conosco ormai ogni virgola, ogni meccanismo segreto”. Un’“esperienza di rilettura,
che mi ha accompagnato per quarant’anni”.
letterautore@antiit.eu
Alla ricerca della Grande Russia - in Georgia
“Si ubbidisce a un uomo che sa
comandare. Si ubbidiva volentieri a Napoleone. È un piacere ubbidire. E il
popolo russo lo sa bene” (p.37).
“Non ho mai visto in nessun
posto, così chiara, la luce delle stelle come qui, tra i monti del Caucaso. E
la luna non è che a metà, ma risplende come se fosse piena”. Una novità oer il
norvegese, il “chiarore in un cielo notturno senza sole”: “Mi siedo in terra e
guardo in alto, e siccome io sono uno di coloro che, a differenza di molti
altri, ancora non si sono reso conto dell’essenza di Dio, mi immergo per un po’
nei pensieri che vanno a Dio e alla creazione.
Ero giunto in un mondo infinito e affascinante, questo antico luogo di
deportazione era la più meravigliosa di tutte le terre”.
Un viaggio nel Caucaso, fino alla
Georgia. In treno da San Pietroburgo a Mosca e Vladikavcaz, poi in carrozza.
Con un vetturino tignoso, un “molocano”, che sarebbe un “cristiano spirituale”,
un po’ eretico nella chiesa ortodossa, ma si caratterizza unicamente,
ripetutamente, per titare sull’ora di partenza la mattina – per lui devono essere
le sei. Hamusn lo effettuò nel 1899, quarantenne, finanziato da una borsa del
governo norvegese, partendo con la moglie. Qui, per la suspense, invariabilmente “la mia compagna di viaggio” le poche
volte che ricorre – ha un ruolo: scoprirà le bugie del diario, l’“invenzione”
del viaggio.
Un racconto di atmosfere. Della
luminosità dei monti del Sud, nella notte, del caldo polveroso del giorno, delle
donne non belle, degli uomini colorati e oziosi. Con uno spizzico di suspense. Molto ammirato per la Russia,
Mosca, il Cremlino, perfino le steppe.
Un viaggio tutto Hamsun. Col
racconto della natura come in nessun altro scrittore. E l’omaggio polemico
all’Autorità. Dell’impero non nasconde la corruzione, spicciola, anzi ci
costruisce gustosi aneddoti, e da subito la teorizza anche benefica – “è un comodo
e pratico sistema, quello della corruzione”, risolve i problemi, del capotreno
che deve corrompere tre e quatto volte in una notte. Ma fa il viaggio, ripete,
per vedere com’è la terra che ha ispirato i grandi letterati russi, Puškin,
Griboëdov, Lermontov, Tolstòj. Senza dire che erano finiti tra le montagne
confinati, in punizione. C’è anche l’antisemitismo: il personaggio che Hamsun
idea per simulare il “giallo”, un minimo di suspense,
di volta in volta ufficiale, poliziotto, ricattatore, è fin dal primo incontro
l’“ebreo”: “Il suo viso non è simpatico, ebreo”. Salvo poi, puro Hamsun,
imprevedibile, tributare un estemporaneo omaggio, respirando l’aria cristallina
di Tiflis, a Georg Brandes – il grande filologo danese fu
osteggiato, come si sa, in cattedra per le ascendenze ebraiche.
Con molti ricordi americani,
atipici per la sua narrativa, dei mestieri che ha praticato e i luoghi dove ha
vissuto negli Stati Uniti, quando serve un raffronto con ciò che vede, la Red
River Valley al Nord, il Texas, gli Appalachi... E molte macchiette inglesi, di
viaggiatori impassibili e indifferenti, a tutto ciò che non è inglese.
Una prova anche dell’arte di
scrivere. Quando non si ha nulla da raccontare. Oggi notevole per l’amore che
profonde per gli scrittori russi. Decine di giornate e migliaia di verste per
arrivare in Georgia, assolutamente. Una lettura controcorrente, sapendo della
Georgia di oggi, antirussa di programma, e forse anche di sentimento - ma onora
Hamsun, con una targa nell’ex hotel London, dove Hamsun ha alloggiato, “aveva
una stella”, ora Museo. Hamsun sarà presto riconosciuto grande scrittore
proprio in Russia, alla pari di Dostoevskij, ma qui non fa che proclmare,
ripetutamente, che scopo del viaggio è vedere i luoghi che hanno ispirato “i
grandi poeti e romanzieri russi”, una sorta di propagandista
Ci sono anche, fra le tante
curiosità locali, “villaggi grusici” e “costruzioni grusiche”. Cioè serbe?
Knut Hamsun, Terra favolosa. Viaggio nel Caucaso, Ripostes,
pp. 126 € 16
mercoledì 21 febbraio 2024
Secondi pensieri - 526
zeulig
Amore – Se
ne parla molto, specie nelle encicliche. Dell’amore sessuale. Silvia Ronchey ne
può fare una sintesi in carattere sul settimanale “Robinson”. Fin dagli inizi
della riflessione: “Se secondo Platone l’amore è ciò che determina tutte le
azioni e le aspirazioni degli esseri umani”, da sempre, “dagli inizi della
riflessione greca sull’origine del mondo”, l’amore “si identifica con l’energia
cosmica”. Nei presocratici. In Empedocle. Esso emerge dalla materia indistinta
come forza irresistibile, “un uovo pieno
di vento”, da cui si genera “amore dalle ali d’oro splendenti” (Esiodo).
Indistintamente sacro e profano, quello di Dante (“l’amor che move il sole e
l’altre stelle”), o della bella Sulamita nel “Cantico dei cantici” – “forte
come la morte è l’amore,\ duro come l’Ade il desiderio”.
Se
ne parla molto perché se ne sente la mancaza, checché esso sia? Proust, per
dire, che non ne sente la mancanza, non lo concepisce che come gelosia –
possesso di qualcosa-qualcuno che non interessa, e un po’anche dispiace, la Odette
di Swann, l’Albertine di mille lunghe pagine.
È
di Socrate non nel senso di “socratico”. In quello del Socrate di Platone, del
“Simposio” – che sostiene “di non conoscere nient’altro se non ciò che riguarda
l’amore”. Lo stesso chesa di non sapere.
Depressione – Si
vuole sindrome maschile: gli uomini che affrontano un trattamento antidepressivo
sono il doppio rispetto alle donne.
Più
accentuato il divario tra i suicidi: quelli maschili sono tre su quattro, il 75
per cento. Il tema delle sensibilità dovrebbe tenerne conto. Anche della
dialettica, e prassi, maschio\femmina: c’è un maschilismo da costruire.
Differenza - Molto
pensiero vi si alimenta trascurando la sua intrinseca ambiguità. Differenza insorge
dapprima e nel linguaggio comune come notazione, di addizione e sottrazione, di
più e di meno. Meglio si direbbe la diversità. Anche totale (radical), quale
può essere fra un soggetto animato o sensibile e uno inanimato.
Famiglia – È
lontana da Lévi-Strauss, che pure non è di secoli fa ma solo di cinquant’anni
fa (“Razza e storia ”): “L’unione più o meno durevole, socialmente approvata,
di un uomo, una donna e i loro figli, è un fenomeno universale, presente in ogni
e qualunque tipo di società”. Donata Francescato calcola oggi (“Destra e
sinistra”, a cura di Domenico De Masi): “Abbiamo (in Italia, n.d.r.) 8,5
milioni di persone… che vivono da sole”. Sono “il trentatré per cento degli
adulti, cioè il gruppo più numeroso in Italia”. La “famiglia” più diffusa, perlomeno
in Italia, sarebbe dunque quella “single”. Non basta: “Un altro trentadue per
cento è composto da un genitore e un figlio”. La famiglia, con vari componenti,
è quindi solo un terzo del totale della popolazione “adulta”.
Le
cifre di Francescato cozzano contro il senso comune. Ma è indubbio che molto
sta cambiando. Molti uomini “in età adulta” si vedono che passano la gironata
portando a spasso cani e cagnetti, dopo il figlioletto al nido o alla scuola. C’è
un problema di ridefinizione dei ruoli maschili, fuori dagli schemi femministi che
s’impongono da alcuni decenni, e dell’uomo sulla difensiva, che espia colpe che
non ha commesso, senza più un modi di essere, affermativo. E si è perso
certamente il ruolo della madre, che costituiva il perno dela famiglia di
Lévi-Strauss.
Una
perdita che passa per la cucina: non si fa più cucina in casa, non
continuative, non vera cucina. Non c’è più il rito del pranzo in comune,
occasione e foro di conversazione-coabitazione – Stanley Tucci in “Ci vuole
gusto” ne dà probabilmente testimonaiza a futura memoria, di una madre che
lavora (edita, traduce, scrive) e non fa mancare un pasto ai figli.
Imperfetto – L’inglese non ce l’ha, e
questo, spiega Eco ai suoi ascoltatori americani di Harvard, delle Norton
Lectures, rende difficili le traduzioni. In realtà impoverisce la lingua – Eco
non lo dice ma lo spiega: “L’imperfetto è un tempo molto interessante, perché è durativo e iterativo. In quanto
durativo ci dice che qualcosa stava accadendo nel passato, ma non in un momento
preciso, e non si sa quando l’azione sia iniziata e quando finisca. In quanto
iterativo ci autorizza a pensare che quella azione si sia ripetuta molte volte.
Ma non è mai certo quando sia iterativo, quando sia durativo, e quando sia
entrambe le cose”.
È il tempo della
storia, indefinito.
Politica
– È un’arte. Nel senso di un mestiere,
di una professione (Machiavelli). E nel senso artistico, del bello artistico (Majakovski, “Novecento”,
Goebbels).
Straniero - Non
c’è lo straniero, arguisce Tomaso Montanari per smontare l’idea e prassi di nazione,
citando Eduardo Galeano: “Il tuo dio è ebreo, la tua musica è nera, la tua
macchina è giapponese, la tua pizza è italiana, il tuo gas è algerino, il tuo
caffè brasiliano, la tua democrazia è greca, i tuoi numeri sono arabi, le tue
lettere sono latine, io sono il tuo vicino e tu mi chiami straniero?”. Eppure
c’è. Quello di Camus è uno estraneo a se stesso – un dissociato. Ma non è qualificante:
c’è di fatto, in massa. Nel mondo arabo, o le tribù africane, per stare ai nostri
vicini – per non dire delle tribù germaniche, dalle Alpi al polo Nord, superbe
per ogni verso, o del leghismo. Simon Weil non è più citata, ma soprattuto per
“L’enracinement”: questo però non vuole dire che il radicamento non esista,
solo che è rifiutato. Perché gli Stati Uiti sarebbero il Sudafrica – ci sono
bianchi e neri in entrambi i paesi? E la Fracia “repubblicana”, il paese
europeo che più a lungo e con più consistenza è stato il più mescolato, da metà
Ottoceno per un secolo e mezzo? Prima della Gran Bretagna di oggi, saldamente
inglese, nemmeno tanto “britannica”, fino alla Brexit, per quanto stupida si voglia
– governata da inglesi asiatici ma pur sempre inglesi. Si loda peraltro la Costituzione, che è una
carta d’identità.
Si
nega la diversità per il timore che degeneri in razzismo? Ma si fa torto anche all’altro, che
non si accetta per quello che è ma perché, e se, è come noi.
Suicidio – È
maschile second le statistiche, molto più che femminile. In Germania, secondo
l’Uffico federale di statistica, nel 2021 novemila e qualcosa persone si sono
tolte la vita, 254 al giorno, e per tre quarti erano maschi. In Italia, si
legge sul sito Istat, “nel 2016
(ultimo anno per il quale i dati sono attualmente disponibili) si sono tolte la
vita 3780 persone. Il 78,8 per cento dei morti per suicidio sono uomini”, quattro
su cinque: “Il tasso (grezzo) di mortalità per suicidio per gli uomini è stato
pari a 11,8 per 100.000 abitanti mentre per le donne è stato di 3,0 per 100.000”.
Il
suicidio è maschile per una condizone fisiologica? Per una condizione storica
più probabilmente, che induce all’abbandono della speranza per via dell’impegno
che è richiesto a vivere - farsi valere, imporsi, in qualche modo: all’uomo è
richiesto di combattere. Nel vasto mondo, e anche in famiglia.
Storia – È
imperfetta. Del tempo “imperfetto”, il tempo grammaticale, che fa riferimento a
tempi e modi delle azioni e gli accadimenti indeterminati. Anche in un arco di
tempo e una serie di eventi definiti.
Viaggio –
Freud lo assimila al vagabondaggio, E in entrambe le forme li dice un errare
mortuario, ma sessuomane – di sessualità
inesausta.
zeulig@antiit.eu
L’amore tra ragazze
Un’estate
di scoperte per la giovane, provinciale, inesperta Ginia nella Grande Città
(Torino), un inverno di solitudine per scelte sbagliate o mancate, e una primavea
a due, tra le due amanti che infine si riconoscono, tra il verde in sboccio, in
riva al fiume.
Laura
Luchetti racconta un amore tra giovani donne. Da Pavese prende il titolo, una parte
dell’ambientazione, la bohème, tra
pittori, con la soffitta, il vino, il poco talento, i nomi dei personaggi, ma
non la storia.
Laura Luchetti, La bella estate, Sky Cinema, Now
martedì 20 febbraio 2024
Il mondo com'è (472)
astolfo
Berberi (terza
parte) - Nei secoli i berberi sono
stati protagonisti di varie ribellioni - rientrate solo dopo l’avvento dei
Turchi ottomani, che hanno praticato una sorta di autonomia differenziata in
Nord Africa, dall’Egitto al Marocco. Le popolazioni berbere aderirono anche al
kharigismo, una setta minoritaria ora estinta, che sunniti e sciiti
temevano e combatterono, e si caratterizzava, oltre che per il radicalismo
etico connesso a tutti i movimenti radicali, “millenaristici”, anche per una
particolare considerazione della donna nella società.
Tra gli “editti” kharigiti ce n’era uno oggi di attualità, la possibilità di
una guida politica e militare femminile. E più di un caso è registrato, anche
se su fonti incerte. Nell’odierna Zuara, in Libia al confine con la Tunisia, oggi
punto d’imbarco principale dei migranti a destinazione Lampedusa, la Conquista
araba subì un arresto, al primo tentativo, contro una resistenza locale
capeggiata da una donna, Dihya o Al Kahina, appena assunta al trono dell’Aurès,
come regina.
Tra gli “editti” kharigiti ce n’era uno oggi di attualità, la possibilità di
una guida politica e militare femminile. E più di un caso è registrato, anche
se su fonti incerte. Nell’odierna Zuara, in Libia al confine con la Tunisia, oggi
punto d’imbarco principale dei migranti a destinazione Lampedusa, la Conquista
araba subì un arresto, al primo tentativo, contro una resistenza locale
capeggiata da una donna, Dihya o Al Kahina, appena assunta al trono dell’Aurès,
come regina.
Il regno di Dihya-Kahina è oggi tanto celebrato quanto è poco provato, da
documenti o testimonianze. Viene datato approssimativamente 668-703. Una
vittoria celebre, e sicura, la regina berbera ebbe alla battaglia di Meskiana,
698, contro il generale Hassan al Numan al Ghassani, passato alla storia come
il conquistatore del Maghreb.
Il suo ruolo, come regina dell’Aurès, sarebbe stato decisivo anche nel
primo arresto che la Conquista subì, nel 683, nella quale era perito il primo
comandante della Conquista dell’Ifriqyia,
Uqba bin Nafi, un “Compagno” del Profeta Maometto – già illustratosi
quale creatore della città santa (oggi tunisina) di Kairouan. Uqba, che aveva
conquistato le odierne Tripolitania e Tunisia salendo dal Fezzan, e aveva
gestito la Conquista con durezza, sarebbe stato sconfitto in realtà da Kusayla,
padre o nonno di Dihya-Khina, re dell’Aurès. In una località chiamata Tahuda,
nei pressi dell’odierna Biskra, quindi nella regione del regno berbero.
Kusayla, altrimenti noto coma Kusiela, Aksel, e anche Cecilio – combatteva gli
arabi insieme con i bizantini – era stato sconfitto, catturatio, e umiliato
pubblicamente da Uqba. Ma era riuscito a fuggire e aveva riorganizzato le sue
tribù, prendendo poi di sorpresa Uqba, che aveva schierato altrove il grosso delle
sue truppe..
Dihya-Kahina è celebrata oggi come la regina incontestata del Maghreb dopo la
vittoria, questa sicuramente da lei gestita, contro al Ghassani, il comandante
arabo successore di Uqba bin Nafi. Ma il suo dominio durò poco, stando alle date
sicure: fino alla sconfitta di Tabarka, 703, tra l’odierna Tunisia e l’Algeria,
contro lo stesso generale arabo, nella quale perì – forse suicida. È ricordata
con monumenti nell’Algeria di Nord-Est. E con un toponimo che ne segnerebbe il
luogo della morte, Bir Al Kahina, il pozzo di Kahina. Il nome Kahina è oggi
diffuso tra le donne berbere in Algeria e Marocco, e nell’emigrazione algerina
e marocchina.
Kahina è il soprannome arabo della regina Dihya, e sta per sacerdotessa, ma
con poteri magici – più strega che divina. Le poche notizie su di lei sono di
cronisti arabi: Ibn Khaldun, che ha anche una “Storia dei berberi”, e Ibn al
Athir, “Al Bayan al Mughrib”, l’osservatore del Maghreb.
Nell’Ottocento nacque tra gli ebrei d’Algeria la storia che “Kahina” fosse
di religione ebraica, di una tribù convertita all’ebraismo. Un paio di romanzi
l’hanno poi celebrata come eroina ebrea. Gli storici non sono concordi nel
repertoriare una larga presenza ebraica nel Maghreb. Una sola fonte in tal
senso è disponibile, anche se autorevole, Ibn Khaldun, che nella “Storia dei
Berberi”, nella traduzione dell’orientalista irlandese noto come barone de
Slane (William McGuckin, diplomato in arabo a Parigi, interprete ufficiale
dell’esercito francese in Algeria), scrive: “Tra i berberi ebrei si
distinguevano i Gerawa, tribù che abita l’Aurès, e alla quale apparteneva la
Kahina”.
Gli odierni abitanti di Zuara sono ancora berberi, con un dialetto berbero,
che li accomuna alla costa libico-tunisina fino all’isola di Gerba.
Una leggenda siciliana ora in disuso, ma un tempo popolare (tema stabile
dell’opera dei pupi, insieme con la storia - variamente declinata - di
Colapesce), basata su un documento del 13mo secolo, racconta di una Virago
mussulmana che per anni fece guerra a Federico II, da ultimo organizzando la
resistenza nella roccaforte di Entella, la Virago di Entella - Entella fu
storicamente un centro di cultura islamica, e anche di resistenza al dominio
normanno e poi svevo, al punto che Federico II la volle distrutta. Le radici
berbere sarebbero peraltro le prime nel Maghreb (era berbero sant’Agostino), e
la prima femminista si può dire Didone.
Resta da accertare quanto di berbero, e non di arabo, è dei Saraceni, che
per un millennio hanno infestato il Mediterraneo occidentale, e le coste
italiane. Lasciando trace notevoli negli etnonimi. Per esempio Sciascia, che è
lo skiscià berbero, il berretto. O i
Saraceno. O i tanti Morabito di Calabria (è il cognome più diffuso, dopo il
bizantino Romeo) e Sicilia - i murabit¸ come
in arabo erano chiamati i berberi almoravidi che occuparono la Spagna.
(fine)
Federigo
Verdinois – Il letterato napoletano, che fu attivo nei primi decenni del
Novecento, autore di almeno 350 traduzioni, è quello che ha impostato la
ricezione un po’ falsata dei grandi russi fino a dopo la seconda guerra. Di cui
è da presumere avesse una buona conoscenza, poiché insegnò Letteratura russa
all’Orientale a Napoli e fu segretario del consolato russo in città. Traduzioni
tutte autorizzate, più spesso per l’editore Carabba di Lanciano, allora il
maggior editore di narrativa, ma non dl tutto fedeli.
Verdinois (Caserta 1844-Napoli 1927) si
ricorda anche come primo traduttore di Knut Hamsun, benché tardo, tra il 1919 e
il 1921, a cavaliere dell’attribuzione del premio Nobel 1920 allo scrittore
norvegese. Questi definitivamente dal russo –contrariamente all’uso, che vedeva
gli scandinavi tradotti in Italia via tedesco. Tradusse prima “Pan” (1990), poi
“Fame “ (1894) – per lo stampatore-editore napoletano Giannini. Hamsun era molto
popolare in Russia, dove era celebrato come scrittore del tipo e alla pari di
Dostoevskij - con ben due edizioni delle sue opere complete nel solo 1910.
Negli stessi anni, 1917-1921, Verdinois cominciava a tradurre anche Dostoevskij,
dapprima “Povera gente”, poi “Delitto e castigo”.
Fu traduttore
rinomato di Dickens, Victor Hugo, Tagore, Shakespeare, Wilde, Hamsun per l’appunto.
Di Sienkievicz, allora molo letto. Soprattutto dei grandi russi: Puškin, Gogol’,
Turguenev, Černyševskij, Tolstoj, Gorkij, Dostoevskij. Ma in prose che
riproducono - trova la filologa Sara Culeddu, specialista di letterature scandinave,
in “Knut Hamsun in Italia negli anni 1920” – stilemi di “alcune tra le migliori novelle di
ambientazione napoletana” del Verdinois stesso. Culeddu si sofferma sulle
traduzioni di Hamsun, che confronta con le traduzioni russe coeve, alle quali fa
lui stesso riferimento nella corrispondenza, e le trova “costellate di
fraintendimenti (lessicali e grammaticali), di anomale traslitterazione di nomi
di luoghi e persone, di omissioni di porzioni di testo (poche righe o pagine
intere), o persino di aggiunte, sia si singole parole che di lunghi periodi”.
Wikipedia
lo ricorda anche come teorico del teatro. “influenzato in questo dal lungo
soggiorno fiorentino”, negli anni di Firenze capitale, tra il 18654 e il
1869: “Verdinois ne propose una rifondazione attraverso il ricorso al
vernacolo, che poteva configurarsi come ottimale veicolo di irradiazione dell’educazione,
sia civile che morale”. Era stato a Firenze per cinque anni commesso di dogana.
Fu autore di apprezzati “Racconti inverisimili”, appassionato si
spiritismo, specialmente di mesmerismo.
Kostantin Zarjan – O Zarian
nella traslitterazione italiana più ricorrente, è il poeta e il rivendicatore dell’identità
armena, che avviò dall’Italia, da Venezia, nel 1914, e uno dei testimoni più attendibili
della persecuzione degli armeni da parte dei turchi, al momento della dissoluzione
dell’impero ottomano – che documentò nel 2019 in una serie di corrispondenze
dal vivo, per “Il Messaggero” e “Il Secolo XIX”. Aveva scritto in precedenza,
nel 1915, al papa Benedetto XV, sempre per denunciare il genocidio degli armeni.
Figlio di un generale dell’armata imperiale
russa, aveva studiato in Europa, a Parigi-Asnières, dopo il liceo russo di
Bakù, e alla Université Libre di Bruxelles.Nel 2010 decide di dedicarsi all’armeno,
partendo dall’apprendimento della lingua, e si stabilisce a Venezia, ospite per
tre anni della Congregazione Mechitarista. Vivrà poi a lungo a Firenze, in contatto con Papini, Soffici, Cardarelli, Marinetti.
“Zarjan ha lottato tutta la vita per l’indipendenza
della sua patria e ne ha denunciato le sofferenze nei ‘Tre canti per dire i dolori
della terra e i dolori dei cieli’, che per il loro profondo spirito poetico e
patriottico attirano l’attenzione di Respighi” – Antonella D’Amelia, “La Russia
oltreconfine”, p. 216. Sono i poemi brevi “La mamma è come il pane caldo”, “No, non è
morto il figlio tuo”, e “Primavera”. Quest’ultimo, per soli, coro e orchestra, va
in scena alla Scala nel marzo 1923, in un concerto di “musiche italiane” diretto
da Bernardino Molinari.
Per tutta la vita Zarjan sarà impegnato nella
causa armena, in Italia e ovunque in Europa, specialmente in Spagna. E sempre
in qualche modo legato all’Italia. Che è il suo paese di elezione, a Corfù e Venezia negli anni 1928-1934 – e dove i suoi figli,
Armen, architetto, e Nvart, scultrice, sceglieranno di vivere e operare. In un intreccio
di censure e opportunità col governo sovietico, e di andirivieni con la patria.
Nel secondo dopoguerra insegnerà anche negli Stati Uniti, alla Columbia. Ma
passerà gli ultimi anni a Erevan, richiesto dal katholikòs Vazgen I di curare il Museo della letteratura e dell’arte
di Erevan.
astolfo@antiit.eu
Beffare il web, per ritrovare la gloria
Debutto col botto della
miniserie Rai, per una volta comica brillante, confidato al maestro del genere
Brizzi. Anticonvenzionale, anche eprché (un po’) antifemminista. Su dialoghi
scoppiettanti di Roberto Proia, una Ferilli in palla, tenuta con la briglia
corta da Brizzi, padrona di molteplici registri, svagato, bisbetico,
fantasioso, vittima e insieme carnefice. Una che quando ha bisogno di un
passaggio chiama “i carabineri”, e arriva un capitano dei carabinieri con
l’autiere, che è il compagno convivente del di lei fratello - questo il genere.
Mentre la “grande idea” – questo il plot -
naviga in rete: sfruttare i social, che si bevono tutto, con una finta malattia
mortale per resuscitare le quotazioni della “vechcia Gloria” del cinema-tv. Per
ora con successo.
Fausto Brizzi, Gloria, Rai 1, Raiplay
lunedì 19 febbraio 2024
L’Occidente è privato
L’Occidente è privato,
privatissimo. Patrimoniale, di Stati cioè che sono proprietà privata, nella
terminologia di Max Weber, l’ultimo studioso degli Stati – dopo di lui, ormai è
un secolo, dello Stato non si tratta più. Una categoria che si pensava estinta
col feudo e invece prospera e domina.
La categoria maxweberiana si
potrebbe estendere oggi perfino agli Stati Uniti, che pure sono lo Stato probabilmente
più democratico al mondo: finanziamento delle campagne elettorali, direttamente
e al coperto di fondazioni, strapotere dei social network, peso politico
schiacciante degli interessi costituiti, funzione pubblica limitata alla sola gestione
dell’attivo fiscale (percentualmente più oneroso per i meno abbienti). Ma non è
contendibile se solo si riflette al peso che hanno nell’Occidente le cosiddette
petromonarchie del Golfo: Emirati Arabi Uniti (Abu Dhabi e Dubai sopra tutt’e
sette), Qatar, Arabia Saudita, con Kuwait, Bahrein e Oman sullo sfondo. Arbitri
dei conflitti: tra Israele e Palestinesi, in Libano, nel mar Rosso, in Sudan,
in Etiopia, in Libia, pro e contro il terrorismo islamico. Finanziatori delle
capitali occidentali propriamente dette, direttamente (investimenti) e indirettamente
(prestiti, titoli del debito pubblico). Gestori di tutti i principali show-room occidentali: tornei sportivi,
expo, megaconferenze (clima, povertà, tecnologia).
Erano principati molto chiusi e
arretrati ancora quarant’anni fa, dieci dopo essere diventati ricchi e ricchissimi
con la crisi del petrolio 1973. Ancora nel 1975 il re saudita Feisal veniva
ucciso a palazzo, reo di moderate innovazioni - la prima scuola per femmine, due
classi con insegnanti ciechi, e la televisione, dove si recitava e commentava il
Corano. Oggi all’avanguardia della modernizzazione: edilizia monumentale,
desalinazione, idroponica, energie alternative. Ma sono stati padronali: di
proprietà familiare, per diritto di conquista, recente, più che dinastico, e di
natura e organizzazione tribale. Niente Parlamenti, niente governi eletti, gli
Stati arabi del Golfo sono un caso unico in tutto il mondo. Tutti più o meno
praticanti la sharia, la legge
islamica, soprattutto per quanto concerne la condizione femminile, nel
matrimonio e fuori casa.
Non c’è opinione, non c’è
politica, non c’è libertà, se non di guadagnare. D’accordo col potere. L’attuale
reggente saudita, Mohamed bin Salman, mise agli arresti domiciliari senza problemi
sei anni fa per “corruzione” un gruppo di cugini che volevano allargarsi politicamente
dopo essersi arricchiti - tra essi Al Walid ben Talal, che aveva investito
anche in Mediaset. E la cosa è finita lì.
Particolarmente interessante il caso
dell’Arabia Saudita. Un paese di nomadi. Cresciuto rapidamente dopo il 1973 a
40 milioni di abitanti. Dove il lavoro è svolto dagli immigrati, fra i 5 e i 6
milioni. Creato un secolo fa, tra il 1926 e il 1927, da un capo tribù,
Abdelaziz al Saud, a coronamento di una serie di vittorie sui rivali nell’allora
Heggiaz, e di una serie di matrimoni nelle famiglie rivali più importanti,
specie i Sudeiri – ventidue matrimoni sono stati censiti. Nel 1945 era già in
grado di dialogare cn Roosevelt, e con Churchill. Dalla morte nel 1953 di
Abdelaziz il regno è stato sempre
gestito dai suoi figli – l’ultimo è quello regnante, Salman.
Vigili terroristi
Fa senso nelle statistiche delle
multe stradali elaborate domenica dal “Sole 24 Ore” l’altissima percentuale di
quelle non pagate. Non solo nello sgangherato Sud, dove peraltro si fanno
(relativamente) poche multe, quelle epr così dire fisiologiche, ma anche dove
le multe proliferano – da alcuni anni sono una delle leve fiscali dei Comuni.
Se a Palermo è stao riscosso solo il 12,2 per cento delle multe irrogate, e a
Napoli il 14, nelle città più virtuose
la percentuale è stata di poco superiore a una multa su due: il 51,9 per
cento a Firenze, il 53,6 a Milano, il 63,7, record, a Bologna.
La ricerca del “Sole” mostra
anche che le multe sono state raddoppiate in pochi anni con la disseminazione degli
autovelox. Dunque, la maggior parte delle multe è per eccesso di velocità, documentato meccanicamente. Dunque, l’alta percentuale
del non riscosso è delle multe dei vigili. Un servizio, se così è, doppiamente deplorevole:
costoso e inefficace, solo terrorizzante.
Risveglio di primavera a Montparnasse
Un monumento a Manuela
Kustermann, che in solitario, in un scena senza scena, per un’ora e mezza
rilegge le memorie di Kiki de Montparnasse, a tratti anche spalle al pubblico,
nuda – come la Kiki di Man Ray. Entrare nel personaggio di Kiki non sarà stato
arduo, è simpatica, spiritosa, sa raccontarsi, ma gestirlo si direbbe
impossibile, se non che è stato fatto.
Alice Prin, per tutti Kiki, è
una vera donna, non “una signora”, spiega Hemingway, che eccezionalmente ne
presentò le memorie: “Questo è
l’unico libro per cui io abbia mai scritto la prefazione e, se Dio mi aiuta,
resterà anche l’ultimo. È scritto da una donna che, per quanto ne so, non ha
mai avuto un angolo tutto per sé. Quando sarete stanchi dei libri scritti dalle
signore scrittrici d’oggigiorno, eccovi un libro scritto da una donna che non
fu mai una signora. Per circa dieci anni Kiki fu lì lì per essere una regina, ma
questo naturalmente è molto diverso dall’essere una signora”.
“Kiki aveva un bel viso e ne aveva fatto un’opera d’arte”,
attesta Hemigway: “Aveva un corpo meraviglioso e una bella voce; fu un’icona e
certamente dominò l’epoca di Montparnasse più di quanto la Regina Vittoria non
abbia dominato l’epoca vittoriana”. Immagini dei pittori dell’epoca, gli anni
1910-1920 si susseguono, con i ricordi di Soutine, Fujita, Man Ray, che sarà
anche il suo amore – Kiki, di spalle, è il “violon d’Ingres” della celebre
foto di Man Ray.
Consuelo Barilari ha editato
le memorie e curato la regia.
Consuelo Barilari, Souvenir de Kiki, Teatro Vascello Roma