sabato 6 aprile 2024
L’aggressore aggredito - 1
La Russia è quella di Putin, con Putin o senza: trincerata, e aggressiva Tanto più aggressiva per ritenersi aggredita. Dall’allargamento della Nato, in funzione antirussa, fino a pochi chilometri da San Pietroburgo - 60 km. dal confine con l’Estonia, dove sono schierati i missili Nato. Con 100 mila truppe Nato in Polonia, 300 mila fra tre mesi. Con le sanzioni europee a cascata in questi due anni. Con la minaccia americana di appropriarsi delle riserve monetarie, in oro, valuta e obbligazioni, detenute dalla banca centrale russa in America. Una iniziativa che non ha precedenti nel diritto internazionale (è ancora sub judice perché si teme che la Cina, il maggiore tra i tanti paesi creditori degli Stati Uniti, potrebbe mettere in crisi il sistema finanziario americano ritirando le sue riserve e liquidando i titoli del debito), ma basta che se ne parli per rifare l’unanimità in Russia.
L’aggressore aggredito – 2
La
sensazione di accerchiamento diffusa in Russia si è consolidata con
l’espansione della Nato. Putin ha tentato di esorcizzarla, avvicinando la
stessa Russia all’Alleanza Atlantica. Ma non c’è riuscito, gli Stati Uniti alla
fine hanno optato per una Nato anti-russa. E il rischio del “confronto” ora è
ben più largo del conflitto con l’Ucraina.
Con
la Finlandia e la Svezia nell’Alleanza Atlantica, il Baltico è una sorta
di Mare Nato. Indebolendo o annullando la funzione di Kaliningrad, l’exclave di
Mosca tra Lituania e Polonia dove la flotta russa nel mare del Nord si
concentra (l’exclave è un territorio grande quasi tre volte Gaza, con un
milione di abitanti). Contro lo sbocco russo nel mar Nero, cioè nel
Mediterraneo, si concentra l'attività Nato, sotto forma di attacchi
missilistici e droni contro la flotta russa – attacchi ucraini ma, si ritiene,
manovrati da militari Nato. La chiusura dei mari, più che l’Ucraina, potrebbe
portare la Russia a reazioni imprevedibili – Mosca ci ha messo secoli e guerre
per uscire dall’occlusione.
La comicità è donna, e salva l’Agenzia
Si salva con gli ultimi due episodi la miniserie Call my Agent alla seconda
edizione. Con la comicità femminile: una miniserie che avrà consacrato una
serie di attrici brillanti, comprese le due Valerie, Golino e Bruni Tedeschi,
ora registe seriose. Elodie e Impacciatore sono bravissime a impersonare le superstar,
trionfi e miserie, aiutate da situazioni e dialoghi scattanti – con Dario Argento
in un paio di pose, che ridicolizza Dario Argento.
Si rivaluta in questa chiave, di comicità al femminile, anche il lavoro
delle brillanti di contorno, che hanno accompagnato tutti gli episodi: Emanuela
Fanelli che completa infine (ma lo completa?) il suo inenarrabile biopic da Grande
Attrice trascurata, e Sara Lazzaro, che rianima il ruolo vieto della segretaria
imbranata innamorata del Capo.
Prende corpo anche la “Lea Martelli” fumigante di Sara Drago, la superagente
colonna dell’agenzia, competitivissima (drago, martelli…), e femminista, specie
con le ragazze che si porta a letto, per una notte. Un’altra gag? Non si
tralasciano le molestie del regista all’attrice al provino, con lunghe, lente, solenni
riprovazioni e minacce, mentre la Martelli-Drago si porta a letto la ragazza
che al momento la eccita, ma al risveglio sempre se l’è filata, incognita – toygirl,
non pagate?
Luca Ribuoli, Call My Agent- 2,
Sky
venerdì 5 aprile 2024
La Nato suona la sordina
I 75 anni della Nato sono stati ridotti a
mera cerimonia, affollata ma di pochi minuti, non c’era niente da dirsi - non un
riesame, non un programma. L’Alleanza è solida, cioè nessuno la contesta, ma
come svuotata. Effetto della Russia? Non osa fare la guerra alla Russia, dopo
averla provocata con i suoi schieramenti, e non ha una strategia alternativa.
È che la Nato è, come è sempre stata, un’alleanza
sghemba. Non tra pari, ma di un nugolo di satelliti sull’asse americano. E l’America,
oggi, non ha nulla da dire, se non continuare la guerra “di frizione” in
Ucraina – a spese degli ucraini.
L’America ha usato l’Alleanza, dopo il crollo
dell’Urss, in Europa contro l’Europa, piuttosto che contro un nemico esterno. Contro
quella che chiamava “Fortezza Europa” negli anni 1990, quando la Ue sembrava
divenire, con l’euro, una potenza economica di primo piano. Bastò allora la
globalizzazione, l’apertura dei mercati al mondo, e specificamente all’Asia,
per riequilibrare il mercato, con la relegazione dell’Europa a un piano subordinato,
tra licenziamenti, bassi redditi, bassa produttività. Poi gli Stati Uniti si
sono fatti arbitri, stimolandoli, degli odi fra le tribù slave, che sono una
buona metà dell’Europa. Incoraggiando la dissoluzione della Jugoslavia, inventando
il Kossovo contro la Serbia, addestrando l’Ucraina e ogni altro ex suddito contro
la Russia.
L’esito? L’ipotesi di un conflitto generalizzato,
della Nato contro la Russia, malgrado il tanto parlare che se ne fa, è invece non
solo improponibile ma non voluto ed escluso a priori. Per ragioni politiche prima ancora che umanitarie.
Nessuno vuole impegnarsi direttamente in una guerra contro la Russia. La
cerimonia dei 75 anni è servita solo a dare questo messaggio. Anche perché la
Russia grande potenza militare resta nell’interesse della strategia anticinese
degli Stati Uniti.
La Russia è di Putin
Due anni di guerra, con spreco enorme di materiali,
e molti morti (50 mila, 500 mila?) non
hanno mandato la Russia nel caos o alla fame.
L’informazione sulla Russia è viziata
dalle “notizie di guerra”, in questo conflitto invadenti, giorno dopo giorno, commissionate
alle migliori firme di formazione dell’opinione. Ma la Russia resta salda,
anche politicamente. La morte di Navalny, l’oppositore principale di Putin, ha precipitato
un movimento popolare di critica implicita a Putin, con le manifestazioni di
protesta e il lutto esteso. Che però, nel momento di maggiore impegno, si è mostrato
per quello che è: un movimento ristretto, urbano, professionale
Il
regime di Putin, venticinquennale, è quello che è. Assimilabile a quello di
Erdogan in Turchia: oppositori silenziati o eliminati, critici arrestati, giornali
e siti chiusi, molto attivismo nazionalista, dai elettorali truccati – ma non
del tutto, il sostegno è sicuramente maggioritario. Putin è emerso dal nulla a
fine Novecento come l’uomo delle forze dell’ordine, contro le mafie. Come Erdogan contro le intromettenze
militari. Ma con più
determinazione, o compattezza.
La Russia non soffre Putin. Non è pronta
a un regime politico di democrazia piena, di libertà. Come la Turchia, come l’Iran:
paesi di molta storia e grandi culture ma politicamente poco articolati. E con una sindrome plurigenerazionale
di accerchiamento.
L’accostamento a Turchia e Iran è utile anche per
capire il senso diffuso di accerchiamento anche in un paese come la Russia, da
sempre aperto verso l’esterno. Degli ex sudditi ora armati dalla Nato per
Mosca, come dei curdi e degli sciiti (Siria, Iran) per la Turchia, degli Stati Uniti
e del mondo sunnita per l’Iran.
Di chi è il papa, Francesco
Facendo la conta, ci sono solo i gesuiti
dietro il papa Francesco – e non tutti. Con la chiesa “latina”
(latinoamericana), che conterà molto nel conclave dopo le nomine di Francesco
ma non decide. E alcuni cattolici negli Usa, intellettuali, studiosi. Non è più
la curia romana a criticare il pontefice, che ne ha ha ridotto o eliminato
privilegi e usi – né gli ultraconservatori. Ora sono in ballo questioni di fede.
L’isolamento del papa è emerso dopo il suo
documento dottrinale “Fiducia Supplicans”. Quello in cui prevede la benedizione
anche alle coppie “irregolari o dello steso sesso”. Una raccomandazione che va
contro la dottrina del matrimonio come sacramento - come mtuum adiutorium,
inteso alla procreazione.
L’opposizione al documento è stata generale,
eccettuata la chiesa “latina”. Il papa ha fatto allora diffondere dal dicastero
per la Fede la precisazione che la benedizione non deve protrarsi per più di 15
secondi (sic!) e che va somministrata ai singoli, anche se in coppia, ma non in
quanto coppia. Inoltre, per smorzare le proteste, ha condannato vocalmente
l’utero in affitto, “è solo mercimonio”, e la “pericolosissima” teoria gender.
La precisazione sul documento “Fiducia Supplicans” non ha bloccato le proteste.
Il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, che è stato prefetto della Fede nei
primi quattro anni di papa Francesco, poi emerito (pensionato), uno che ha
condannato l’omofobia e ha avallato la teologia della liberazione, ha pubblicato
una lettera in varie lingue per avvertire, dopo un prologo telogico, che “non
ci sono testi biblici, o dei Padri o dei Dottori della Chiesa o documenti
precedenti del Magistero a sostegno delle conclusioni di questo provvedimento”.
Un anno fa lo stesso cardinale aveva criticato
l’inflessibilità del papa sui riti in latino: “La stretta di papa Francesco sulla messa in latino è
un’imprudenza. Non è stato prudente insistere con intransigenza nel
disciplinare i cosiddetti tradizionalisti. Sarebbe bastato mantenere il motu
proprio del 2007 di papa Benedetto, che era più prudente perché teneva dentro
tutto il panorama ecclesiale.
Al Pontefice suggerisco di essere maggiormente
attento a tutte le sensibilità dentro la Chiesa, anche quelle più lontane dalle
sue”.
Il papa ha risposto con una battuta
polemica: “Nessuno si scandalizza se benedico un imprenditore che sfrutta la
gente, che è un peccato gravissimo, mentre accade se si tratta di un
omosessuale: è ipocrisia”. Il papa, che si vuole radicalmente progressista, lo
è in forma oggi si direbbe populista, e questo apre lo spazio ai distinguo,
anche fra i porporati che gli sono stai e sono accanto.
Sul documento “Fiducia Supplicans” la chiesa
Copta si è detto “costretta” a congelare il dialogo teologico con Roma. E il
Secam, Symposiun of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar, che
riunisce le conferenze episcopali africane, ha detto che non applicherà il documento
- papa Francesco ha disposto per loro un’esenzione.
Contro i padri, e le donne
Il pittore del titolo è un ex cecchino della Cia, imbattibile. Vive e dipinge
appartato, in Oregon, ed è felice, con una nuova compagna, finché un’apparizione
lo riporta al passato. Una ragazza che si dice sua figlia. Ma forse non lo è.
Oppure è una killer, addestrata dalla Cia in un programma di condizionamento di
neonati, che rapisce al parto.
La genitorialità esposta. Padre del pittore riportato alle mattanze è Jon
Voight, tanto affettuoso quanto terribile: il cowboy di mezzanotte, nonché genitore
di Angelina Jolie, ormai ottantenne, è lui che ha cresciuto il figlio con la sindrome
del dell’assassino infallibile. Sotto esame, però, è anche il femminismo: sono terribili
anche gli agenti della Cia che perseguitano il pittore, due donne.
Sistema conti in sospeso lo sceneggiatore? È Brian Buccellato, fumettista
di vasta produzione e fama, colorista dei megafilm dei supereroi Marvel, Batman,
Superman&co..
Kimani Ray Smith, The Painter , Sky Cinema, Now
giovedì 4 aprile 2024
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (555)
Giuseppe Leuzzi
“Cristo non è a Eboli, dove si è fermato?”, si
chiedeva un mese fa sul “Crrire dela sera” Paolo Di Stefano. Turbato forse dal
parricidio opera di uno squilibrato, ma allargando l’obiettivo: “Ora non voglio
demonizzare Eboli, ma la slavina di brte notizie proveniente da quella città-simbolo
fa pensare, appunto, che il «dolore terrestre» di cui scriveva Levi non è più confinato
in una «terra oscura» ma si è diffuso un po’ ovunque”. La «terra oscura»
riacquista legittimità? Nel crimine comune?
Schiavone, “Sandokan”, “Il re
dei Casalesi”, che ora si pente, dopo 26 anni al 41 bis, a suo tempo il
superriecrcato numero uno, fu catturato, dice il vicequestore che lo catturò,
nella sua casa, a Casal di Principe, dove viveva con la moglie e i figli
piccoli.
Si prepara una serie Netflix
in costume, in cui i briganti del Sud sono donne: una contadina malsposata, la
moglie ammazzasette di un capobrigante, e una risorgimentale socialista.
Dacché la “donna del Sud” è uscita
dal cliché lombardo-veneto, se ne fa l’avamposto del femminismo. Ma la
“cosa” è più complessa – la donna del Sud anzitutto è madre.
Sudismi\sadismi
L’Inter ha, fa sapere, spiega con lunghe dichiarazioni, un
problema di mafia nella sua curva allo stadio. Di ‘ndrangheta specificamente. Di un paio di
calabresi criminali (ma non incriminati) che vanno allo stadio. Per vendere droga? No. Per corrompere i
calciatori? No. Per rivendersi i biglietti? Forse. Non sono i soli, anzi - saranno due delle
miriadi di topi nel formaggio. Ma non c’è crimine se non c’è mafia.
Ricordando in consiglio comunale Miran Hrovatin, il fotoreporter ucciso trent’anni fa a Mogadiscio, il presidente del consiglio, Francesco di Paola Panteca, ne avrebbe sbagliato nome e sesso, parlando di Miriam, uccisa. È quello che sul “Corriere della sera” si precipita a denunciare il superleghista Stella – sull’autorità, non dichiarata, di una consigliera grillina, Richetti, e di una consigliera grillina trombata alle elezioni, Danielis. Una satira di Panteca, miserabile “brindisino d’origine” – di cui storpia il nome di battesimo, chiamandolo “Francesco Di Paola (nome) Panteca (cognome)”. Se non che, come “brindisino”, o comunque di madre sicuramente meridionale, se lo ha voluto battezzato come Francesco di Paola, non il san Francesco per antonomasia, quello di Assisi, Panteca avrà la pronuncia larga, consonantica e vocalica, tra betacismi, palatalizzazioni e rotacismi - il cosiddetto “napoletano” della Linguistica.
Ma peggio Panteca ha fatto rispondendo agli sberleffi grillini, questa volta per iscritto: “Io sono a Trieste dal 1979. E conoscevo personalmente Miran Hrovatin. L’ho conosciuto come fotografo a Sgonico dove svolgevo il mio lavoro di attività lavorativa”. Cioè con una pezza peggiore del buco, per dirla alla Stella, il “lavoro di attività lavorativa” invece che investigativa, da luogotenente della Finanza. Condanna irreversibile.
Questo Panteca
deve avere sugli ottant’anni, se nel 1979 lo mandarono a Sgonigo, col grado di luogotenente,
il secondo più alto degli ispettori di Finanza, subito sopra il maresciallo. Ha sprecato
i due terzi della
sua vita.
La
mafia, eccola qua
La
realtà dei fatti sui Capriati di Bari smentisce l’allegra versione del
presidente della Regione Puglia
Emiliano. Sui suoi contatti ravvicinati con la famiglia del capoclan di Bari
Vecchia, Antonio Capriati,
“Tonino”, oggi 67nne. Uno che al processo – ai processi, a cavaliere del 2000 –
si presentava
in camicia bianca,
cravatta, occhiali da vista a goccia, anticipando la tendenza, e onde di parrucchiere, come un
professionista perbene. Da tempo in carcere, e dal 2008 definitivamente all’ergastolo, in
cattività ha continuato a gestire gli affari: estorsioni, usura, stupefacenti.
Attraverso il nipote Raffaele
detto “Lello”, figlio del fratello Sabino, 39 anni, ora assassinato da cosche
rivali. Un altro nipote, Domenico, era stato assassinato nel 2018, a 49 anni. In
precedenza altri due nipoti, collaterali, Filippo e Pietro, avevano assunto la
gestione del
clan,
moltiplicandone le ramificazioni nella provincia di Bari, e fino in Basilicata.
Arrestati nel 2018, di
aprile, e condannati i due nipoti, il clan aveva continuato a prosperare. Una
retata a settembre
ha portato a sessanta arresti, parte di una struttura “verticistica e gerarchizzata”
- con 600 mila euro
in contanti in capo al membro del clan che gestiva le slot machines.
Un clan
di “impuniti”, in un certo senso – nel senso romano della parola. E di
assassini. Non di mammolette,
come s’immaginava ascoltando Emiliano. Nei giorni in cui il presidente della
Regione Puglia, ex giudice antimafia, pubblico accusatore di Tonino in Tribunale, raccontava il
suo aneddoto
pacioso, un altro nipote, Vincent, figlio di una sorella di Tonino, Elisabeth o
Elisabetta,che ritroveremo,
si passava il tempo inneggiando sui social allo zio ergastolano.
Non sono i Capriati la famiglia tutto sommato innocua che Emiliano, non un semplice, già giudice antimafia, già sindaco di Bari, già concorrente pure alla segreteria del Pd, lascia intendere con la storiella che lo ha portato sulle prime pagine. Raccontata a una manifestazione indetta dal Pd in solidarietà col sindaco in carica, Decaro, la cui giunta è stata messa sotto inchiesta dal ministero dell’Interno. Qualche anno dopo l’incontro ravvicinato e risolutivo da lui raccontato con una sorella del boss, nel 2001, ci fu una faida tra i Capriati e i concorrenti Strisciuglio, con molti morti, tra cui un ragazzo ucciso per errore, a sedici anni, Michele Fazio. “Lello”, ora assassinato, si è fatto sedici anni di carcere per “concorso” nell’assassinio del ragazzo Fazio – era stato scarcerato un anno e mezzo fa.
Scarcerato,
coincidenza, con due cugini figli di Tonino, Giuseppe detto “Ciccio” e Francesco
detto “Ceschetto”,
e con un suo proprio figlio, Sabino (in onore del nonno, fratello di Tonino). Il giovanissimo
Sabino era in carcere da due anni per traffico di droga. Giuseppe detto “Ciccio”
anche lui si
era fatto due anni, per scommesse illegali. Francesco detto “Ceschetto”, 46
anni, usciva dopo diciassette
anni di carcere. Per traffico di droga e di armi. Un boss di suo, a Valenzano, sposato
con Marina
Stramaglia, oggi 42nne, figlia ed erede del locale boss, Michelangelo, assassinato
da un concorrente
nel 2009 – una morte di cui la figlia aveva organizzato la vendetta. In
carcere, “Ciccio” ha
potuto concepire con Marina un erede.
Anche le
donne fanno parte del malaffare nel clan Capriati. Nel 2011, al termine della solita
lunga sequela
di giudizi, la Cassazione ne condannò dieci per associazione mafiosa. Tra esse
la principale era la moglie dello stesso Antonio Capriati, Maria Faraone: gestiva l’usura e il pizzo. Inoltre,
erano una
cosca, i Capriati, non piccola: al processo conclusosi in Cassazione a maggio
del 2011, il clan risultava
controllare (pizzo obbligatorio) Bari Vecchia, parte del Rione Murattiano, e
Modugno.
Non c’è
limite, insomma, né di articolazione familiare né di generazione, alla propensione
dei Capriati
al crimine. E di Antonio Capriati si ricorda che ancora nel 2004, nei dodici giorni
di libertà che godette
tra un processo e l’altro, impose un’estorsione a un concessionario di auto:
una Y 10 da regalare
alla figlia per i diciotto anni.
Questa
la tela di fondo. Su cui non c’è giustificazione che tenga. Compresa la premura
di una sorella
di Tonino, Ida, che con l’aiuto del Tg 1 ha provato ad accreditare la versione
di un Emiliano un po’
svanito – “non è mai stato qui”. Brutta politica, nella migliore delle ipotesi
politichicchia.
Ma l’aneddoto
di Emiliano, che ha messo in difficoltà il suo (ex?) figlioccio politico e ora
sindaco di Bari,
Decaro, non va per questo liquidata, come imprudenza, o impudenza. Che cosa
ha detto Emiliano? Secondo la versione più attendibile, quella cui si attiene
la Commissione
parlamentare antimafia, questo: “Un giorno sento bussare alla porta, Decaro
entra, bianco
come un cencio, e mi dice che era stato a piazza san Pietro e uno gli aveva
messo una pistola dietro la
schiena perché lui stava facendo i sopralluoghi per la ztl di Bari Vecchia. Lo
presi, in due andammo
a casa della sorella di Antonio Capriati, che era il boss di quel quartiere, e
andai a dirle che
questo ingegnere è assessore mio e deve lavorare, perché c’è il pericolo che
qui i bambini possano
essere investiti dalle macchine. Quindi, gli ho detto, se ha bisogno di bere,
se ha bisogno di assistenza,
te lo affido”. “Le” ho detto sarebbe stato più preciso, ma la sostanza c’è:
Emiliano, allora sindaco
di bari, ex giudice antimafia, di fronte a una minaccia mafiosa non denuncia ma
si accorda – sa anche
che le donne in quel clan contano, non è scontato.
Questa è
l’apparenza della cosa. Lo scandalo conseguente è in sintonia con l’antimafia
che ci Governa.
Dopodiché si scopre che Antonio Capriati è in carcere da trent’anni e più.
La questione
è politica – compresa la curiosa sbadatezza dei cronisti, che glissano su molte
cose che pure sono
nei loro archivi se non nella memoria, per cui merita ricostruire la vicenda
nel contesto. Ma sul
piano del costume, e anche del diritto, Emiliano dice una cosa giusta, che non si
vede perché non si
applica: l’arresto e la condanna dei mafiosi, come di qualsiasi altro criminale.
Subito, dopo il delitto. E la prevenzione del delitto, se se ne ha il sospetto.
Si parla
di mafie come se fossero quella siciliana di fine Novecento. Una storia che ha dell’incredibile:
due uomini da nulla, Riina dopo Liggio, che con con una banda di stupidi, per quanto sadici,
per quarant’anni hanno compiuto violenze incredibili, assassinando centinaia e
forse migliaia
di persone, compresi un centinaio di alti rappresentanti dello Stato, giudici, parlamentari, politici,
sindacalisti, commissari di Polizia, questori, maggiori e colonnelli dei Carabinieri,
generali.
Un
passato recente spaventoso, a guardarlo in retrospettiva, opera di bande di
nessuna qualità, si è saputo dopo
che sono stati catturati - in larga parte, purtroppo, pentiti, “collaboratori”
e “testimoni di giustizia”…
Il crimine si combatte subito e direttamente, senza teorizzare, la politica o
la società.
Le “famiglie”? Sì, sono complicate. Prendiamo le Capriati che si sono fatte il selfie con l’ignaro Decaro alla festa patronale. Annalisa Milzi, la giovane della foto, nipote collaterale di “Tonino”, sposata con Tonino Cortone, “una vita dedicata alla scrittura di libri sulla storia di Bari e sulle sue icone religiose” (Nicolò Delvecchio, “Corriere della sera”). Sua madre Isabella Capriati, sorella di “Tonino”, sposata Milzi, può dire: “Io lavoro da 50 anni e ho sempre fatto le cose per bene”. L’altro suo figlio, Vincent, è quello che sui selfie con Decaro, fratello di Annalisa, celebra sui social lo “zio Tonino”, e si proclama “sempre al tuo fianco”. Nella famiglia Capriati erano undici, tra fratelli e sorelle.
leuzzi@antiit.eu
Quando l’Italia passò alle “leggi speciali”
Una grande mostra, ricca di immagini. Con foto, manoscritti, libri, articoli
di giornale, filmati, documentari, e i reperti commemorativi (quadri, sculture,
ceramiche, perfino brani musicali). Specialmente interessante nelle due sezioni
“Matteotti giovane”, nel Polesine, e “Sequestro e morte”, i due anni 1924-1926
che segnarono la rottura radicale di Mussolini con la Costituzione, e le leggi
speciali contro i partiti e la libertà di opinione.
Una storia nota, ma “vederla” fa ancora impressione. Che sia potuto succedere,
che l’Italia vi si sia immersa senza resistenze.
Un grande mostra, promossa dal Campidoglio, curata dallo storico Luca
Canali. In begli ambienti, spaziosi e anche luminosi. Ma vuota, o quasi –
mentre la mostra accanto, sulla calligrafia giapponese del Settecento, in ambienti
angusti e bui, scoppia di pubblico. La democrazia non ama discutersi? La “gente”
vuole solo svagarsi?
Luca Canali (a cura di), Giacomo Matteotti.
Vita e morte di un padre della Democrazia, Museo di
Roma a palazzo Braschi
mercoledì 3 aprile 2024
L’Ucraina non finirà a Vichy
L’Ucraina non capitola. E comunque non ha
un maresciallo Pétain, quello che il nemico lo aveva sconfitto nel 1918, per fare
un armistizio, per quanto criticabile – una pace, per quanto temporanea e non
libera, non del tutto. Se c’era, Zelensky ha provveduto ad eliminarlo, nelle “liquidazioni”
vecchio stile cui periodicamente procede.
Per fare un armistizio, soprattutto in una
guerra che si è provocata, e che è in larga misura perduta, ci vuole uno che se
ne assuma la responsabilità. E che sia anche una garanzia, di libertà e di
integrità, per quanto concordata, e quindi accordata. Le altre condizioni ci
sono. L’odio dei russi in Ucraina non è così radicale come l’Occidente è stato
portato a credere, malgrado le distruzioni e i lutti della guerra. Né la Russia
può pretendere che un terzo dell’Ucraina sia suo “territorio nazionale”. Ma per
sapere tutte queste cose bisogna trattare. E il Pétain ucraino non c’è, non si
vede.
Di Pétain si potrebbe anche
argomentare che, accettando l’armistizio, ha tenuto un largo pezzo della Francia
intatto, per la riscossa. Ma, certo, in Ucraina nessuno sbarco è previsto.
Ma la Nato ha perso la guerra
L’Ucraina “diverrà un membro della Nato. È questione di quando, non di se”,
afferma il segretario dell’Alleanza Atlantica Stoltenberg. Nomen omen?
Perché allora la Nato ha perso la guerra.
La Nato è impotente. Ha portato l’Ucraina a sfidare la Russia, e
ora si limita a fare “la faccia feroce” – era questo uno dei canoni della tecnica
militare borbonica detta dell’ammuìna, del fare finta: “Facite ‘a faccia
feroce!”
Gli Stati Uniti
non sono minimamente interessati a una guerra contro la Russia. Aiutano l’Ucraina
quanto basta per rinnovare i propri arsenali – e tenere l’Europa in guerra. E l’Europa
è al solito “vorrei ma non posso”. Ora si parla di difesa europea, e già
parlarne sembra rivoluzionario. Ma sul niente: non ci sono, e non ci saranno in
tempi prevedibili, eserciti, comandi e piani militari integrati, una strategia
europea. Per ora c’è l’assurdo che la
Ue, una quasi nullità in termini di potenza militare, ha speso per la difesa 240
miliardi nel 2022 (e 286 miliardi nel 2023), contro gli 80 circa della Russia,
che è una superpotenza militare ed è in guerra. Macron, poi, è il tipo dell’“armiamoci
e partite”- è bellicoso solo per non cadere nel vuoto al voto europeo tra due
mesi, è un presidente che nessuno si fila.
La strategia
americana è evoluta - ma forse solo si precisa - verso uno stallo. Che sarebbe
un po’ un cappio attorno all’Europa, anche se di questo non si discute. Volendo
razionalizzare, è come se gli Stati Uniti avessero condotto l’Europa a uno
stato di tensione permanente, ineliminabile in tempi prevedibili. Aleggia
ancora il “fuck the Eu”, il vaffa alla Ue, dieci anni fa, prima della crisi di
Crimea, della vicesegretaria del dipartimento di Stato di Obama (e di Biden,
allora vice di Obama), al suo ambasciatore a Kiev, che le opponeva le riserve
europee sul rischio di precipitare le cose in Ucraina contro la Russia. E
l’avvertimento (pubblicato da wikileaks) dell’ambasciatore americano a Mosca
nel 2008, Wiliam J. Burns, che l’1 febbraio di quell’anno mandava a Washington
un’analisi allarmata con questo titolo: “Nyet
significa nyet. Le linee rosse
della Russia all’espansione della Nato”. Nel testo specificando che l’Ucraina
nella Nato era ipotesi irricevibile a Mosca. Burns è il capo della Cia della
presidenza Biden.
La Russia non è un
nemico americano. Non c’è paura, non è più la Russia che minacciava la proprietà,
non interessa all’opinione. Sui media la guerra c’è poco o niente – le cronache,
rare e distanti, per lo più sceneggiano confidenze dei vari servizi di intelligence. Sui social è assente. La guerra non c’è neanche nella campagna
elettorale. In Congresso c’è stallo sui finanziamenti. Ma non perché i
Repubblicani mettono in difficoltà la presidenza Biden: molti Repubblicani sono
a favore, molti Democratici sono contro.
Dal superbonus al giubileo, il sindaco della provvidenza
Imperturbato Gualtieri, oggi sindaco di
Roma, prosegue dal Campidoglio la frenesia spendereccia che lo contraddistinse
al ministero dell’Economia. Oggi per i mile o duemila appaltatori romani, grazie
ai fondi speciali per il giubileo (essere sindaci di Roma al quarto di secolo è
una pacchia, paga tutto lo Stato). Quando fu all’Economia col miracolo del superbonus,
che secondo gli ultimi calcoli del suo ex ministero costerà 200 miliardi. Un’enormità,
anche Paperone si sarebbe spaventato. Di cui avrà beneficiato il 4 per cenrto
delle abitazioni civii. Un gigantesco privilegio.
L’ex ministro ora sindaco fa come se
niente fosse. Ma nessuno gliene chiede conto. I suoi amici fanno sapere che la
colpa è della Ragioneria Generale, che non ha calcolato il costo del bonus. Ma
la Ragioneria le obiezioni le aveva fatte. Qualcun altro rovescia le responsabiltà
sugli uffici legislativi del ministero dell’Economia. E qui la colpa è
evidente: la tecnica legislativa collaudata si cautela sempre con un plafond,
raggiunto il quale la norma che aziona la spesa cessa di validità. Mentre qui
si sono spalancate le porte. Non un errore, troppo marchiano – un limite alla
fine è stato posto, il termine temporale, ma congegnando la norma in modo che
il termine dovesse slittare.
Ma Gualtieri è come se non ne sapesse
nulla. Come non ne sa nulla l’allora sottosegretario grillino alla presidenza
del consiglio, suo interfaccia per la supermiliardaria regalia miliardaria, Lorenzo
Fraccaro. Che oggi, trombato alle elezioni, mette a frutto, anche lui, il superbonus:
fa il consulente per sanare i danni prodotti dalla sua, e di Gualtieri, legge. Da
libero professionista, in primari studi tributari. Un “campo largo” di bonus.
La storia di Israele di usare il cibo come un’arma
Centinaia di migliaia di persone a Gaza sono alla fame, “un disastro
opera dell’uomo, con radici nella storia d’Israele di usare il cibo come un’arma”.
L’articolo ripercorre la serie di annunci israeliani dopo il 7 ottobre di voler
ridurre Gaza alla fame. Non è una novità, è la politica israeliana di
occupazione dei territori palestinesi, argomentano gli autori, con la somministrazione
delle forniture di acqua e elettricità, e il controllo dei mercati e gli
approvvigionamenti. Contraria al diritto internazionale. Specificamente allo Statuto
di Roma – l’atto con cui il 17 luglio 1998 fu creata la Corte Penale Internazionale,
in vigore dall’1luglio 2002”: lo Statuto definisce “un crimine contro il
diritto internazionale «l’utilizzo della fame dei civili come metodo di guerra»”.
Haddad è una giovane avvocata palestinese specializzata in diritti umani.
Gordon, oggi sessantenne, israeliano di terza generazione, è stato parà da soldato
di leva, mutilato di guerra nel 1985, alla fine dei tre anni di invasione del
Libano. Nel 1999, a 35 anni, si è addottorato in Diritto Internazionale, e lo
ha insegna all’università Ben Gurion, direttore di Dipartimento, ordinario dal
2015. Ma da un quindicennio sostenitore del boicottaggio di Israele, che
ritiene “un regime di apartheid”, per i diritti umani contro le politiche dei
governi Netanyahu.
Un articolo polemico. Gordon è anche l’autore, insieme con Nicola Perugini,
di due libri radicali sui diritti umanitari: “The Human Right to Dominate” e “Human
Shields”, contro il diritto al dominio, e contro l’uso militare dei civili. Ma la
sostanza dell’articolo-denuncia è confermata dal bombardamento ieri a Gaza del
convoglio che trasportava beni di conforto per i profughi. Che non è stato un
incidente, ma un’azione di guerra, programmata e gestita a lungo, in situazioni
diverse, per scoraggiare le organizzazioni umanitarie.
Questo è anche il parere, per la guerra in corso, del demografo Stefano
Della Pergola, direttore emerito del dipartimento di Studi ebraici all’università
di Gerusalemme, (intervista sul “Corriere della sera”, 2 aprile: “Israele sa
distruggere, ma non sa che fare dopo”.
Neve Gordon e Muna Haddad, The Road to Famine
in Gaza, “New York Review of Books” 1 aprile 2024
martedì 2 aprile 2024
Secondi pensieri - 531
zeulig
Destra e sinistra – La superiorità, culturale, mentale, perfino
economica (di stili di vita), che connota la sinistra, e il disprezzo
dell’avversario, Walter Benjamin stigmtizza(va) nel 1931, nella
recensione-stroncatura dei “tre grossi volumi” delle poesie di Erich Kästner –
“Malinconia di sinistra. Sul nuovo libro di poesie di Erich Kästner”:
“l’ironia”, “l’impertinenza”, “la grottesca sottovalutazione dell’avversario” dice “un fenomeno di disgregazione borghese”.
Specifica anche analiticamente come. In sintesi: “I pubblicisti del tipo di
Kästner, Mehring o Tucholsky, i radicali di sinistra, sono la mimetizzazione
proletaria della borghesia in sfacelo. La loro funzione è quella di creare, dal
punto di vista politico, non partiti ma cricche, da quello letterario non
scuole ma mode, da quello economico non produttori ma agenti”. Consumatori si
sarebbe detto successivamente, di “vacanze intelligenti” e seconde case o
“castelli in campagna” per il week-end.
W.Benjamin li individuava nel protagonismo culturale, sprezzante: “Da quindici
anni in qua questi intellettuali di sinistra sono stati ininterrottamente gli
agenti di tutte le congiunture culturli, dall’attivisno all’espressionismo fino
alla Nuova Oggettività. Ma il loro significato politico si riduceva a
convertire riflessi rivoluzionari, nella misura in cui apparivano nella
borghesia, in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo”.
Bobbio, che si ripropone, andrebbe contestato
lapalissianamente: la libertà è il fondamento della democarzia, ma siamo liberi
in quanto non siamo uguali. Siamo liberi anzi in quanto siamo diversi,
assolutamente diversi gli uni dagli altri. Liberi vogliamo essere non per
essere uguali ma differenti, per poter essere noi stessi e non altri, sudditi,
succubi o gregari. L’uguaglianza si
direbbe il fondamento inverso, delle civiltà e delle politiche di massa, dei
totalitarisimi – era spietata l’uguaglianza sotto Stalin se non sotto Mussolini.
Una contraddizione, anzi un contrasto, che si risolve
in un quadro societario, comunitario, che sappia superare la contraddizione –
la “fratellanza” che la Rivoluzione aggiunge a libertà e uguaglianza.
L’uguaglianza può ben essere di destra, dittatoriale,
totalitaria.
Fascismo – È risorgimentale. Mussolini lo era. Nelle celebrazioni del centocinquantenario
dell’unità, solo An ricordava Mazzini, al Gianicolo. E il Risorgimento anch’esso
voleva un’Italia unita per essere potente, prima fra le nazioni. Nel mito di
Roma, come recita anche l’“Inno” di Mameli: “Dov’è la vittoria? Le porga la
chioma che schiava di Roma Iddio la creò”.
Intellettuale –
Nasce, come si sa, con l’illuminismo. Nel quale però doveva avere e mostrare
radici culturali salde. S’impone e degenera con i media, con la “riflessione”
qui e ora.
Malinconia –
Quella dell’intellettuale W. Benjamin dice effetto della stitichezza -
“Malinconia dell’intellettuale”: “Da sempre la stitichezza si è accompagnata
con la malinconia”. O non ne è la causa? La disappetenza, l’inerzia, l’immobilità,
l’isolamento – non uscire di casa, niente aria, niente moto, o altrimenti con
dispetto.
Nazione –
È un concetto di sinistra, all’origine. I paesi o i popoli che si liberavano
dell’Impero, “sacro” e “romano”. Di culture anche, che si affermavano fuori o
contro quella decidua se non morta di una latinità perenta – delle lingue,
delle leggi, delle sensibilità. Delineando dei quadri o contorni contestabili,
ma nell’insieme coesi, o convergenti.
(Non) per questo
benefica, non del, tutto: è la rottura dell’unità, di Astraea, della giustizia
universale. E l’idea di popolo o di patria non implica libertà e tolleranza, la
coesione vuole impositiva. E bellicosa.
Ha fatto più guerre, e più micidiali, la nazione che non le tirannidi o
l’0impero. La nazione è divisiva. Lo è stata nella storia, e forse non può
essere altrimenti, lo è per natura, dopo aver praticato le giaculatorie di
buona volontà.
Opinione pubblica –
È il fulcro e il. crogiolo della democrazia, una comunità d’intenti, una
unione. Tocqueville lo spiega nel discorso di ammissione all’Accademia di
Francia, quando criticò l’Illuminismo in quanto individualistico – in polemica
con l’intellettuale, il “chierico” di J. Benda un secolo dopo, il “maestro
estraneo”: “La nuova filosofia, sottomettendo al solo tribunale della ragione
individuale tutte le credenze, aveva reso le intelligenze più indipendenti, più
fiere, più attive, ma le aveva isolate”. Esponendole al rischio “che il potere
finisse per dominarle tutte. Non perché aveva con sé l’opinione pubblica, ma
perché l’opinione pubblica non esisteva più”.
Oggi, nell’eclisse
dell’intellettuale, è però perfino più facile dissolverla. Per l’uso distorto
del suo luogo proprio e fondamento, la discussione pubblica attraverso i media.
Sotto la ferocia squisita del potere che si nega, quello dell’apparato repressivo
giudiziario. La disaffezione elettorale ne è la manifestazione evidente – e le
oscillazioni dei votanti residui.
Stupidità
– Oltre che della manualistica (Jean Paul, il più attinente, Musil, Flaubert et
al.), è ricorrente ne breve scritto di Walter Benjamin intitolato “Malinconia
dell’intellettuale”, la recensione-stroncatura delle poesie di Erich Kästner raccolte
“in tre grossi volumi”, nel 1931. Eccezionalmente virulenta - specie per un
mite: Kästner è colpevole di “stupidità tormentata”. Definita come “l’ultima delle
metamorfosi che la malinconia ha subito nel corso di duemila anni”. Effetto di
un sinistrismo stitico: “Il brontolio che si ode in questi versi ha più della
flatulenza che della sovversione”.
zeulig@antiit.eu
Che fatica, la famiglia multirazziale
Alla multirazzialità sia arriva facile, per immigrazione e per incroci di
copia. Ma gestirla non è facile, in una famiglia latina e non quella anglosassone
da manuale. Dove cioè la famiglia c’è, e conta. La serie francese è al terzo
capitolo, vuol dire che il tema è comune, anche se si ride.
Quattro figlie significano quattro generi, che nel caso sono di diversa
provenienza: un africano, un algerino, un cinese e un ebreo. E quando per i
quarant’anni di matrimonio degli amati genitori le quattro figlie decidono di coinvolgere
nella festa i suoceri - solo i suoceri, non le cognate e i cognati, con i nipoti
acquisiti - equivoci e bizzarrie non si contano. Fra consuoceri, e fra genitori
e figli.
La serie è ottimista – tutto si risolve. Ma che fatica: si fa festa all’ultimo
minuto, giusto per essere sopravvissuti.
Philippe de Chauviron, Riunione di
famiglia - Non sposate le mie figlie, 3, Sky Cinema
lunedì 1 aprile 2024
Letture - 547
letterautore
Dostoevskij – Reazionario – anarchico
reazionario? La prova decisiva si troverebbe in Nina Berberova (“Il quaderno
nero”, o. 45), che ne mette in rilievo la diffidenza o contrarietà contro la
civiltà: “Dostoevskij scrive (nei “Ricordi del sottosuolo”) che la civiltà non
porta nulla di nuovo, complica solo le cose. La civiltà non è che una
complicazione della vita, l’esistenza a un piano si trasforma in esistenza a
più piani. Poi su questo edificio cominciano a sorgere torrette e balconcini di
ogni genere e le dépendances si riempiono di mezzanini. Questo gotico-rococò
fasullo diventa improvvisamente un intralcio”.
Giuramento fascista – “Durante
il fascismo il nonno voleva evitare di giurare”, ricorda sul “Corriere della sera”
Roberto Einaudi, nipote di Luigi, l’economista poi presidente della Repubblica:
“Ma è stato persuaso a farlo da Benedetto Croce. Gli disse che se avesse
rifiutato avrebbe lasciato il posto a un fascista, costringendo i giovani a imparare
da una persona non libera. Croce gli consigliò di fare uno spergiuro mentale al
momento del giuramento”.
Gogol’ – È in Ucraina
- Gogol’ ha vissuto fino ai vent’anni a Kiev, suo padre era un drammaturgo
ucraino, di lingua russa - l’origine della grande narrativa russa, e del “mito”
di Pietroburgo? In Gogol’ più in Puškin, suo coetaneo e amico? È quel che si
legge nei materiali che accompagnano la riedizione Adelphi delle “Memorie di un
pazzo”.
“Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol’”, è frase famosa di Dostoevskij,
per dire che la narrativa russa è cominciata con Gogol’ – “Il cappotto” è un
suo racconto, parte della raccolta “Racconti di Pietroburgo”.
“Gogol’ è Martedì nel romanzo di Chesterston «L’uomo che fu Giovedì»” -
Nina Berberova, “Il quaderno nero”, 129 (dove trova l’equivalente russo di
personalità e personaggi letterari europei).
Italiano – “L’aggettivo
«italiano» nel mondo musicale del Settecento…. era sinonimo del più aggiornato
e pregiato stile internazionale, le cui caratteristiche, maturate nelle scuole,
nei teatri e nelle chiese del Bel Paese, erano valuta di corso continentale,
fatte proprie da schiere di compositori nati al di là delle Alpi, che spesso
attraversavano per compiere il loro apprendistato a Roma, Napoli, Milano. Non a
caso, tra i principali artefici dell’opera italiana del Settecento si contano
Händel, Gluck e Mozart” – Raffaele Mellace, “Il Sole 24 Ore Domenica”.
Letto matrimoniale – Nina Berberova,
donna indipendente, russa per una vita apolide, ne fa l’elogio impromptu un
giorno di dicembre 1940, nella sua casa di Longchêne vicino Parigi: “La stessa
camera, lo stesso letto, la stessa coperta. Chi non capisce questo, non capisce
niente in fatto di matrimonio. Se si ha paura di questo, allora è inutile
sposarsi. Durante il giorno la vita talvolta divide, raffredda, fa vacillare,
lacera qualcosa. La notte tutto si ricompatta. Un corpo sostiene l’altro con il
suo tepore (se non con il calore)” – (“Il quaderno nero”, pp. 48-49).
Malinconia di sinistra – È il titolo di una recensione di Walter Benjamin, nel 1931, alla raccolta
di poesie del “ribellista” Erich Kästner. Donatella Di Cesare vi si è appellata
in una intervista con Francesca Sforza su “La Stampa” come ispirazione del suo
epicedio in morte di Barbara Balzerani, una delle brigatiste più feroci: “La
tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con
malinconia un addio alla compagna Luna”. Ma la “malinconia” di Benjamin era una stroncatura, il mite
critico la stigmatizzava feroce – anche lui, per una volta: come di “un nichilismo”
piccolo borghese, un “tipo particolare di disperazione: la stupidità tormentata”,
“un fenomeno di disgregazione borghese”. Ne tratta a lungo, sempre arrabbiato.
In particolare spiega: “L’odio che essa proclama contro la piccola borghesia ha
a sua volta un accento piccolo borghese”, come da linguaggio, rivelatore.
Penitenza ecclesiastica – Era pena sostitutiva in Russia ancora nel secondo Ottocento, analoga a
quella attuale ai servizi sociali. Nel racconto di Tolstoj “Il diavolo”, il
protagonista, colpevole della morte dell’amante, viene condannato in assise alla
“penitenza ecclesiastica”. “Le giurie popolari erano state istituite da poco
tempo, pertanto gli venne riconosciuta una temporanea infermità mentale e la
condanna si ridusse alla penitenza ecclesiastica. Era stato in carcere per nove
mesi, e al monastero rimase un mese soltanto”.
Primavera – È stagione di
grandi racconti, fa notare un lettore, Fabio Fiaschi, sul “Robinson”. Del “Maestro
e Margherita” di Bulgakov, dell’“Ulisse” di Joyce, delle fantasie della Bovary
di Flaubert, del Werther di Goethe, dell’Anna Karenina di Tolstoj, e dell’Aschenbach,
forse del giovane Tadzio, di Thomas Mann, “La morte a Venezia. Nonché Alda
Merini, nata un 21 marzo.
Ma in poesia è tema comune. Di Leopardi naturalmente, come di Pascoli. Di
Ungaretti, di Pavese. E Shakespeare, Dickinson, Wordsworth, Neruda. Perfino di
Oscar Wilde: “Una volta era sempre primavera nel mio cuore”, lamenta del “De
Profundis”
Repubblica romana - “Una preziosa
ma effimera Repubblica animata da patrioti liguri”, Aldo Cazzullo.
Roma ha pero “custodito di più la memoria del Risorgimento” di più che Milano,
“dal teatro al cinema, da Rugantino al film di Magni”.
Russia – In letteratura
è ridotta a “Tolstoevskij”. S’indigna per questo Nina Berberova, “Il quaderno
nero”, p. 129: “Cosa succederebbe se in Francia tutta la critica
storico-letteraria si aggirasse intorno a Flaubalzac, come da noi intorno a ‘Tolstoevskij’?”.
È qui che s’indigna per la riduzione di Gogol’ a “Martedì nel romanzo di
Chesterston ‘L’uomo che fu giovedì’”. E per gli apparentamenti: “Majakovskij è
Kipling. Puškin è insieme Pope, Coleridge e Byron”.
Shakespeare – Giovanna d’Arco
fa santa nell’“Enrico VI” – che la chiesa invece santificherà solo il 18 aprile
1909, papa Pio X. “Virgin from her tender infancy, Chaste and immaculate in
very Thought” Shakespeare la fa nelle parole dei francesi, del “delfino”
Charles, mentre gli inglesi poi ne diranno male. Con partecipazione: “Sweet
virgin”, “Divinest creature, Astraea’s Daughter…. Glorious prophetess”. Il Delfino
profetizza pure che sostituirà san Dionigi quale protettore della Francia: “No
longer on Saint Denis will we cry,/ but Joan la Pucelle shall be France’s
saint”.
“Ci sono tanti nemici in Shakespeare”, nota Gertrude Stein, che si
professa cultrice della sua opera, nei due anni che passò a Londra nel 1910-11,
e dopo –“Le guerre che ho visto”, 47.
Tolstoj – “L’Omero del
mondo cristiano”, Gianlorenzo Pacini, postfazione a “Il Diavolo e altri
racconti” – per “l’olimpica serenità con cui tutti i lati della vita vengono
accettati e descritti… congiunta con senso di umana partecipazione”.
Nichilista secondo Gor’kij, nel saggio “Lev Tolstoj”. Nela sua ultima fase,
la sua predicazione Gor’kij dice “il più profondo e feroce nichilismo”. Era un
aspetto della Russia urbana del tempo di Tolstoj.
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