skip to main |
skip to sidebar
zeulig
Dio - Dio stesso non può che essere scontento. Se
crea. E incostante. È vario, in ogni singolo atomo o istante.
Falso – È inventivo, per costituzione – ha bisogno di sorprese e diversivi, nuovi falsi,
continue propalazioni. L’una più sorprendente della precedente. Fino a un climax: un evento o trauma che mandi
agli atti l’invenzione del falso, di quel particolare falso. Una guerra, un
terremoto, una morte eccellente, o un falso maggiore tra i tanti.
Verità - Si
possono accertare i falsi ma non si può accertare la verità: la verità è
evidente.
Ma si può dire, va detta, anche all’opposto:
si possono accertare molti falsi, non si può accertare la verità, quando si
nasconde – sotto le specie del falso.
Nel dominio del falso,
dell’artificioso, della disinformazione, gli ostacoli da abbattere per arrivare
alla verità sono infiniti, perché sono sistemici.
Nel calcolo, in qualsiasi tipo di
calcolo, dalla matematica alle convenienze, la difficoltà è solo logica. Nella
storia si sa per l’esperienza dei falsi, molti dei quali costruiti in buona
fede.
Il sistema di falsi, per esempio,
costruito su piazza Fontana è inteso a escludere una verità accertabile in
tribunale. Non ci si potrà arrivare neppure per caso.
Viene sempre su molte bugie.
Ma c’è confusione su fede e verità – come il cornuto
può dire nelle commedie all’amante spergiura: “Ahimé, ti credo più della stessa verità”.
All’epoca della ribellione luterana il dibattito
ferveva, su Dio e le verità di
fede. Al fine di portare la fede alla verità, che è una sola.
La verità semplice è indimostrabile – per
esempio che l’America è opera di fantascienza, un mondo possibile reale.
Hobbes a proposito della coscienza, che
teneva in sospetto, argomenta che “secondo il modo in cui solitamente gli
uomini usano la parola, significa un’opinione, non tanto della verità della
proposizione quanto della loro conoscenza di essa, alla qual cosa la verità
della proposizione è conseguente”. Quindi, se io non conosco Gigi ‘Rriva, verità
della proposizione, e al bar sento i fautori di Rivera, magari mi convinco che
il bomber è un brocco. La certezza si
combatte con l’incertezza, o con un’altra certezza? E l’incertezza? Siamo nel
film di Antonioni, e va bene.
“Storia
è solo quando l’essenza della verità è colta nel modo originario”, stabilisce
peraltro Heidegger. L’essenza della verità – una “base”, tipo il micidiale
bergamotto per i profumi?
Per Heidegger sembra più semplice, se storia,
come diceva è quando Hitler vola(va) in aeroplano a incontrare Mussolini.
La ragione, ha scoperto Spinoza, ha lo
strano potere d’illuminare se stessa e il suo contrario, di scoprire tanto il
vero che il falso, “scoprirlo” come vero. Ma è oggettiva?
È dell’io (coscienza, riflessione, intuizione)? Dibattendo
con Lutero di confessione obbligatoria, Erasmo postilla: “La verità va detta,
ma non serve in ogni circostanza”. Sarà questo il “dovere della memoria” di
Primo Levi, che il buono non sempre è il vero. Canetti distingue un “diario genuino” dai “diari
falsificati”. Che sono però a volte “avvincenti” – “la loro attrattiva dipende
dalla capacità del falsario”. Ancora prima c’è il solito Agostino, con i
classici e il torbido Tucidide. E prima ancora Delfi e il “conosci te stesso”, la verità dell’io è
singolare, e tanto più tanto meglio.
È la teoria propaganda raffinata? È la
verità strumento d’inganno?
La verità ha bisogno di realtà, se non è
detta non è. L’uomo invisibile è nulla, l’autore inedito, l’innamorato non
dichiarato, il diavolo delle buone intenzioni.
La verità
è arguibile ad libitum – la democrazia, la giustizia: è filosofia, e la
filosofia è retorica, sapiente uso del linguaggio, uno dei tanti. Né è
pensabile l’equidistanza, non in assoluto, non dalle passioni o le pulsioni. E
sempre avviene nei fatti che una verità venga opposta a un’altra, e la più
violenta, sia pure per essere meglio argomentata, prevalga – non c’è giustizia
asettica. Ma i fatti sono fatti.
È tema sofistico – cioè da numero “angelico”, indiscutibile
ma impenetrabile. È solo fattuale, nella pratica, soprattutto nel fare,
intenzionale (è quella della confessione).
Violenza – Al solo pensarci un attimo, in avvio della
“Critica della violenza”, 1921, l’avvio del suo progetto di “Politica” poi non
sviluppato, W.Benjamin rileva moto semplicemente che “la biologia darwiniana...,
in modo del tutto dogmatico, accanto alla selezione naturale non considera che
la violenza come mezzo originario e solo adatto a tutti i fini vitali della natura”.
E che questo è anche un assioma della filosofia del diritto: “Le volgarizzazioni
della filosofia darwiniana hanno spesso mostrato come si passa facilmente da
questo dogma, ammesso in storia naturale, a uno ancora più grossolano, della filosofia
del diritto, secondo il quale la violenza che si è detta, adattata a dei fini
esclusivamente naturali, sarebbe per questa sola ragione già legittima”. La
“guerra” come stato permanente della natura non una novità, ma sì del
darwinismo.
zeulig@antiit.eu
Gli Stati Uniti nazionalizzano TikTok. Per
il timore, dicono l’amministrazione Biden e il Congresso, che i dati di centinaia
di milioni di utenti finiscano in mano al governo cinese.
TikTok deve’esere venduta entro sei mesi
a interessi di controllo americani. Se i dati di centinaia di milioni di utenti
finiscono in mano a interessi americani, e al governo americano, la cosa è
indolore?
TikTok è di proprietà per il 60 per cento
di investitori non cinesi, per il 20 per cento dei promotori (cinesi) e di
interessi cinesi, e per il 20 per cento dei dipendenti. Il governo cinese ha acquisito
tre anni fa, tramite il China Internet Investment Fund, un 1 per cento come “golden
share”, in caso di scalata da parte di interessi non graditi.
Il 60 per cento che gestisce ByteDance, la
finanziaria cui fa capo TikTok, è già in mano americana. Del Susquehanna
International Group, del miliardario Jeff Haas, finanziatore di Trump e
ispiratore dei primi, abortiti, tentativi di nazionalizzazione di TikTok dell’ex
presidente, di KKR&Co (Kohlberg Kravis Roberts), di General Atlantic e del venture Sequoia. Della giapponese Softbank. Della emiratina G24. E dei fondi East e Sain
(cinesi di Hong Kong e Singapore) e Primavera e Hillhouse (del giovane investitore
cinese Lei Zhang – non degli Zhang dell’Inter, del fondo Suning).
TikTok si può già dire americana, ma evidentemente non
abbastanza – l’America non transige sui profitti.
Un vecchio professore prova a scrivere di alcune donne di talento che
sono state sottovalutate, come la sua giovane madre (si documenta e scrive di Tina
Modotti, Hedy Lamarr, Zelda Fitzgerald - non esattamente sottovalutate, ma non
importa), e cura con pollice verde le piante del terrazzo – tra esse un limone
dispettoso che mai gli dà una soddisfazione. Dal terrazzo stabilisce per questa
passione comune un contatto speciale con la coppia giovane che è venuta ad abitare
il terrazzo di dronte. Specie con lei, che è quella che si occupa delle piante.
Un’amicizia semplice e rigenerante ne nasce. Finché lui, per un principio di
alzheimer, si isola e scompare.
Una fiaba vera della vita che si rigenera, come una metempsicosi,
una trasmigrazione delle anime. Di fatto una palingenesi – arduo concetto teologico
ma ben ancorato qui nelle sembianze del professore, solitario e disilluso, e
della sua giovane amica in cerca di se stessa.
Non sostenuto alla distribuzione, un film già
di culto, tanto è intenso e semplice. Una gemma nel vasto deserto di Christian
De Sica, attore (comico) controvoglia. E dalle mille espressioni di una
mobilissima Teresa Saponangelo in un ruolo vero. Ma tuti i ruoli sono indovinati,
visi e gesti in aderenza perfetta alle battute e alle circostanze. Specie l’innominato,
nel cast, garzone di bar che accudisce il professore. E Luca Lionello, che s’inventa
un fratello altrettanto vecchio di De Sica ma diversamente mobile (anche il racconto
dei due fratelli è speciale, cioè normale, come di ognuno che sia cresciuto con
un fratello). Carone, al suo primo o secondo film, dopo una intensa attività nelle
storie brevi, da “documentario”, e perciò necessariamente curate, non sbaglia una
misura – una inquadratura, una luce, un taglio, perfino i dialoghi, giusto quelli
necessari, sono calzanti. Con le musiche coinvolgenti di Piovani.
Caterina Carone, I limoni d’inverno, Sky Cinema
Il capo dello
Stato ha celebrato la Liberazione quest’anno a Civitella in Val di Chiana per un
motivo: la pacificazione. Non se ne fa cenno nelle corrispondenze
della manifestazione, ma la cosa è importante, la pacificazione finalmente
avvenuta tra gli eredi della Resistenza e le famiglie delle vittime delle
rappresaglie. Le stragi nazifasciste non furono solo a Marzabotto e a Sant’Anna
di Stazzema. Ci fu una guerra civile in Italia, e durò quasi due anni, dopo l’8
settembre 1943, ma già dopo il 25 luglio. Con molte incomprensioni nella
popolazione. Il racconto è in “Vorrei andarmene ma non so dove”, romanzo di
Astolfo in via di pubblicazione:
C’è un tempo della storia, un
ritmo. Che la logica non scalfisce, meno che mai quella povera del terrore o
totalitaria, che la storia vorrebbe dominare. E c’è una storia che i fatti non
scalfiscono, murata nella logica del mito. Del Vento del Nord, che fu tiepido
ma non si può dire. Di Milano che non si liberò neppure a piazzale Loreto, né
Torino, o Bologna. Della Resistenza che non fu di massa, se non in certo modo.
La linea Gotica durò due inverni e fu sfondata dagli Alleati, e fu per tutti
una tragedia, ma i lanci intensificati d’armi e vettovaglie crearono nel
Frignano e in Lunigiana posizioni forti dopo, nella ricostruzione, anche
personali.
Tra la
liberazione di Firenze, che Tito Masini e i suoi proclamarono l’11 agosto ‘44,
e la liberazione della Toscana ci furono centinaia di morti in pochi giorni,
contadini, bambini, madri, uomini anche nel pieno vigore, benché rintanati in
cascina. Kesselring lo volle: “Proteggerò ogni comandante”, promise con
ordinanza pubblica il 17 giugno, “che ecceda la nostra abituale moderazione
nella scelta e la severità dei metodi adottati contro i partigiani”. La
responsabilità va quindi al prode maresciallo della valorosa Wehrmacht. Ma
anche all’improvvisazione omicida.
A Civitella
della Chiana, in provincia di Arezzo, ci sono state cause tra le vedove, le
orfane, le sorelle dei morti da una parte e dall’altra il comandante partigiano
Edoardo Succhielli. Che le ha vinte, ma non ha domato l’odio: le donne hanno
presenziato ai processi vestite di nero. A Onna, vicino L’Aquila, si sono fatti
funerali separati nel ‘44, e ogni anno si fanno celebrazioni distinte, le
famiglie dei caduti escludendo sempre la famiglia di un giovane partigiano.
L’improvvisata Resistenza diede esca agli eroi della Wehrmacht per improvvisate
esecuzioni al mitra: quattor-dici a Pievecchia di Pontassieve l’8 giugno, più
di duecento il 4 luglio a Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, Massa di Sabbioni,
San Martino in Pianfranzese, tra Firenze e Arezzo. L'11 luglio altre dodici si
fecero a Matole, sempre nell’aretino, quarantaquattro il 17 a Crespino sul
Lamone, minuscola frazione di Marradi nel Mugello che non contava tanti residenti,
dodici a Pratale, alle porte di Firenze alla vigilia della liberazione. Seguiti
da Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto, il 23 dal Padule di Fucecchio con altre
180 esecuzioni, di anziani, donne e bambini, sfollati in quel posto selvaggio
dai paesi vicini per sfuggire ai bombardamenti, e il 24 da Vinca e la valle del
Lucido, con 173 morti, molte donne, una imapalata, una sventrata per massacrane
il bambino già formato.
A Civitella
c’erano state il 29 giugno duecentotré esecuzioni, a colpo singolo alla nuca.
Alcuni giovani avevano tentato di disarmare due tedeschi che bevevano vino al
dopolavoro. Ne era seguita una sparatoria, nella quale erano morti tre
tedeschi. Anche in Toscana c’era una Resistenza, ma disorganizzata, senza
collegamenti, senza armi – con l’eccezione di Massa e Carrara, che erano parte
della Linea Gotica. A Onna le esecuzioni furono diciassette, quattordici uomini
e tre donne, tra esse la madre e la sorella di un ragazzo che aveva litigato
con un tedesco per impedirgli di requisire un cavallo, e poi dai monti aveva
tirato sull’occupante, in quanto membro di una non precisata formazione
partigiana.
La colpa è della
divisione Göring – e della Xma Flottiglia Mas e le Brigate Nere, in particolare,
in Toscana, la XL. Della Luftwaffe,
di cui la Göring era la divisione corazzata. L’aviazione tedesca aveva una
divisione corazzata, che ricostituì nel ’44 come “paracadutista-corazzata”,
anche se senza parà. Era in origine il gruppo del maggiore Wecke, Walther, che Göring,
ministro dell’Interno e Capo
della Polizia nel ‘33, aveva costituito con l’incarico di stanare i rossi nelle
forze armate di Weimar. I “paracadutisti” erano sbirri. Come tali si distinsero
in Sicilia già prima dell’8 settembre, in Campania, nel Lazio, nell’Appennino
tosco-emiliano e in Toscana, dopo essersi specializzati nel Caucaso. I tedeschi
mandavano
gli sbirri al fronte: la Waffen SS
Totenkopf, divisione scelta, portava l’uniforme delle guardie dei lager, costituita nel ’39 dal corpo di
guardia di Dachau. Dove passava la Göring si commettevano eccidi: Mascalucia e Castiglione
di Sicilia, Acerra, Nola, Scafati, Bellona, Capua, Caserta, Afragola,
Maddaloni, Teano, Presenzano, Napoli, e poi Monchio, Susano e Costrignano nei
pressi di Montefiorino, Cervarolo e Civago nel reggiano, Vetta le Croci, Vaglia
e Vicchio attorno a Monte Morello, Vallucciole, 108 donne e bambini, il passo
dei Mandrioli e altre località del Falterona, Mommio in Lunigiana, i posti
citati tra la Val di Chiana e le miniere del Valdarno, e Chiusi, Sinalunga,
Monte San Savino, Badia a Ruoti, il Palazzaccio e Pancole di Arceno, con
eccidio di donne e bambini, Bucine.
Non c’era l’obbligo della decimazione
nell’ordinamento militare tedesco, c’era anzi discrezionalità: la Wehrmacht
lasciava ai comandanti, fino ai capitani, autonomia in fatti di giustizia, lo
stesso le SS. O no, c’era: dieci per uno, o uno per dieci, era la vendetta
prussiana. C’è la vendetta corsa e c’è quella prussiana: uno ogni dieci svevi
volle giustiziato nel 1849 il Principe Mitraglia Guglielmo di Prussia, quando i
seimila difensori di Rastatt si arresero, facendoli poi gettare in fosse comuni
per l’igiene. Pure la pratica dell’Annientamento, l’Olocausto, si può dire
gestita con canoni prussiani. Ma la stessa Prussia ha sancito per prima il
diritto alla Resistenza e alla lotta partigiana, il 13 aprile 1813, contro
Napoleone. Schmitt ne fa il fulcro della Teoria
del partigiano: “Quelle dieci pagine della raccolta prussiana delle leggi
del 1813 sono da annoverare tra le più inusitate di tutte le gazzette ufficiali
del mondo: asce, forconi, falci e lupare vengono espressamente raccomandati nel
paragrafo 43”. Questo diritto Hitler ribadì nel ’44, contro l’Armata Rossa è
vero. Dicono di no ma ogni reggimento e ogni compagnia, perfino il plotone,
quindi ogni tenente, decideva da sé. L’ordine cieco è un’altra favola, non c’è
esercito che sia stato più decentrato. Non per debolezza, per stimolare
l’emulazione – si schieravano in venti, un plotone, per fucilare tre o quattro
civili inermi ostaggi di rappresaglie. La Göring, specialista di stragi, ebbe
un letale chiama e rispondi con le bande partigiane dell’aretino e del Mugello.
A Cornia, frazione di Civitella, dove la banda
Renzino aveva la base, furono fucilati donne e bambini. La colpa, dirà al
processo il comandante Succhielli, fu della popolazione, che non aveva
denunciato il quarto soldato tedesco all’osteria, consentendogli di fare la
spia. I civitellini accusarono i partigiani di viltà, per non averli protetti
il giorno della strage. Gli uomini di Succhielli, sostennero, volevano uccidere
i tedeschi e non disarmarli, e si disinteressarono della rappresaglia per
salvarsi personalmente. Anche a Crespino sul Lamone, sebbene non molti siano rimasti
a ricordare i fatti, l’opinione vuole colpevoli i partigiani. A Castelnuovo dei
Sabbioni l’opportunità politica ha invece avuto la meglio sulla prima reazione
violenta contro i partigiani, quella parte dell’aretino è ora in pace. Ma
perché tanti morti qui da noi, si diceva, e nessuno nel senese, che è oltre la
strada? Perché lì non c’erano partigiani occasionali. A Castelnuovo e Meleto si
trovarono capri espiatori nei locali repubblichini, due ometti insignificanti e
incolpevoli furono linciati a guerra finita.
Ricchi e bianche sono
stati lo zoccolo duro dei Repubblicani nelle elezioni presidenziali del
Millennio. Tradizionalmente il partito Repubblicano è reputato espressione dei
lavoratori bianchi, in prevalenza amschi – i bianchi poveri, o lavoratori senza
titolo di studio. Gli exit poll delke ultime cinque elezioni dicono il contrario.
Salvo in un caso, nel 2016, quando i ricchi non votarono Trump – non prevalentemente.
Hanno votato per
il candidato repubblicano le donne bianche per il 55 per cento nel 2004, il 53
per cento nel 2008, il 56 nel 2012, il 53 nel 2016, il 55 nel 2020. Il “gender
gap” che si registra nel voto femminile a favore costantemente del candidato
democratico è dovuto alle afroamericane - in ragione, si suppone, della loro forte
dipendenza dal welfare: hanno votato per Biden nel 2020 il 90 per vento delle donne
nere, e solo il 9 per cento per Trump.
Significativo il
voto nel 2016, quando contro Trump si candidò Hillary Clinton. Contro ogni
attesa, il 53 per cento delle donne bianche votò per Trump.
Dove il voto femminile
“bianco” è più per i Democratici che per i Repubblicani è fra le laureate
(eccetto che nel Texas). Un peso tale da spostare verso i Democratici il totale
del voto dei laureati, seppure di poco – i laureati bianchi maschi propendono
di più verso i Repubblicani, anche nel contestato voto del 2020.
La prevalenza
repubblicana nel voto dei percettori di reddito oltre i 100 mila dollari non ne
fa però il partito dei ricchi. Rientra in questa categoria anche la piccola
borghesia imprenditoriale - il lavoratore autonomo, l’artigiano con laboratorio
– e una diffusa “aristocrazia operaia”, in aggiunta a manager, professionisti,
accademici. Hanno sempre votato nel Millennio per il candidato repubblicano,
eccetto che nel 2016, alla prima volta di Trump – un 5-6 per vento del loro voto
andò disperso fra i candidati indipendenti.
Un film vecchio, non molto, 1995, ma di altra epoca, quando l’America non
era in guerra, con se stessa e col mondo. Il racconto è sempre commovente, dell’insegnante
di Bari, ora quarantacinquenne, finita casalinga nel profondo dell’Iowa, con un
marito “pulito”, due figli adolescenti che poco la curano, e immersa nella solitudine.
Che incontra la vita vissuta, e l’amore assoluto (cioè senza vincoli), in un
giorno, due giorni, tre giorni della sua ordinaria vita. Un contatto breve e totale,
che legherà anche lui, fotografo peripatetico dal “National Geographic”, che per
caso si trova a passare. Dopodiché una vita nel ricordo, anche da parte di lui,
che lei non può compartecipare con nessuno, solo col diario, tre volumi – dalla
bianca copertina, come della prima Comunione.
Un documento anche di un’epoca non remota, in cui una giovane di belle speranze,
innamorata dell’americano di base a Napoli, sceglie di partire con lui per “l’America”
– non per l’Iowa, di cui nulla sa, “l’America”. E qui smette presto s’insegnare
per seppellirsi nella “famiglia”. Bella e buona, e assente. In una vita
ordinata, di pulizie e cucina – l’onnipresente radio sintonizzata sull’opera,
quando i figli non le cambiano, come sogliono, stazione. Che un giorno conosce,
a sua insaputa, l’amore assoluto – è premiata, di un grande premio.
L’altro miracolo è di una presenza “naturale” benché strana, di un’italiana
di Bari che si seppellisce giovane tra i campi di granturco sterminati dell’Iowa.
UN fondo italiano, devoto e insieme sentimentale, che si poteva attribuire al
debito del regista con l’Italia, dove diventò il nome che è. Ma è giù nel romanzo
dallo stesso titolo, che il film ricalca, di Robert James Waller, un economista nato in Iowa e attivo nell’Indiana,
buon conoscitore evidentemente dell’Italia, che inaugurava con questo una serie
di romanzi di successo. La doppia appartenenza del suo personaggio, qui Meryl Streep,
all’epoca, ma non sono trent’anni, poteva sembrare naturale.
Clint Eastwood, I ponti di Madison
County, Iris
spock
“Dentro di noi c’è un po’ di Dio, da qui nasce la
letteratura”, Jon Fosse?
“Saldi nella
speranza contro ogni speranza”, San Paolo, Rm 4,18?
La verità del mondo non può essere terrestre, troppa ansia?
“L’inclinazione
della carne è il bene personale”, Lev Tolstoj giovane?
“L’inclinazione
dell’anima è il bene del prossimo”, id.?
“Bellezza,
felicità e virtù sono una cosa sola”, id.?
spock@antiit.eu
Il pacchetto (quattro leggi) di aiuti
militari, per 95 milioni di dollari, varato al Congresso in favore di Ucraina,
Israele e Taiwan, è mirato ad alimentare l’industria americana degli armamenti –
come questo sito aveva notato il giorno dopo il voto
http://www.antiit.com/2024/04/ombre-716.html
I tre paesi
beneficiari del finanziamento sono obbligati a spenderlo negli Stati Uniti, per
l’acquisto di armamenti americani.
Dei 60,8 miliardi per l’Ucraina, 13.4
sono destinati a ricostituire le scorte di armamenti (sistemi d’arma e
munizioni) del Pentagono in America. Gli altri tre quarti dello stanziamento, circa
47 miliardi, sono da spendere in Europa, per il complesso delle attività
americane. Più della metà, 27,6 miliardi, sono destinati all’acquisto di armi e
armamenti americani di fanteria e artiglieria, e sistemi di difesa aerea. 11,3
miliardi vanno alle “attività militari statunitensi in Europa”, alle basi
americane, specie in Polonia e nei paesi Baltici. I restanti 8 miliardi andranno
alla formazione del personale militare ucraino.
“Roma è una città che dei giorni pare dimenticata, abbandonata, morta…. E
dei giorni invece si risveglia”. Con l’aria dei “gran vecchi che, senza capire
più niente, o comprendendo troppo, approvano quello che succede”, con l’aria di
chi non si stupisce di nulla. “Così, quando arrivarono le truppe alleate Roma
si svegliò, e si ricordò di essere la città che ha ancora voglia di vedere qualcosa
di nuovo”. Ma non fu un’uscita come un’altra dalla sonnolenza.
“Tutti volevano essere liberati, avevano anzi il merito di farsi
liberare”. Il guitto gay che esce truccato, cammina “come se andasse a un ballo
mascherato”, ed è “trovato assassinato la mattina dopo a villa Borghese”.
“Qualcuno andò a Ponte Milvio per vedere i tedeschi che si ritiravano, e come
succede a Roma, non pochi ebbero compassione del nemico che partiva estenuato,
lacero, affamato”. La signorina di belle
speranze venuta dalla provincia e finita preda degli amici, e degli amici degli
amici, che porta “enormi occhiali neri, per non essere riconosciuta”. E la
libertà ritrovata non è anche libertà di uccidersi? “La signorina Enrica R. che
ne tempi in cui la vita non valeva niente aveva pensato di uccidersi”, ma
allora era proibito, “or torna a pensarvi” – “si vestì con estrema cura”, decise
di buttarsi “dall’alto dell’Arco di Druso”, e finisce sul carro, armato, del
vincitore: “Vide delle mani che si stendevano, ed ebbe appena il tempo di
pensare che aveva le calze nuove e la biancheria a posto”, per sfollare poi in
trionfo per il Corso. Il dottore, sfollato con la moglie, americana e i due
figli con la ragazza a servizio, che lo trattano come non esistesse, anche la
moglie, che gli annuncia la separazione, “senza tante storie”, perché è un
vinto.
Corrado Alvaro, “Quel giorno”
(Settantacinque racconti)
Si governa
l’Italia da quindici anni, da Monti a Meloni, per distruggerla? Sembrerebbe di
sì. Non proprio per distruggerla, ma per cancellarne i paesi. I “borghi”, come
è ora d’uso chiamarli, le comunità piccole e diffuse, legate da tradizioni
lunghe secoli – ogni paese un’opera d’arte – che ne hanno creato la fama di Bel
Paese.
Si piange sull’Appennino
abbandonato, sull’Italia interna, sui “borghi” com’erano, e si continua a tassarli.
A tassare chi ha ha avuto la cura di mantenere aperta la casa di famiglia,
invece di dispossessarsene. L’unica forma e possibilità di durata dei “borghi”,
da cui altrimenti l’attività produttiva moderna, gli studi, la sanità, la socievolezza
allontanano. Da Monti in poi non fanno che piovere tasse. Il governo ha bisogno
di altri soldi? Ne ha sempre bisogno, magari per comprarsi il voto con una
tredicesima, o con il superbonus. Pronti, un’altra tassa sulle seconde case.
Nelle forme canoniche: Irpef, Imu, Tari. E surrettizie: sanità, telefonia, e
ora elettricità (una supertassa “di scopo”, da 300 euro l’anno).
Si parla con
spregio di “seconde case”, come faceva Monti, che invece andava in albergo,
come di residenze di vacanza – i “villini” del superbonus. Mentre sono al 90 per
cento le vecchie case dei vecchi borghi. Sempre più abbandonati anche giuridicamente,
moltiplicandosi le dispossessioni – la gran parte dei Comuni interni gestisce
ruderi. L’Italia cambia faccia, per la fame dei Monti e le Meloni.
Il giudice
di New York che presiede il tribunale di Trump, Juan Merchan, ha proibito all’imputato
di fare commenti, fuori dell’aula, sul processo: sui giudici, i giurati, i
testimoni, e sulle loro famiglie. Tutti potranno sparlare dell’imputato (continuare
a farlo, già lo fanno), ma l’imputato non si potrà difendere.
Merchan,
un colombiano naturalizzato americano, ha fatto carriera nello stato di New
York facendo politica per il partito Democratico. Per il quale lavora sua
figlia, titolare di un’agenzia di marketing.
L’accusa
per la quale l’ex presidente sarà condannato, il primo ex presidente della storia
americana, è di avere pagato una pornostar che lo ricattava durante la campagna
elettorale del 2016.
Trump è
stato un presidente ed è un candidato presidenziale del tutto improbabile. Ma i
suoi giudici? Il giudice Merchan stravolge di proposito le norme americane di procedura penale, sul diritto a difendersi e sui testimoni ammissibili, sicuro che la giuria comunque condannerà (a Manhattan ha votato Trump uno su dieci, 13 per cento contro 87 per cento).
Non si fa scandalo in America, non nei media,
e nemmeno nel partito Repubblicano, che sarebbe quello di Trump, per l’accusa
e la gestione del processo. La giustizia nel paese che esporta la democrazia è
come nel western, chi muore è colpevole.
Si parla modernamente di “Europa”,
“europeo”, tardi. Boccaccio ha un rarissimo “europico”, un hapax. “Il
termine «europeo», europaeus, entra nell’uso solo nel secolo XV, con
Enea Silvio Piccolomini, il papa Pio II. Ricorre molto in Dante ma come area
geografica – mediterranea, fino a Costantinopoli, ma compresa la penisola
balcanica. La nostra Europa nasce subito dopo, con Machiavelli, nel “Principe”,
nei “Discorsi” e nell’“Arte della guerra”: con la distinzione fra Oriente e
Occidente, e in Europa fra Nord – la “Magna” che Machiavelli privilegia – e il
Sud. Prima c’era la cristianità, della (nuova) romanità nei confronti dei
barbari e dei maomettani. Ma presto di una cristianità anch’essa divisa, nei
nuovi concetti di Occidente e Oriente. E poi dimezzata, dopo la presa turca di
Costantinopoli. Così come ora, viene da concludere, con l’escissione della Russia
(e della Serbia), cioè della parte di Europa-cristianità che non era caduta con
Costantinopoli – il problema dei russi (sciti) curiosamente Chabod pone in
apertura, rileggendo Erodoto: non sono Asia, ma vivono nomadi.
Prima l’Europa si identifica
per differenza, a partire da Erodoto. Dall’Asia: come terra di libertà, contro
il dispotismo asiatico. Ma limitatamente all’Egeo e all’Adriatico. All’Adriatico,
cioè all’ Epiro e alla Magna Grecia? Quindi, si direbbe, anche allo Jonio.
Una lettura non
appassionante, non più. Europa sta per delusione. È, è stata, un’entità morale.
Storica, politica, militare anche, ma soprattutto culturale, e ora non lo è più.
Lo è stata in questo dopoguerra per un lungo tratto, un esito quasi ovvio, spontaneo,
naturale. E non lo è più. Non lo è la Ue, un concentrato di nulla, o quasi (la
libertà di commercio, e non tutta), in subordine agli Stati Uniti - che non
sono Europa, con tutti i loro Campidogli e i Senati.
“Come e quando i nostri
avi abbiano acquistato coscienza di essere europei” è il tema. Chabod
lo svolse alla Statale di Milano una prima volta “fra l’autunno del 1943 e la
primavera del 1944, quindi dopo la caduta di Mussolini ma sotto la sua Repubblica
Sociale. Questa è la terza redazione, il corso tenuto a Roma nel 1958-59,
curata nel 1961 dagli allievi Saitta e Sestan.
Federico Chabod, Storia dell’idea
di Europa, Laterza, pp. .175 € 10
In fondo, siamo
stati liberati dagli americani - che poi, per quasi mezzo secolo, chiamavamo “amerikani”
col kappa, un po’ hitleriani, perché ci hanno liberati dal sovietismo. E non andrebbero dimenticati, sia gli americani che il sovietismo, in agguato questo per mezzo secolo. Siamo stati liberati anche dalla Resistenza, una piccola parte d’Italia,
che però resistette grazie ai paracadute notturni anglo-americani. Oppure è, anche, come
disse Letizia Moratti, portando il suo babbo in carrozzina al 25 aprile: la Liberazione è la festa di tutti.
Quest’anno l’Anpi,
l’associazione dei partigiani, esclude gli ebrei, e questa è una follia, altro
che festa, altro che liberazione. La liberazione non esclude ma include, non ci
vuole molto a capirlo.
Ma l’Italia,
questo è il problema, è ancora sotto la ferula dell’antifascismo, che molti
democristiani opportunisti agitano nel Pd - e i comunisti “romani”, quelli dei “posti”
e degli appalti, volentieri appoggiano, come un lavacro. Mentre si dovrebbe
operare non per escludere ma per includere – c’è un fascista, neo o vetero, che
farebbe a meno della Liberazione?
Si spopola l’Italia, non facendosi più figli. Si spopola anche il Sud, tradizionale
serbatoio demografico (di manodopera), per l’emigrazione costante, cui si è
aggiunta d’improvviso vent’anni fa la demografia debole. Il Sud e, insieme, le
aree interne dell’Italia, della dorsale appenninica.
Il Sud ne è particolarmente colpito per un “errore strategico”, l’illusione
“che sarebbe bastato spostare giovani da Sud a Nord per gestire la denatalità”
del Nord, per compensarla.
“Com’è potuto accadere?”, si chiede Esposito - giornalista, già in politica con Di Pietro, assessore alla Cultura con De Magistris sindaco a Napoli. La sua riflessione serve a riproporre la questione. trascurata. È accaduto, i fatti demografici vengono da lontano, e non
si arginano con barriere last minute. Le cause sono molteplici, e di lungo
periodo - culturali, psicologiche, anche materiali.
Il curioso è semmai che l’Italia repubblicana, che è stata ed è in vario
modo democristiana se non confessionale, sia finita in una crisi demografica
acuta: meno matrimoni, meno famiglie, meno figli. Sì, l’antifascismo, sì la ridicolizzazione
della campagna demografica, ma e la donna? Il diritto della donna al lavoro, a
un reddito, a (un po’ di) autonomia? E dei giovani a farsi una famiglia, cioè
una casa? E la scuola pubblica, a cominciare dai nidi d'infanzia?
Non è – non era – impossibile pensarci. La Francia repubblicana, per
dire, laica e tutto, ha invertito cinquant’anni fa una crisi demografica
secolare con una misura semplice, gli assegni familiari: tre figli fanno uno
stipendio, le madri volentieri si allontanano dal lavoro per alcuni anni (il “lavoro domestico”, compresa la riproduzione, è
comunque retribuito). Senza
rinunciare a una attività propria. Perché, una seconda verità rende ancora più
grave la crisi demografica italiana: il tasso di occupazione delle donne di
età compresa tra i 20 e i 64 anni è (è stato nel quarto trimestre 2022) di un
misero 55 per cento, in Italia lavora una donna su due. Mentre la media UE –
Italia quindi compresa - è stata del 69,3 per cento, lavorano due donne su tre. In Francia, con tre figli, il tasso di occupazione delle
donne è dell’84 per cento…
Niente figli e niente donne in attività in Italia, il peggio del
peggio.
Marco Esposito, Vuoto a perdere, Rubettino, pp. 226 € 16
Giuseppe Leuzzi
Nella generale inappetenza da libri al Sud fa eccezione
la Sardegna. L’ultimo censimento dell’Aie, l’Associazione Italiana Editori (su dati
Istat vecchi di quasi un decennio, 2017), alla tabella “Persone di 6 anni e più
che hanno letto almeno un libro nell’anno”, la Sardegna risulta al secondo posto,
con uno su due (nell’arco 47,2-50,4 per 100 persone di sei anni e più). Con
Lombardia, Piemonte e Veneto. Meglio di Liguria e Emilia-Romagna. Molto meglio
che Toscana, Umbria, Marche e Lazio.
Al Sud legge un libro, leggeva
nel 2017, chissà oggi, solo uno su quattro - 25,1-28,3 nel bizzarro segmento Istat.
Co l’eccezione di Basilicata, Abruzzo e Molise, che arrivavano a uno su tre –
in un arco molto largo, di dieci punti, 28,3-38,0.
Biagio De Giovanni azzarda una
“filosofia meridionale”. Il saggio che la argomenta, “Giordano Bruno,
Giambattista Vico e la filosofia meridionale” c’è però e non c’è: la libreria dice
che c’è, ma poi si ordina e non arriva – anche le librerie online: chiedono
cinque giorni (lavorativi) di tempo, e poi scrivono “non disponibile”. Questa
filosofia sarà come il Sud, c’è ma non c’è - sarà la maledizione della parola
“meridionale”, anche quando presume di sé.
La mafia è al singolare: un regime,
un impero, compatto, totalitario. Perché a specchio dell’antimafia?
La differenza
“Dopo l’altra guerra io
volevo scrivere un lungo libro o un poema”, scrive Gertrude Stein a conclusione
di “Guerre che ho visto”, “non scrissi mai né l’uno né l’altro ma ne ebbi sempre l’intenzione, su come differisse il
Kansas dall’Iowa e lo Iowa dall’Illinois e l’Illinois dall’Ohio, e il Mississippi
dalla Luisiana e la Luisiana dal Tennessee e il Tennessee dal Kentucky e tutto
il resto da tutto il resto, sarebbe interessantissimo perché ognuno di essi
così completamente differisce da tutto il resto compresi i suoi vicini. E
quando si pensi a come sono state fissate le linee di confine degli Stati, non
frontiere naturali di montagne e di fiumi ma semplicemente stabilite con un
compasso, e tuttavia ogni Stato ha il suo carattere il suo accento, proprio come
le province della Francia che sono così antiche. Non ci vuole poi tanto tempo a
fare uno Stato diverso da un altro non tanto tempo, sono tutti americani al
cento per cento ma sono tutti così diversi uno dall’altro il Dakota il Wyoming
e il Texas e l’Oklahoma”.
È il principio su cui all’Eni s’inventò
a fine anni 1960 la cucina regionale per promuovere le stazioni di servizio Agip
lungo l’autostrada, la diversità – e la tradizione. Senza graduatorie e classifiche,
giusto la differenza.
Sudismi\sadismi
Giovedì Lirio Abbate, di Castelbuono
di Palermo, voce del giudice Tescaroli ex vice-Procuratore di Firenze e ora
Procuratore di Prato, incaricato delle indagini sulle bombe di mafia a Firenze,
Milano e Roma del 1993, scrive il consueto rapporto mensile sullo stato delle indagini
su “la Repubblica”.
Venerdì, da Palermo, Emanuele Lauria
su “la Repubblica” fa parlare Micciché. Che, a parte qualche strafalcione sicilianese
(“pochi giorni prima che io e l’ex premier andammo a cena a Firenze” – per “andassimo”
in italiano), dice che la cena con Renzi rivelata da Abbate-Tescaroli c’è stata,
all’Enoteca Pinchiorri, “ottima”, “offerta da Renzi”, e che fu registrata, ma
che si parlò solo di fare andare Berlusconi al Quirinale e non di eleggere un
presidente che desse la grazia a Dell’Utri (Renzi s’inventò Mattarella, n.d.r.):
“Nel 2021, se ricordate, Dell’Utri era libero, aveva scontato la sua pena, sia
in carcere che ai domiciliari. E peraltro era appena stato assolto in secondo grado
nel processo della trattativa Stato-mafia”.
Dev’essere difficile fare il giornalista
a Palermo. Dire sempre il peggio della città, e dei suoi dintorni. Per fare
piacere - carriera – a giudici veneti. O la mafia è meglio che lavorare?
E quando si farà il processo al processo Dell’Utri?
Se
fa più danni l’antimafia
“Giustamente ci sgomentano i
processi televisivi, quelli che hanno trasformato la giustizia in spettacolo,
in «circo mediatico», quelli che, alla ricerca del capro espiatorio, del
linciaggio, della gogna, vivono di morbosità, indignazione e invidia. Le persone
più assennate ci ricordano che i tempi
della giustizia sono diversi dai frettolosi tempi della tv, la cui
vocazione principale è il giudizio sommario.
“Però, un po’ di sdegno bisognerebbe riservarlo anche
per certi tempi lunghi della giustizia ordinaria. Si chiamava Carmelo Patti, era il patron della Valtur, ha dovuto affrontare ben 13 processi. In questi giorni la Corte gli ha restituito per intero tutta la sua
onorabilità. Patti non c’entrava nulla con la mafia. Quando nel 2018 il tribunale di Trapani confiscò il suo
patrimonio si disse, come titolo di merito, che quella emessa
nei confronti del re della Valtur, ex muratore di Castelvetrano che aveva
scalato il colosso del turismo, fosse la misura di prevenzione patrimoniale più
importante dall’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre. Nel frattempo
Patti è morto e il suo patrimonio è stato azzerato dai fallimenti.
“Se i processi in tv sono una caricatura della
giustizia, i 13 processi subiti da Patti come possono essere definiti? Ci
consoleremo inventando la formula del «circo giudiziario»? Aldo Grasso,
“Carmelo Patti. Quando la giustizia si mette in aspettativa” – “Corriere della
sera”, 14 aprile
2024.
Come ha
fatto un muratore a diventare imprenditore? E anche di successo, fino a diventare
padrone della
Valtur – che era una rete di centri-vacanze di ottimo avviamento? Perché aiutato
dalla mafia, o
suo uomo di paglia. Tanto più che viene da Castelvetrano. Che è un paese e una
contrada in provincia
di Agrigento, molto forte di successi economici, nel difficile campo dell’agricoltura, ma è
anche il paese o città – “il feudo” - di Messina Denaro. Un muratore, Patti, che aveva dovuto
abbandonare la Sicilia “per sopravvivere”, dicevano gli inquirenti. E aveva avuto
contabile per (povere?) tasse da pagare un futuro cognato di Messina Denaro – uno la cui sorella farà poi un figlio
col bandito.
Se non
che Patti è morto incensurato, malgrado i tanti processi. E i suoi eredi ora
ottengono, dopo una
ventina d’anni, anche la restituzione del patrimonio confiscato, benché
deperito.
Indubbiamente
l’antimafia non fa gli stessi danni della mafia. Ma li fa con lo steso sentiment, della prevaricazione.
Non sarebbe meglio, invece che sui tanti delitti di associazione, concorso, concorso esterno,
morale e quant’altro, concentrare gli sforzi come si fa per ogni delitto, intervenire
subito, punirlo a mano a mano che si produce, invece di perdere anni e decenni a
collazionare dossier, cronologie, alberi genealogici (ce ne son di stupefacenti, fino ai cugini di ennesimo grado) , di “famiglie”, “stidde”, “locali”? Con
i giuramenti su Osso, Mastrosso
e Carcagnosso, cui solo Gratteri e Nicaso credono – ma non ci credono, fanno teatro per vendere
una copia in più (i mafiosi non sono scemi).
La mafia,
invece che il pizzo, l’estorsione, la sopraffazione, l’aggressione, alla
persona o ai beni, un tempo l’abigeato,
ora la tangente, è un delitto – una fattispecie di delitto – contro il Sud. Una
cappa mentale
e legale. Una comoda imputazione per forze dell’ordine e giudici che hanno poca
voglia di fare. E
un danno pesantissimo.
Quando
Europa era la questione
Quello
che oggi costituisce la “questione meridionale”, in Italia (Sud) e in Europa
(Grecia), era l’Europa
per Aristotele, “Politica VII, 1327 b: “I popoli nei
paesi freddi e nell’Europa sono pieni d’animo,
ma difettosi d’intelligenza e di capacità artistica: perciò vivono
costantemente nell’indipendenza,
ma non hanno un governo ben formato e non sono in grado di dominare sui vicini. I popoli asiatici d’altra
parte sono intelligenti e industri, ma privi di animo e perciò vivono abitualmente
in sudditanza e in servitù. La stirpe ellenica invece, collocata in una regione media tra questi
per posizione geografica, partecipa del carattere degli uni e degli altri, essendo
coraggiosa ed intelligente:
perciò vive continuamente in libertà, con governi possibilmente perfetti, con
la capacità di
dominare su tutti, qualora fosse riunita in un solo Stato”.
Federico
Chabod, “Storia dell’idea di Europa”, che esuma Aristotele, spiega, spiegava
nel 1958 con echi
oggi singolari, che c’è la guerra in Europa nella “Scizia” propriamente detta,
che “sul terreno politico-morale-culturale
è certo che l’Europa non abbraccia mai, al massimo, oltre la Grecia, che l’Italia
e le coste mediterranee di Gallia e Spagna”. Chabod
conclude dopo aver ricostituito, con Isocrate, che c’era già all’epoca una Europa
fisica diversa
moralmente, “che non è Asia geograficamente, ma è anche diversissima dai costumi
e modo di vivere
e civiltà dell’Ellade, cioè dell’Europa vera: ed è la Scizia, il cui popolo ha
trovato, a propria
difesa, un sistema efficacissimo ma non tale da riscuotere, «per il resto» (e
cioè per la valutazione
propriamente civile), l’ammirazione dello storico greco: infatti «quella gente
non ha costruito
né mura né città, trasporta con sé la propria casa, ed è tutta costituita di
arcieri a cavallo.
Vive non dell’aratura ma del bestiame, ed ha le sue case su carri». Cioè,
popolazioni nomadi”. Una
Europa che si è sedentarizzata (civilizzata) solo due millenni fa o poco più.
gleuzzi@gmail.com
Impressioni di guerre di cui emerge qualche ricordo personale, a partire da
quella ispano-americana di fine Ottocento, ma soprattutto della seconda guerra
mondiale, vissuta, da americana, ebrea, tranquillamente nella Francia occupata,
sfollata con Alice Toklas prima a Bilignin poi a Culoz, vicino la frontiera
svizzera, nella Francia di Vichy, del governo messo su dai tedeschi. Di questa
guerra, della sua seconda parte, una sorta di diario: Stein comincia a scrivere,
in forma diaristica, nel giugno del 1943, e termina l’1 settembre 1944, quando gli americani arrivano a Culoz – quando Toklas
inizia la ricopiatura in bella grafia, per la pubblicazione ai primi del 1945.
Ma europea Stein si dice dall’inizio, essendo finita in Germania, da uno zio, ad
appena otto mesi di vita – e poi, grandicella, a Vienna.
Un libro, apparentemente, di divagazioni. In tempi seri, di occorrenze
serie. “Ora nel settembre 1943 comincio ad amare di nuovo i treni, per trent’anni
non sono mai salita su un treno…”, e dopo una pagina e mezza di treni, “ora nel
settembre 1943 fanno saltare i treni quando penetrano nelle gallerie”. Lo stile
è questo, snobistico, eppure non divagante, anzi sempre in tema: l’occupazione,
la collaborazione, la Resistenza, le rappresaglie, i bombardamenti, gli allarmi,
il cibo da reperire - ma Stein e Toklas avevano le galline….
Una conversazione con se stessa, un flusso di coscienza vario, senza
logica, se non dei tempi e dei luoghi, e della fluidità narrativa. Un filo
conduttore prova a darcelo, ma è una profezia. Di Santa Odilia (Ottilia di
Hohenburg), che nel VII secolo predisse la fine della Germania. Dopo una
battaglia alla Montagna Sacra, che Gertrude e le sue amiche avevano individuato
in Mosca, per una serie di tradizioni, ma ora lei, dopo l’8 settembre, propende
sia Roma: perché a Roma già si combattono i tedeschi – Roma, e poi Firenze, hanno
speciale valutazione (anche precisa storicamente, come in nessun altro libro di
storia, non italiano, sulla fine della guerra, sul “principio della fine”, che
è il filo rosso di questa lunga memoria).
Più precisamente, cioè diffusamente, “autobiografia, diario, romanzo”,
come lo dice Barbara Lanati nell’introduzione. Secondo “la lezione della
migliore avanguardia”, misurarsi con “tutti i sentieri\generi che la
letteratura aveva a disposizione incrociandone … le «direzioni»”. Dove “il narratore
è esterno e nello stesso tempo interno alla storia”. Ma, di più degli altri
scrittori di guerra, fa “parlare la guerra”,
come nota Lanati, fa sì che “la guerra si racconti”. Parlando tanto di sé, alla
Zavattini, ma anche per dire del mondo che la attornia: come scrive Lanati, “delle
sue giornate fa scritture, delle sue conversazioni e riflessioni ad alta voce
fa autobiografia e biografia, non solo di sé medesima ma di un intero villaggio”.
Riflettendo variamente o fantasmagorizzando ma di cose che vede, persone che
incontra, anche solo il cane amato con cui si fa compagnia, Basket e poi Basket
Due.
Qui, in particolare, curiosamente riflette la public opinion, di
chi capita, la vicina di casa, le aiuto domestiche, il figlio del lattaio, il
contadino che incrocia nelle lunghe sfacchinate, anche di venti km., zaino in
spalla, alla ricerca di cibo - invece dei suoi soliti interlocutori, letterati
e artisti, da snob irredimibile. I “ragazzi francesi di venti e ventun anni”
che vanno “in Germania, come deportati” si assomigliano nel ricordo ai “ragazzi
del Middle West che partivano per le Filippine” nella guerra ispano-americana.
Perché tutte le guerre sono uguali – questa, curiosamente, si differenzia non
per le persecuzioni tedesche, di questo non c’è traccia, se non per il reclutamento
dei giovani per il lavoro obbligatorio in Germania, ma per la “resa incondizionata”,
la novità totale del diritto bellico, americana.
In effetti si legge come se si fosse in guerra, seppure marginalmente,
dal borgo remoto, seppure sulla line di Modane, per l’Italia – c’è molta Italia
in questo vagabondare. La percezione dell’occupante tedesco invece dell’italiano
dopo l’8 settembre è immediata, una delle prime impressioni: i giovani “se ne
sono andati o se ne vanno. Alcuni riparano sulle montagne, altri cospirano, il
figlio del nostro dentista, un ragazzo di diciotto anni, è stato preso recentemente
perché li aiutava e forse sarà fucilato”. Tutto così, incidentalmente, di cose
viste e udite. Come sbadatamente, e invece no – la scrittura che si vuole
sciatta è sorvegliata. “E ora nel giugno 1943 è una gran prova vivere, accadono
tante cose tristi, tanta gente è in prigione, tanti scappano”. Subentrano gli italiani,
fino all’8 settembre, che sembra che non ci siano. Poi i tedeschi, subito
insidiati dai “maquis”, dai giovani sulle montagne – i maquis nati come
resistenza al lavoro obbligatorio in Germania, alla corvèe imposta dai
tedeschi senza riguardo per il regime fantoccio di Vichy, che loro stessi
avevano creato. Curiosa la precisione con cui delinea la guerra civile che si
avvia, sotto occupazione straniera, e come anticipando gli storici “revisionisti”:
“Chiunque poteva essere un amico o un nemico”. Breve la cronaca della ritirata
tedesca, ma già céliniana - del Céline della trilogia postbellica della guerra:
senza benzina, su carri trascinati da muli, o su bici da donna, rubano,
bruciano, uccidono, sempre professandosi buoni, amici, fratelli, qualche volta
disertando, per calcolo, l’aviazione tedesca infine chiamando in azione, nella
ritirata, a bombardare i villaggi che lasciano.
Solo un inciso, e perplesso, ma denso, sulla “persecuzione del popolo
eletto”, che attribuisce alla “pubblicità”: “C’è sempre stata una gran passione
per la pubblicità nel mondo la più grande passione per la pubblicità, e quelli
che vi riescono meglio, che hanno l’istinto più sicuro in materia di pubblicità
rivelano una grande tendenza a essere perseguitati, e si capisce, questa io
penso che sia la vera base della persecuzione del popolo eletto e ora più che
mai perché dato che la pubblicità è sempre più un processo cosciente coloro che
hanno l’istinto più sicuro per la pubblicità sono quelli di cui gli altri che
vorrebbero essere i padroni della pubblicità sono gelosi, io almeno la penso
così e forse non mi sbaglio”. Con una chiusa condivisibile, acuta: “È molto interessante
ma la fine del diciannovesimo secolo e il ventesimo secolo compresero al
bellezza della pubblicità in se stessa come fine a se stessa e questo è molto
interessante”.
Molte osservazioni infine, perplesse, sui liberatori americani: sono diversi
da quelli della prima guerra, che Stein aveva frequentato, ora molto sicuri di
sé, e la cosa non le è chiara – non le piace. Ma più di tutto, per molte pagine, osserva i
tedeschi. Di cui da ultimo dirà: “I tedeschi non sono coraggiosi”. Dopo averli registrati
per vari aneddoti confusionari, sentimentali, vendicativi, un po’ ladri anche,
e sempre paurosi, sempre armati, sempre in gruppo – uno dentro il negozio a
comprare il pane e cinque di guardia all’ingresso. I francesi sono instabili – “amano
la varietà, è questo che li rende simpatici a viverci insieme”.
Con la storia di Paul Genin, “un giovanotto”, “un setaiolo di Lione appassionato
di letteratura”, che la tira fuori dai guai giudiziari a occupazione avvenuta, non
potendosi incassare gli assegni in dollari, tratti su banche americane, e le
presta lui il necessario, senza ricevuta. Una storia che le verrà utile dopo la
guerra, quando non mancherà di venire sospettata in America di “pétainismo”, se
non di collaborazionismo con i tedeschi, per essere rimasta indenne dalle
persecuzioni, lei e la sua collezione, molto 1ricca, di arte moderna. E con gli
italiani qua e là, sempre simpatici: “Partiti i tedeschi abbiano avuto gli italiani
in casa: erano abbastanza socievoli e pazzerelloni e non lasciavano mai in pace
la servetta” – dopo l’8 settembre fanno visite di congedo di casa in casa. I
tedeschi, invece, ancora loro, temono le barzellette, per questo l’occupazione
è difficile: i parigini amano “raccontare di così buffe”, e i tedeschi, non capendo,
temono - “è proprio questo che preoccupa tanto i tedeschi, le barzellette sono qualcosa
che li coglie sempre di sorpresa, sempre”. E osservazioni sparse: “in guerra si
mangia molto miele”, l’Ottocento mancava di logica, la produttività dei contadini
francesi è enorme, i re Giorgio che portano sfiga all’Inghilterra, Nathalie Barney
in età, non più “l’amazzone”, o “l’incantatrice”, di rue Jacob, in sogno a
Firenze, e gli Stati Uniti d’Europa, “impossibili”, dice il fornaio, che sa
anche il perché (“i cibi e le bevande di ogni paese d’Europa sono troppo
profondamente diversi”). La cittadinanza no, non cambia le cose, lo ius soli
sì, in un paese bisogna esserci nati. “Ogni due o tre giorni leggo un lavoro di
Shakespeare”, le fanno sentire il flusso del tempo - specie le guerre, “sembrano
oggi”.
Un racconto corposo, benché contenuto dalla grafica minuta. Di aneddoti,
cose viste e intese, considerazioni, ricordi, sempre intrecciati variamente. La
prefazione di Barbara Lanati è probabilmente il miglior inquadramento,
sintetico e centrato, della scrittrice “anomala” Stein, maestra di molta scrittura
americana tra le due guerre, specie di chi risciacquava la scrittura in
Francia, della “festa mobile” di Hemingway, con Sherwood Anderson, Fitzgerald naturalmente,
perfino Pound, e altri minori.
Gertrude Stein, Guerre che ho
visto, Oscar, pp. 260, pp.vv.
Il Congresso Usa vara
quattro leggi di spesa militare, per 95 miliardi di dollari. Di cui 61 per l’Ucraina,
26 per Israele, 8 per l’Indopacifico (per Taiwan). La maggior parte delle armi
da fornire all’Ucraina si trova “negli arsenali americani in Europa”, specie in
Polonia. Oltre un terzo dei fondi per l’Ucraina (23,3 miliardi) resterà comunque
negli Stati Uniti, “per riapprovvigionare i magazzini”. Altri 11,3 miliardi
serviranno per “le attività militari statunitensi in Europa”. Tutti i fondi comunque vanno spesi per acquisti negli Stati Uniti. Ci voleva una bella
guerra in Ucraina per svuotare\ricostituire gli arsenali.
26 miliardi di forniture
militari gratuite a Israele non sono pochi. Gli Stati Uniti hanno con Israele
un patto di protezione. Ma come lo esercitano? In Cisgiordania, per esempio. Anche
a Gaza, prima e dopo il 7 ottobre. Sono sei o sette guerre che combattiamo con
gli Stati Uniti in questo quarto di Millennio. Quasi tutte fallite.
Gli Stati Unit rassicurano
gli alleati, che hanno paura di Netanyahu e Israele: “Attacco improbabile prima
della Pasqua ebraica”, da domani cioè e fino al 30 aprile. Poche ore e l’attacco
è già consumato, di Israele contro l’Iran. Si può pensare a un Israele autonomo
dagli Stati Uniti? Evidentemente sì.
Il Gr delle 9 sabato fa
una lunga scheda economica. Per dire che il FMI boccia l’Italia, con uno 0,2 per
cento di incremento del pil nel 2026. Che è vero ma in un contesto. Che Standard
and Poor’s ha sospeso il giudizio, mentre invece lo ha confermato, stabile. E
che sull’Italia pende un giudizio Ue di compatibilità del bilancio – che pende
su tutti i bilanci Ue, troppo deficit. La giornalista non ha capito? Non c’è
nulla da “capire”. No, è che è che il Gr delle 9 è di Radio Tre, che nel
pluralismo (ahi, Bobbio) Rai è appaltata al Pd, e quindi deve dare questo tipo
di informazione. È assurdo ma funziona così, altro che giornalismo.
Non solo Rai 3, i giornali
che si leggono, “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “la Stampa”, devono
avere ogni giorno tre o quattro articoli contro il governo, due pagine, quando
non quattro – è la condanna della lettura, non si sfugge cambiando giornale.
Ora i “pezzi” variano attorno al debito. Mai però che si dica che è
ingovernabile per via dei bonus regalo dei governi Conte e Draghi, dei 5 Stelle
e del Pd. Si legge (ancora) il giornale
come un sacrificio.
La rassegna centrale della
Biennale d’Arte di Venezia, “Stranieri ovunque”, con la schwa al posto
della “i” finale, è a senso unico: mezzo Sud America e un po’ d’Africa, col Medio
Oriente islamico, ospitati a Venezia come atto di pentimento, dell’imperialismo,
del presuntuoso “fardello dell’uomo bianco”. Se non che, in sessant’anni d’indipendenze
piene in Africa e Medio Oriente, per esperienza, poco e niente è migliorato –
come in America Latina ormai da due secoli. Dirlo, accennarlo - invece del rituale
processo al “bianco”?
Surreale il post partita
Cagliari-Juventus su Sky. L’allenatore del Cagliari Ranieri si rabbuia contro i
suoi, superficiali in una barriera decisiva per il match. La tribuna Sky,
conduttore e tre o quattro “specialisti”, lo compatisce affermando che non c’era
il fallo che ha provocato la punizione – proponendo e riproponendo l’unica inquadratura
in cui il fallo sembra non esserci. Ranieri, uomo di mestiere e di modi, è
perplesso, i quattro, o cinque, sghignazzano. A pagamento, che su Sky non è poco. Si vive il mercato come una persecuzione.
Capita di vedere in
chiaro un po’ di partite Uefa, Champions, Euroleague, arbitrate cioè da arbitri-arbitri,
coi quali la partita fila via, è uno spettacolo atletico. Poi si cade, a
pagamento, su Cagliari-Juventus, e non si sa se il trio italico
Piccinini-Chiffi-Valeri è più ridicolo o tragico. Infligge lunghe sedute
tribunalizie se la palla è uscita o se il fallo è o non è di rigore. Annulla l’unico
gol bello di una partita noiosa, per un fuorigioco-ombra, l’ombra di un
pollice, non sancisce un colpo da boxe in area di rigore. Ma dove li prendono? L’“aggiustizia”
è infettiva?
“Non posso, Trump è come Berlusconi”. Un italo-americano, di nazionalizzazione recente, si esclude dalla giuria di New York che giudica Trump,
senza entrare nel merito, non da simpatizzante o da oppositore di Berlusconi-Trump,
semplicemente come cittadino chiamato a giudicare un personaggio politico per un
fatto politico. Il vero processo a Trump che si tiene a New York è nella scelta
dei giurati. Nelle ragioni che i giurati adducono per evitare di farne parte. A
un processo animato da un giudice che è sempre stato in carriera col partito avverso,
Democratico. Il “fenomeno Trump” è
curioso, in un paese di democrazia “avanzata”. Ma altrettanto curiosa è la sua
“giustizia”.
Paola Ferrari ha
rivitalizzato “90°Minuto”, sembra di nuovo quello di Valenti, Barendson,
Tosatti, sportivo, sorridente, limitando o cortocircuitando le diatribe avvocatesche
fra i necessari ospiti e commentatori. Ma è o è stata di destra, amica di Santanché,
benché sposa, o ex, di un De Benedetti. E questo basta a Aldo Grasso per una
stroncatura sarcastica sul “Corriere della sera”. Un giornale sempre compattamente
“trinariciuto” – Grasso probabilmente non lo sa, ma paga anche lui pegno. Il giornale come un monolite, di vecchi morti.
“Rai, Amadeus verso l’addio. Raggiungerà Fazio
sul Nove”. La “linea del Piave”, la “Montagna” (la Resistenza)? Con qualche
milione di rendita, annuo. Per Amadeus come per Fazio. Senza scandalo, anche se
sono gli “amerikani” che pagano, a perdere. È vero che non c’è più
filoamericano a perdere del Pci dopo il crollo.
Ora,
chissà quanti spettatori farà Amadeus col suo Sanremo personale, senza il
potere Rai, sul Nove? Ci si rimpicciolisce ma si guadagna di più, è questa la verità.
Come per Crozza, l’apripista, da Rai 2 alla 7 e al Nove.
Cosa sono gli Esg? Una
sigla: Environment (ambiente), Social, Governance, il Buongoverno in epoca green.
Che l’Europa prende sul serio. Solo l’Europa. In America (per non dire in Asia
o in America Latina, dove non gliene frega nulla) Unilever, che ci ha investito
miliardi, li dichiara inutili – dimezzando l’obiettivo di ridurre di due terzi
la plastica negli imballaggi. E per la Federal Reserve il presidente Powell
dichiara sprezzante: “La Fed non si occupa di politiche climatiche”. Non è così
invece per la Bce, che la impone alle banche. Le ottime banche italiane non protestano,
reduci da ottime performances gestionali, Unicredit, Intesa, Bpm, perfino
Mps. Ma fino a quando?
La Bce rende ora le
banche responsabili degli Esg dei clienti. Il management di Intesa, Unicredit
usw. sarà responsabile delle imprese che finanzia – forse anche dei mutui? – se
ottemperano ai parametri Esg (che non si sa quali sono)? E a questo punto uno
si chiede: è stupidità o che altro? Sembrerebbe impossibile che la banca possa
analizzare il rispetto degli Esg dei suoi clienti. E in effetti lo è. Ma l’Europa
crede alla sua propaganda.
I cinque giorni sei servizi segreti francesi dopo la guerra jihadista a
Parigi del 13 novembre 2015. Con centinaia di morti in una sola notte, e innumere
voli feriti, in varie zone di Parigi e in diversi contesti, lo stadio della
Nazionale di calcio, le terrazze di caffè e dei ristoranti, e il Bataclan, il disco
club strapieno di giovani. I cinque giorni, cioè, fin all’assalto di Saint-Denis,
giudicato un disastro, con attentatori suicidi, qualcuno in fuga, uno colpito
dalle truppe d’assalto morto, insieme con una donna complice involontaria.
Un curioso film giocato sull’azione, molte mimetiche, maschere e
mitragliatori, rumori, inseguimenti, pedinamenti, fughe. Un film che va di
corsa, ma non si sa dove. E dialoghi concitati, ma quasi incomprensibili,
almeno in doppiaggio, la parola non facendo testo. Un film grigio, anche nella
tonalità dell’immagine.
Cédrix Jimenez, November – I cinque
giorni dopo il Bataclan, Sky Cinema, Now