astolfo
Meticciato – Seguiva un
meticoloso ordinamento, linguistico e anche sociale, a seconda delle percentuali
di “sangue” misto col “sangue” bianco – di incroci genitoriali. La categoria e
la classificazione nascevano in dipendenza dell’occupazione europea del
continente americano e della tratta degli schiavi dall’Africa (il Battaglia non
lo registra prima del Cinquecento), e successivamente della colonizzazione
dell’Africa e dell’Asia. Assumendo nomi anche variabili a seconda dell’area geografica
di mescolanza etnica.
Il creolo, più ricorrente al femminile, nasce dal connubio di una donna africana, o già creola di suo, con un caucasico. come il
bianco era chiamato prima del politicamente corretto. Appellativo ricorrente in
letteratura, in un quadro celebrativo, di armonia dei tratti, portamento,
riservatezza, eccetera. Nei Caraibi e in Sud America creolo sono – erano - i
nati da un bianco e un’amerindia, per lo più – un incrocio tra bianco e
amerindio. In Australia tra bianco e aborigena – non se ne conoscono tra aborigeno
e bianca.
Creolo dicendosi il fifty-fifty, il meticciato si classificava per quarti di
sangue non bianco: mulatto (due quarti), quarterone, ottavino. Per aggettivo
percentuale nella più precisa lingua inglese: terceron (un
terzo di sangue “nero” – incrocio tra bianco e mulatto), quadroon (un
quarto di sangue “nero”), o quarteron, quintroon, sextroon,
hexaroon, octaroon, decaroon, hexadecaroon (un sedicesimo “nero”) e
avanti fino a venti. Si prenda l’octaroon o octoroon:
si riferiva a una persona con un ottavo di derivazione africana-aborigena. Cioè
chi aveva un nonno bi-razziale. Cioè, un bisnonno africano e sette bisnonni
europei. Un caso del genere era il poeta russo Puškin – che pure era
considerato, e si considerava, avere tratti somatici negroidi, come allora si
diceva, capelli, colorito, labbra.
Nei Caraibi la classificazione seguiva gli stessi criteri con una terminologia
diversa. Costee era un quarto nero. Mustee ci aveva
un ottavo di ascendenza africana. Sacatra il viceversa, chi era per
sette ottavi nero o africano e per un ottavo bianco o europeo. Fustee un sedicesimo nero – col
diminutivo mustifino-mustifini, un trentaduesimo nero.
Fino a non molti anni fa i meticci si credevano
sterili, per questo motivo furono detti mulatti. Una credenza che per le donne
equivaleva a licenza, per Baudelaire e non solo.
Mary Edmonia Lewis – Oggi dimenticata, fu una scultrice
romana del secondo Ottocento (1844-1907), con studio-bottega in piazza Barberini, che dispiegò una vasta attività, di cui rimangono le testimonianze però
solo in America. Di manufatti, di cui è iniziata da pochi anni la
rivalutazione, con la riscoperta della scultrice nel quadro del “rinascimento
africano”. Era infatti una afroamerindia, nata cioè in America da genitori di
origine africana e indiana. Presto stabilita a Roma, quando aveva vent’anni o
poco più, nel 1865: vi fece poco studio e molta pratica. A Roma risiedette ed
operò per quasi quarant’anni, fino alla morte, nel 1907 (è seppellita nel
cimitero acattolico del Testaccio), con un laboratorio aperto, sulle orme di
Canova, anche ai turisti. Ma soprattutto lavorò per committenze americane, di
personalità o istituzioni. Molte sue opere sono state rintracciate negli Stati
Uniti dopo la sua recente riscoperta nell’ambito dell’African Renaissance,
e si è accertata la sua partecipazione nel 1876 alla Centennial Exposition di
Filadelfia, l’esposizione del centenario dell’indipendenza – con un marmo monumentale,
del peso di quattrodici quintali, “La morte di Cleopatra”. Fu una scultrice di
segno neoclassico.
Era nata nel 1844, da padre haitiano, di mestiere valletto, presso
famiglie ricche, e madre della tribù degli Ojibwe - di Missisauga, località al
Nord egli Stati Uniti, oggi in territorio canadese. La nascita potrebbe essere
avvenuta nel 1842, stando alle varie date da lei fornite per i documenti – uno porta
anche un impossibile 1856. Il nome alla nascita era Edmonia, Mary è una sua
aggiunta. Wildfire era il suo nome nella lingua della madre – il fratellastro maggiore
era Sunshine.
Anche il padre è incerto: potrebbe essere stato Robert Benjamin Lewis,
uno scrittore afroamericano di cose etniche – ma Samuel, il fratellastro più
grande di una decina d’anni, nato in Haiti, si diceva nato da un “francese
delle West Indies”, quindi da un haitiano. Rimasta presto orfana, di madre e di
entrambi i possibili padri (Samuel Lewis morì nel 1847, Robert Benjamin Lewis
nel 1853), fu cresciuta con Samuel per quattro anni da due zie materne, vicino
le cascate del Niagara, dove le due donne esercitavano una piccola, attività
commerciale, vendendo souvenir indiani (cesti, mocassini, ricami) ai turisti. Nel
1852 Samuel partì per San Francisco, a caccia dell’oro. Edmonia restò nella
custodia di un Capitano S.R.Mills. Samuel fece fortuna rapidamente, e quattro
anni dopo, nel 1856, poteva pagarle il New York Central College, per la preparazione
al liceo, una scuola battista abolizionista. E nel 1859 un liceo in Ohio, l’Oberlin
Institute, una delle prime scuole che ammetteva donne e non bianchi. Ne sarà espulsa,
senza diploma, nel 1863.
Già a New York sarebbe stata “dichiarata selvaggia”, a suo dire. A Oberlin,
su mille studenti, quelli di colore erano solo trenta. E, a dire di Edmonia, non
potevano intervenire in classe né parlare nelle cerimonie pubbliche. L’uscita
da Oberlin era stata in sostanza un’espulsione. Nell’inverno del 1862 fu
accusata di avere avvelenato due compagne, somministrando loro nel vino speziato
la cantaride – un afrodisiaco. Ci fu un processo e ne uscì assolta. Ma subito
fu accusata di nuovo, questa volta di furto di materiali agli artisti in forza
alla scuola. Anche questa volta f assolta. Salvo essere accusata di nuovo di
furto, questa volta genericamente. E a questo punto lasciò la scuola – che l’anno
scorso le ha dato il diploma honoris causa. È considerata la prima
afroamericana, con radici native, ad avere riconosciuto lo status di artista in
senso generico. A Roma non ha mai avuto nessun problema di tipo giudiziario.
Dall’Ohio passò a Boston con l’idea già definita di praticare l’arte. Ricevette
vari rifiuti ma uno scultore rinomato, Arthur Brackett, che era anche un acceso
abolizionista, la prese nel suo studio. In
un anno o poco più di attività, Edmonia Lewis vi sbozzò molti soggetti, e anche,
in chiave di partecipazione indiretta alla Guerra Civile in corso al Sud, i
busti di John Brown e del colonnello Robert Gould Shaw.
“Non starei
una settimana rinchiusa nelle città, se non fosse per la mia passione per l’arte”,
scriveva a un’amica. Ma poi passò tutta la vita a Roma.
Riscoperta
dal revival di studi afroamericani, Mary Edmonia Lewis è in qualche modo
rappresentata (lei come un’altra afroamericana romanizzata nel secondo
Ottocento, Sarah Parker Remond) da Igiaba Scego nel personaggio Lafanu Brown,
in “La linea del colore”.
Polyamory – Una combinazione
di greco (poly, molti) e latino (amor), l’Oxfrod Languages la
dice “la pratica di impegnarsi in multiple relazioni romantiche (e tipicamente
sessuali) col consenso di tutte le persone coinvolte”. Relazioni multiple “pubbliche”,
comunicate e consentite, non clandestine. Per wikipedia è l’amore di più di una
persona nello stesso tempo, “con rispetto, fiducia e onestà per tutti i
partners coinvolti”. Il vecchio libero amore, o “relazione aperta”. Con
“rigetto dell’opinione che l’esclusività sessuale e relazionale (monogamia)
sono i prerequisiti per relazioni d’amore”. Ne fa ampi uso la pubblicistica
lgbtqia.
L’origine della parola
si fa risalire a un articolo Morning Glory Zell-Ravenehart, una profetetessa
del Neopaganesimo, sarcerdotessa di una Church of All Worlda, “A Bouquet of
Lovers”, pubblicato su “Green Egg Magazine” a maggio del 1992. L’Oxford English
Dictionary invece lo fa risalire al newgroup alt.polyamory creato su
Usenet, la prima rete internet, da una Jennifer L.Wasp nel maggio del 1992.
Sarah Parker
Redmond – Afroamericana,
ostetrica, fu attiva in Italia, a Firenze e a Roma, dove infine si stabilì, nel secondo Ottocento. Accompagnata
da una famiglia molto conosciuta a Roma, dove aveva aperto e gestiva un albergo
rinomato, l’Hotel Palazzo Moroni, nei pressi di San Pietro, in Borgo Vecchio,
165 – ora via della Conciliazione, 51.
Nata a Salem nel
1826, in una famiglia di afroamericani abbienti, e attivi abolizionisti, presto
si era legata al movimento, al seguito del fratello maggiore Charles - la sua
figura è riemersa di recente, nel quadro degli studi di storia afroamericana. Accompagnandosi alle leader dell’abolizionismo,
le americane bianche Susan Anthony e Abby Kelley Foster, in tour di conferenze
per i diritti delle donne e contro la schiavitù. Insoddisfatta, nel 1858, tre
anni prima della Guerra Civile, si trasferì a Londra, dove visse otto anni, sempre
parte attiva del movimento contro le discriminazioni razziali e di genere.
Benché affluenti,
i Remond non avevano vita facile a Salem. Provarono a iscrivere i figli a una
scuola privata, che i rifiutò. Quando infine Sarah e le sorelle furono accettate
in un istituto per ragazze non segregato, furono poi di fatto espulse perché il
comitato scolastico decise di iscriverle, sì, ma a un corso separato, per soli
neri. Nel 1835 la famiglia si spostò nel Rhode Island, uno stato meno segregazionista,
a Newport, sempre per dare un’istruzione alle figlie. Ma la scuola non le
accettò – l’istruzione si avviò in una scuola privata aperta e gestita da afroamericani.
La famiglia ritornò allora a Salem, dove Sarah proseguì la sua istruzione da
autodidatta.
Presto cominciò il
giro delle conferenze. Ma anche in questa circostanza subendo l’umiliazione di
alloggi “separati”, e poveri. Nel 1853 divenne un personaggio pubblico per
essersi rifiutata di prendere posto in una sezione segregata dell’opera di Boston,
l’Howard Athenaeum. Aveva comprato per sé e alcuni amici i biglietti per il “Don
Pasquale”, ma arrivando a teatro il gruppo si trovò confinato in un’area separata.
Sarah rifiutò il posto, e fu cacciata, a spintoni giù per le scale. Fece causa
per danni e la vinse, con un rimborso di 500 dollari, cifra enorme, il
riconoscimento della direzione del teatro di avere avuto torto, e l’ordine di “integrare”
tutti i posti a teatro.
A Londra, dove l’aveva
preceduta il fratello maggiore Charles, si trovò più a suo agio. Specie con le
altre donne del movimento abolizionista. Ci visse otto anni. Conobbe e frequentò
Mazzini. Su suo consiglio, si presume, decise di trasferirsi in Italia. Lo fece
nel 1866, a quarant’anni, con lettere di presentazione di Mazzini. Che la
indirizzò a Firenze, allora capitale, dove fu accettata alla scuola ospedaliera
di Santa Maria Novella: poté studiare Medicina, e due anni dopo si diplomò
ostetrica. A Firenze anche sposò, il 25 aprile 1877 (il certificato di
matrimonio è online), a 52 anni, un Lazzaro Pintor, di 43 anni, di origine
sarda, che è registrato come impiegato, ma potrebbe anche essere stato, allora o
in seguito, “pittore di strada” – Sirpa Salenius, la biografa di Sarah Remond nella
recente riscoperta, sintetizza così l’evento: “Il 25 aprile 1877, all’età di 50
anni come l’atto di matrimonio certifica, sposò un impiegato italiano, Lazzaro
Pintor, che successivamente divenne un artista. Era nato nel 1833 in una famiglia alto-borghese. Entrambi
il padre e la madre avevano lauree in legge…” - che sembra un po’ raffazzonato,
ascrivendo Lazzaro ai Pintor del secondo Novecento, e insieme al vagabondaggio
dell’artista di strada, mentre la prima donna avvocato in Italia arriva mezzo
secolo dopo.
A Firenze ebbe
ospite la sorella Caroline, sposata Putnam. E dopo di lei il nipote, Edmund Quincy
Putnam, con la moglie Gertrude Agnes Elliston. Dopo Porta Pia si stabilì a
Roma, in piazza Barberini 6. Qui la ricorda Frederick Douglass, lo scrittore
afroamericano che sarà la massima autorità in fatto di desegregazione e di african
renaissance, quando visitò l’Italia nel 1887. Con più calore ancora Douglass
ricorda “Gertie”, la nipote acquisita della “dottoressa”, questo il suo titolo,
che gestiva e animava l’Hotel Palazzo Moroni.
astolfo@antiit.eu