sabato 11 maggio 2024

Il mondo com'è (475)

astolfo


Vjaceslav Ivanovic Ivanov – “L’ultimo dei simbolisti russi”, N. Berberova, “Quaderno nero”, p. 68, storico, filosofo, poeta, drammaturgo e critico letterario, ha vissuto in Italia metà buona della sua vita, 1866-1949, dapprima per lunghi periodi, due-tre anni, poi, dopo la rivoluzione leninista, stabilmente. Sarà sepolto a Roma, nel cimitero acattolico a Testaccio, anche se lavorò molto in Vaticano, protetto dal papa Pio XI. Beneficiario di una scheda Treccani entusiasta: “Profondo conoscitore del mondo classico (Dionis i pradionistvo, “Dioniso e i culti predionisiaci”, 1922) e moderno, spirito eminentemente religioso, dialettico acuto, cercò di conciliare, in un umanesimo cristiano, ricco di ampie vedute originali, l’Oriente slavo-bizantino con l’Occidente germanico-latino…. Viaggiò molto; visse a Pietroburgo, dove, tra il 1905 e la rivoluzione, la sua casa divenne uno dei più vivaci centri di rinnovamento spirituale e culturale; a Baku, ove insegnò (1920-24) filosofia classica all’università, e in Italia, a Pavia, poi a Roma; l’Italia divenne, dopo che si fu convertito al cattolicesimo ed ebbe ottenuto la cittadinanza italiana, la sua patria di adozione. Le sue poesie …. fanno di lui uno dei principali esponenti del simbolismo russo, e al tempo stesso si distinguono, nella letteratura russa, soprattutto per il loro carattere essenzialmente classico; espressione di una cultura raffinata, intimamente vissuta, esse raggiungono, nella loro sostenutezza ieratica ed ermetica, una rara perfezione”.
Un poeta cerniera nel simbolismo russo, tra il culto dell’individualismo, del suo maestro Fiodor Sologub, il solo pensatore di qualche rilievo filosofico in Russia, e la cosiddetta “età d’argento della letteratura russa”, con i coetanei Brjusov, Blok e Belyi. Classicista, appassionato di storia antica, ma anche uno dei primi fan di Nietzsche. Mediatore in russo della Grecia classica, con traduzioni da Alceo, Bacchilide, Eschilo, Pindaro, Saffo, autore di tragedie al modo greco, con coro, studioso, sule orme di Nietzsche, di Dioniso e del mito. Di formazione germanica prima che italiana.
Studiò storia e filosofia a Mosca, dove era nato, per poi continuare in Germania, a vent’anni, nel 1886, per quattro anni, specializzandosi in stria antica con Mommsen e Otto Hirschfeld – l’epigrafista (in collaborazione con Mommsen), specialista di amministrazione dell’impero romano. Ivanov produsse una ricerca sul sistema fiscale romano, redatta in latino, che un a ventina dì’anni dopo, nel 19190, sarà anche pubblicata; “De societatibuis vectigalium publicorum populi romani”. Ma soprattutto vi maturò una passione per Roma, per la città. Una passione che nelle memorie (“…) attribuisce all’insistenza dello storico pietroburghese Ivan Michailovich Grevs, progressista (fautore dell’istruzione aperta alle donne), uno dei fondatori della Scuola russa di Medievalismo, che la struttura sociale dell’Europa medievale, compresa l’Europa orientale, riportava all’influenza dell’impero romano. Grevs, scrive in una “Lettera autobiografica”, nel 1917, “mi ordinò imperiosamente di recarmi a Roma, per la quale non mi sentivo abbastanza preparato; gli sono ancora oggi grato….. Sono state incomparabili le impressioni che ho ricevuto da questo viaggio primaverile in Italia attraverso la valle del Rodano, Arles, Nimes e Orange con le loro antiche rovine, attraverso Marsiglia, Mentone e Genova”. Fu a Roma, Napoli, in Sicilia, e poi di nuovo a Roma, per tre anni: “Siamo rimasti a lungo a Roma vivendo con un’umile famiglia italiana, cosicché dopo tre anni di questa vita ci sentivamo in un certo senso romani. Frequentavo l’Istituto Archeologico tedesco, partecipavo insieme agli allievi (i ‘ragazzi capitolini’) alle passeggiate archeologiche, pensavo solo alla filologia e all’archeologia mentre lentamente rielaboravo, approfondivo e ampliavo la mia tesi, anche se per lungo tempo ero rimasto senza forze a causa della malaria”.
Il plurale si riferisce all’incontro a Roma con quella che sarà la sua seconda moglie, Lidija Dimitrevna Zinov'eva-Annibal, al Colosseo (“La nostra prima ebrezza, ebrezza rea di libertà, / benedisse / spettrale il Colosseo”). Seguito da un viaggio ad Assisi che lei dirà (scrivendone a Grevs) di “rinascita”: “Siamo tornati da quel nostro viaggio fortemente rinnovati e abbiamo iniziato in maniera infinitamente più profonda a capire l’arte, cioè il gradino più elevato dell'esistenza umana. (...) Qui in Italia ci siamo sentiti più che mai nella nostra patria spirituale”. A Roma la coppia finirà per stabilirsi. Dei 43 anni vissuti complessivamente all’estero, trenta Ivanov li ha trascorsi in Italia. È a Firenze e Roma nei mesi da agosto a ottobre del 1910. Torna a Roma per un anno, dall’ottobre del 1912, che dedica alla traduzione di Eschilo. Nel 1920 decide di lasciare Mosca, dove si era trasferito al ritorno da Roma, per l’Italia. Un viaggio che motiva con la creazione di un Istituto di letteratura e arte russa. Ma non ottiene il permesso. Si trasferisce allora a Bakù, professore di umanistica nell’università locale – un corso lo dedica a “Dante e Petrarca”. Quattro anni dopo ottiene il permesso di espatrio, proprio per la creazione a Roma di un’Accademia Russa – un “Istituto russo di archeologia, storia e critica d’arte”. Un progetto voluto dal commissario all’Istruzione Lunačarskij e dal direttore dell’Accademia Russa, Kogan, che però non decolla.
Ivanov resta comunque a Roma, a sue spese, coinvolto in varie attività dalle sue nuove amicizie, Poggioli, Tatjana Tolstaja, Ol’ga Resnevič Signorelli. Grazie al rapporto con Ettore Lo Gatto partecipa a vari progetti, letterari, teatrali ed editoriali – in particolare collabora per più schede con l’Enciclopedia Treccani.
Per un lungo periodo, dal 1926 al 1934, risiede a Pavia, lettore di lingue al Collegio Borromeo, poi   docente di Letteratura Russa all’università statale. Bene accolto da Pietro Treves, Stefano Jacini, Antonio Casati, Tommaso Gallarati-Scotti. Onorato dalle visite, nella sua funzione al Borromeo, di Martin Buber, tra i tanti, e nel 1934 di Croce. Un incontro, quest’ultimo che Gallarati Scotti ricorderà trent’anni dopo, in “Incontri e memorie”, come “dialogo drammatico, doloroso e a momenti - anche se contenuto dalla correttezza – violento” (senza specificarne il motivo). L’anno prima, un intero fascicolo del “Convegno”, la rivista milanese fondata nel 1920 dal russista Ferrieri, il n. 10-12, è dedicato a Ivanov. Per iniziativa del germanista Alessandro Pellegrini. Con una scelta di poesie, saggi, lettere. E con contributi critici di Gabriel Marcel e E.R.Curtius tra gli altri. Il saggio di Pellegrini è sulla “Corrispondenza da un angolo all’altro”, tra Ivanov e Geršenzon, pubblicata l’anno prima nella traduzione di Ol’ga Signorelli.
A fine 1934 Ivanov lascia Pavia per Roma. Dal 1936 insegna slavo ecclesiastico al collegio vaticano Russicum – un incarico trasformato in un posto da professore a inizio del 1938 da Pio XI. Al Russicum e al Pontificio Istituto Orientale tiene brevi corsi di letteratura russa - nell'anno accademico 1939-1940 fa un corso su Dostoevskij. Lavora anche a un'edizione commentata delle Sacre Scritture in lingua russa, per la quale prepara gi “Atti degli Apostoli”, le “Lettere degli Apostoli”, l’“Apocalisse” e il “Salterio”. Collabora contemporaneamente anche alla traduzione in italiano di alcune sue opere, tra esse in particolare la melopea “L’Uomo”, riscritta rispetto all’originale russo.
L'ultima sua opera poetica è il “Diario romano 1944” (114 componimenti, il primo datato 1 gennaio, l’ultimo 31 dicembre). Una sorta di cronaca dell’occupazione tedesca, dei bombardamenti, e della liberazione, argomentata filosoficamente, col senso della storia e la ricerca della verità. Una raccolta di “Sonetti romani” aveva anticipato il “Diario”.
 
Lavoro obbligatorio – Fu a lungo un beneficio per i poveri, una sorta di reddto di cittadinanza legato però a una attività, che la comunità proponeva e gestiva. Proposto e attuato da un riformatore, Sir Edward Chadwick, per i lavoratori disoccupati, pena la perdita dei sussidi, nel 1834. Lo stesso riformatore spiegava nel 1842, con misurazioni millimetriche, di quanto le abitazioni più igieniche avrebbero elevato la longevità a la produttività dei lavoratori.
Utilitarista, amico di John Stuart Mill e assistente letterario di Bentham, di cui poi sarà il legatario principale, Chadwick fu l’animatore del dibattito sulla riforma delle Poor Laws e l’architetto del Poor Laws Amendment Act, la nuova legge, del 1834. Le municipalità erano costituite in Poor Law Union, una sorta di società di gestione degli aiuti ai poveri. Un’istituzione che durerà un secolo, fino al 1930, e consisterà principalmente nella gestione di una workhouse per i poveri, un laboratorio-opificio per mantenere in attività i poveri, disoccupati. L’obiettivo era levare i poveri dalla strada, passando dall’“aiuto esterno”, dalla carità, all’“aiuto interno”, un sussidio sotto forma di retribuzione.
Di questa riforma fu presto vittima l’Irlanda. Colpita dieci anni dopo dalla peronospera, che distrusse le coltivazioni di patate, l’alimento principale e la principale fonte di reddito. In quella che sarà chiamata la Grande Carestia, che dal 1845 al 1849 fece un milione di moti, si stima – e portò all’emigrazione un altro milione. In base al “sistema” del 1834 non fu possibile un aiuto diretto alle popolazioni colpite, solo l’internamento nelle workhouse, dove non c’era lavoro e quindi reddito.
 
Libia – Fu Tripolitania e Cirenaica fino al 1934. Assunse il nome di Libia durante il governatorato di Italo Balbo, su impulso di Mussolini nel quadro del revival della romanità, dell’impero. Ma sempre decentrata: Balbo nel 1937, per tentare di ridurre le ostilità tra Cirenaica e Tripolitania, e insieme venire incontro alla tribalizzazione del paese, articolò la Libia in quattro province e un territorio sahariano. Quest’ultimo, denominato Territorio Militare del Sud, ebbe centro a Hun, nel Nord del Fezzan (di cui Gheddafi ha fatto una città-giardino), le province furono chiamate di Tripoli, Bengasi, Derna e Misurata.
Il controllo del tribalismo fu l’attività maggiore del lungo dominio di Gheddafi, 1969-2011. Particolarmente forte fu la repressione nell’ultimo decennio del Novecento, del fondamentalismo islamico, acutizzato dal successo del khomeinismo in Iran, che altrove nel Maghreb, specie in Algeria, fece centinaia di migliaia di morti, in sanguinosissime guerre.


Resa incondizionata – La formula che regola i confitti da un secolo in qua è americana, annota Gertrude Stein nel suo diario di guerra, “Guerre che ho visto”, p. 126. Lo annota all’indomani della conferenza di Casablanca, gennaio 1943, tra Churchill e F.D.Roosevelt, nel corso della quale il presidente americano introdusse la nozione nel diritto internazionale proclamando appunto che la “resa incondizionata” sarebbe stata imposta a Germania, Italia, e Giappone. G. Stein si meraviglia della mancata reazione in Europa, e ricorda che la formula fu del generale Ulysses Simpson Grant nella guerra civile americana, che per questo fu prolungata: “Resa incondizionata che cosa strana… Resa incondizionata. Gli europei sono affascinati dall’idea della resa incondizionata. Nessuno in Europa ne aveva mai sentito parlare”. E ripete: “Gli europei sono affascinati dall’idea della resa incondizionata. Nessuno in Europa ne aveva mai sentito parlare”. E si dà questa ragione: “La vita in Europa è condizionata”, quindi la parola “incondizionata (è) come una cosa nuova come il jazz o l’automobile quando erano una novità o la radio, è qualcosa di nuovo e gli europei amano qualcosa di nuovo. A me piace parlarne con loro, dirgli del generale Grant con le sue iniziali U.S .Grant e che veniva chiamato United States Grant e Unconditional Surrender Grant”.

leuzzi@antiit.eu

L’amore nel lager – tedeschi non esclusi

Una storia d’amore tra i lager di Auschwitz, tra due internati slovacchi. Da un romanzo di successo, autrice Heather Morris, che si sarebbe basata su una storia vera – nel film la racconta lui, sopravvissuto.
Lui è un internato che fa il tatuatore, quello che incide il numero di matricola al polso dei compagni di sventura. Lo fa anche con le internate, e questo favorisce l’incontro. Mediato dalla guardia tedesca, un giovane violento ma nevrotico, cioè imprevedibile.
L’Olocausto, come l’hitlerismo, non finisce di fornire materia a film di genere horror che siano anche compassionevoli. Passando dai personaggi e gli eventi storici (Schindler, Höss) a quelli di contorno: il tatuatore, il pianista, l’interprete (a quando i kapò, i Sondernkommando del Crematorio, gli infermieri….?). A rischio banalizzazione. La miscela è di richiamo, le platee dei due generi messe assieme fanno larga parte del pubblico, ma non si parlerà dell’Olocausto come del West, un fatto vicino che è un mito remoto? Questa si salva con la figura nuova del tedesco, anche lui giovane, crudele ma controverso, che media l’incontro fra gli internati. La storia è in realtà del rapporto ambiguo tra i due, guardia e tatuatore: omoerotico, da parte del tedesco? di colpevolizzazione inconscia?
Tali Shalom-Ezer,
Il tatuatore di Auschwitz
, Sky Atlantic

venerdì 10 maggio 2024

Letture - 550

letterautore


Austria
– Il Nemico fu eretto arbitro. Di calcio, nel 1956. Lo ricorda Gabriele Romagnoli, nella presentazione degli scritti calcistici di Pasolini (Il mio calcio”): “Nel girone di ritorno, a garanzia d’imparzialità, le gare furono affidate a arbitri austriaci”.
 
Cina
– Fu “scoperta” da Montaigne, e poi da Voltaire, come una sorta di paradiso terrestre. Montaigne ha “la superiorità morale dei cinesi” – ma nel quadro della sua apologia del “buon selvaggio”. Da Voltaire nel “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”, 1756 - ma già nel “Secolo di Luigi XIV”,1738-1751 – come luogo di tutte le virtù, le buone leggi, il buon governo, e anche la buona letteratura.
 
Cina-Europa
 - “Cina pacifica e saggia – Europa guerriera e folle, sarà il gran motivo svolto a piena orchestra dall’Illuminismo settecentesco” – Federico Chabod, “Storia dell’idea di E uropa”,80-81. Ma il tema era già svolto da Montaigne, e prima ancora (Chabod omette i gesuiti) da Botero, Francesco Carletti, Ludovico Guicciardini.
 
Don Ferrante - Un grande giornalista dice Gadda l’aristotelico di Manzoni, del romanzo, nel saggio “Apologia manzoniana”, una riflessione, una delle sue prime, non pubblicata, del 1924: “È una persona colta. Guida l’opinione. Se vivesse molte redazioni di quotidiani se lo contenderebbero”.
 
Germania – Le minoranze sparse in mezza Europa, causa (una delle cause) della seconda guerra mondiale, danno al tedesco una sorta di primato letterario diffuso tra le nazioni – Alessandra Iadicicco su “La Lettura”, 5 maggio: “Sotto un profilo strettamente letterario è interessante ricordare che tra i 14 premi Nobel per la letteratura di lingua tedesca, dal primo, il tedesco Theodor Mommsen all’ultimo, l’austriaco Peter Handke, che da oltre trent’anni vive in Francia, ci sono due svizzeri, Carl Spitteler e Hermann Hesse (tedesco di nascita naturalizzato elvetico), un bulgaro, Elias Canetti, e una rumena, Hertha Müller”. Senza dimenticare “due tra gli autori più grandi dell’Europa e del mondo”, Rilke e Kafka, della “comunità minoritaria di lingua tedesca – parlante un tedesco purissimo, cristallino, musicale, intatto da influssi dialettali – dell’allora Cecoslovacchia”.
 
Gramsci – È sardo, perché sarcastico. Tale lo dice Emilio Lussu in “L’avvenire della Sardegna”, 1951- “espressione” invece “estranea alla Deledda”. Per “quella nostra ironia che appare disarmata ma che ferisce, e che fa del sarcasmo la nostra naturale impronta”. La cattiveria del servo (captivus), continua Lussu, “non differente nep­pure oggi da quella che Cicerone vedeva negli schiavi sardi ven­duti sul mercato di Roma”.
 
Italia – Manca di filosofia, scriveva Leopardi a Igino Giordani il 13 luglio 1821: “Chiunque vorrà far bene all’Italia, prima di tutto dovrà mostrarle una lingua filosofica, senza la quale io credo ch’ella non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione.” – l’Italia necessita, concludeva, di “filosofi inventivi, e accomodati al tempo”.
 
“Paese dalle mille città”, Federico Chabod, “Storia dell’idea di Europa”, 74, “ognuna ricca di una sua tradizione culturale e politica”.
  
Italia-Germania – Non ci sono solo la storia, da Arminio all’Unione Europea, e l’economia (il quadrilatero Lombardo-Veneto\Baviera-Baden) a unire Italia e Germania, c’è anche la lingua, “dei bavari e degli alemanni penetrati attraverso le Alpi in Veneto, Trentino, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia: la lingua cimbra, l’idioma walser,  la lingua móchena e di Sappada, il saurano, la lingua della Val Canale o del Timau, tutte di origine medievale” - Alessandra Iadicicco, “La riscossa del tedesco” (“La Lettura” 5 maggio). In aggiunta all’Alto Adige-Sud Tirolo, dove è lingua nazionale.  
 
Lutero – “Lutero vive come un idolo di santo cattolico nell’anima dei riformati” – C.E .Gadda nella “Apologia manzoniana” del 1924, da poco dismesso dal campo di Celle in Germania, prigioniero di guerra.
 
Manzoni – “Scrittore degli scrittori” lo nomina Gadda, manzoniano fervente, nella “Apologia manzoniana”, 1924.
 
Oriente – È “superiore”, di gran lunga, nel Settecento francese, e soprattutto in Voltaire, un secolo e mezzo dopo la sua “scoperta” – la sua formulazione – da parte di Guillaume Postel e dei gesuiti. In termini ammiratissimi, che contraddicono. “I cinesi sono superiori a tutte le altre nazioni dell’universo” è Voltaire nel prospetto di “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni” (1756).   Per un lungo elenco di primati: religione, giustizia, moralità, saggezza del governo – un governo dei dotti, dei “mandarini”. Voltaire scriveva in polemica (non dichiarata) con Montesquieu, che invece, sia nelle “Letere persiane” sia nello “Spirito delle leggi”, faceva dell’Europa la patria della libertà e del progresso, e dell’Asia un mondo immobile e dispotico, la Cina più che l’India. Ma l’opinione prevalente era in Francia, e anche in Italia, con Voltaire, spiega Chabod nella “Storia dell’idea di Europa”.  
 
Roma – Wladimir d’Ormesson, per un breve periodo nel 1940 ambasciatore francese  alla Santa Sede, cita a proposito dell’entrata in guerra dell’Italia, contro la Francia, il cardinale de Retz, potente del Seicento, che ammoniva: “Vi sono molte persone a Roma che amano uccidere chi è già a terra. Non cadete”.  
 
Vendetta – Quella sarda Emilio Lussu (“L’avvenire della Sardegna”) vuole speciale  (“noi siamo tutti piuttosto cattivi, a freddo, senza trasporti sentimentali”): “Essa non esplode immediata e pubblica, come in Corsica, incontenibile risposta al­l’offesa. La vendetta sarda è covata lungamente, silenziosa e clandestina, per anni, spesso per tutta la vita; e colpisce calcolata­mente, solo nel giorno più propizio, sì che alla strage del nemico corrisponda l’incolumità propria e, possibilmente, l’ergastolo per il nemico numero due, verso cui devono convergere tutti gli elementi di accusa. Vendetta, come ognuno vede, impeccabilmente razionale”.

letterautore@antiit.eu

Il giallo donna

Un killer di professione in fuga. Un lupo solitario, cattivo e brutto, ora cacciatore ora cacciato, con un po’ di luce alla fine del tunnel. Il “giallo” forse più semplice e diretto di G. Greene, il suo secondo dopo “Il treno per Istanbul” – e un paio di romanzi caduti nel nulla - ma già magistrale. Subito prima del più famoso “La roccia di Brighton”, ma al contrario di quello filato, tutto fatti. La prima letteratura è a p. 39, mentre il killer braccato fugge calandosi da una finestra, ed è breve, tre righe – peraltro fattuale, non “poetica”: “Le nuvole coprivano la luna, e la terra parve muoversi con loro, una sfera ghiacciata e senza vita nella tenebra immensa”. In una Nottwich che è Nottingham, dove Greene aveva vissuto e lavorato. Attorno a un traffico d’armi che prepara la guerra – l’ha già pronta. Su un’idea strepitosa: i due destini s’incrociano, del killer e del poliziotto che gli dà la caccia. Con un brillante, mai scontato, personaggio femminile tra i due. Con punte qui e là farsesche - come una messa in posa del genere, che comunque va al lieto fine. In ballo è nientemeno che la guerra mondiale - quella che dopo qualche anno sarà effettivamente combattuta.
Nell’Inghilterra pullulante di gialli whodunit, della caccia al colpevole, Greene introdusse il noir americano, azione e violenza. Subito già perfezionato, fin dalla prima pagina. E con un personaggio singolare di donna, non più ripetuto nei romanzi di Greene ma poco praticato nel genere, molto femminile e molto pratica, anzi risolutiva.
Una promozione elegante: una riedizione di lusso, carta, rilegatura, copertina, a prezzo popolare – la casa editrice si vuole qualificare per la narrativa di qualità. De Cataldo ricorda nella presentazione lo sceneggiato che la Rai ne ricavò nel 1970, di qualità - quando le serie (“sceneggiati”) erano curate e non tirate via, come ora usa, sotto l’impulso delle major americane che fanno il mercato dell’immagine, nelle pose, nei dialoghi, nei ritmi. Domenico Scarpa, che ha curato la riedizione nel 2020, la dota di un saggio sul taglio e la fortuna dell’opera.  
Graham Greene, Una pistola in vendita, Sellerio, pp. 315, ril., 1 +1 due libri € 10

giovedì 9 maggio 2024

La Cina rimbalza

Si svolge nella disattenzione la visita in Europa del presidente cinese Xi. Qualche foto per l’incontro con Macron a Parigi, e poi poche righe, per dire che è rimasto solo con qualche dittatorello, in Serbia e in Ungheria – i governanti eletti sono detti dittatorelli perché non condannano la Russia nella guerra.
Non è così in Cina ovviamente – che è un paese pluralista, direbbe Bobbio, ma non è democratico: il mini tour europeo di Xi è reputato importante. Se ne possono cogliere gli umori attraverso il “Global Times”, il quotidiano cinese online in inglese. Xi arriva con un aprile in netta ripresa negli scambi commerciali internazionali, sia esportazioni che importazioni, Un incremento tale da classificare il primo quadrimestre come uno dei migliori delle ultime annate economiche - il rilancio di aprile è stato di tale ampiezza da compensare il calo di marzo, e quindi dare al quadrimestre un forte segno positivo. Con celebrazione in parallelo dell’Unione Europea, secondo partner commerciale della Cina dopo l’Asean, il Sud-Est asiatico (comprensivo di Giappone e Sud Corea).
A margine, si può anche leggere nel “Global Times”, a proposito dell’Europa, che la guerra ha “frammentato” l’Ucraina, e ha indebolito l’Unione Europea, complicando le relazioni atlantiche – le sanzioni hanno danneggiato la parte europea della Nato più della Russia.

Ecobusiness

Ford perde 130 mila dollari ogni auto elettrica venduta?
Per il secondo anno consecutivo le vendite di auto elettriche sono in calo, in Italia e in Europa. In asenza di cotributi pubblici: se non paga lo Stato non si possono comprare. In Italia se ne ne vendono circa 200 al mese Tesla, altrettante Jeep Avenger, e un centinaio di 500e.
Le vendite di auto elettriche si fanno peraltro in perdita per le case automobilistiche, malgrado il costo elevato. Di quanto esattamete non si sa, per i regolamenti borsistici europei che consentono ai fabbricanti di non far sapere il costo\prezzo unitario del prodotto. Ma negli Stati Uniti i ricavi di Tesla, fabbricante unicamente elettrico, sono quest’anno in calo, per la prima volta da quatro anni -  di un 9 per cento. Molto più marcato il calo dei profitti, del 55 per cento. Il che significa che Tesla vende alcuni modelli in perdita.
Di Ford si può anche calcolare la perdita media per auto elettrica venduta: 130 mila dollari. Una cifra enorme. Ma evidente. La trimestrale registra un utile netto di 1,3 miliardi di dollari. Scontando una perdita di ammontare uguale, 1,3 miliardi di dollari, nel settore elettrico. Poiché Ford ha venduto nel trimestre 10 mila auto elettriche, il conto è presto fatto.

Mobbing di gruppo a Taranto, un po’ per ridere

La storia di un “reparto confino”. All’acciaieria di Taranto, un'ottantina di impiegati da liquidare confinati nella palazzina del titolo, senza alcuna incombenza – hanno pagato lo stipendio in attesa che si dimettano.
La storia anche di una privatizzazione mal congegnata, e poi (fino ad oggi) amaramente fallita – è successo per l’acciai come per i telefoni. I primi padroni, la famiglia Riva, oltre a commettere vari reati per i quali finiranno condannati, intesero la privatizzazione solo come un taglio del personale (l’analogo fatto in Sip-Stet, altro gioiello privatizzato male e finito peggio. Sullo sfondo di una politica compromissoria, che trascina nell’inettitudine anche il sindacato – sarà la Procura della Repubblica, su segnalazione anonima, a denunciare e perseguire il fatto: il primo caso di mobbing di gruppo.
Sui toni della commedia, per le tante gag e i personaggi da ridere. Ma episodicamente, la sceneggiatura non è unitaria. Molto documentato, è alla fine una sorta di cinema-verità, seppure a distanza di anni dal fatto. Costruito sulla figura di un contadino inetto e borioso. Uno che vive di un po’ di galline e qualche pecora, a cui la fidanzata albanese deve correggere l’ortografia, che ritiene la fidanzata e il di lei fratello spregiativamente “zingari”. Un funzionario del Personale dell’acciaieria, conoscente della famiglia, lo assume come operaio per dargli uno stipendio. Per poi gradatamente, essendo del tutto incapace come operaio, assegnare anche lui alla palazzina dei reietti nullafacenti, ma in qualità di spia del Personale stesso. Un cretino, che poi farà crollare per stupidità l’azienda in Tribunale.  
Un bel personaggio, da grande commedia grottesca. Che però Riondino, che è l’interprete principale, per questo premiato, confonde con gigionerie di troppo – sono la sua maschera? non si ricorda interpretazione cui ci rinunci. Opera, come soggetto e anche in parte sceneggiatura, di Alessandro Riogrande, che la vicenda dei confinati ex Italsider aveva portato alla luce - a Riogrande, morto prima della lavorazione, il film è dedicato. 

Michele Riondino, Palazzina Laf, Sky Cinema, Now

mercoledì 8 maggio 2024

Problemi di base bellicosi ter - 804

spock


Che fine ha fatto la flotta europea nel mar Rosso?
 
E gli Huthi?
 
“Ci sono guerre giuste, ma non ci sono eserciti innocenti”, André Malraux?
 
“I funzionari governativi credono quello che da loro ci si aspetta che credano”, Gertrude Stein?
 
E i giornalisti?
 
“È questo che fa la guerra e poi il fallimento della guerra”, G. Stein?
 
Terribile è vivere la caduta degli imperi”, Michail Bulgakov?

spock@antiit.eu

L’assalto della Germania alla Bce

Nella lunga intervista con Aldo Cazzullo sul “Corriere della sera” sabato,
https://www.corriere.it/cronache/24_maggio_04/mario-monti-intervista-c2400489-c714-4082-9c1a-93009d772xlk.shtml
Monti dice tra l’altro: “Il “whatever it takes” di Draghi ci aiutò; ma non sarebbe bastata una frase a salvare l’euro e il nostro Paese, se non avessimo cambiato noi gli equilibri politici in Europa, togliendo l’assedio tedesco alla Bce”. Un po’ presuntuoso il “noi” di Monti che cambia “gli equilibri politici in Europa”, ma un’ammissione terrificante: c’è stato un “assedio tedesco alla Bce”. Con l’Italia vittima dopo la Grecia? La Bce del governo Monti era quella di Draghi in coabitazione col francese Trichet, e subito dopo.
Non se ne parla – la stessa testimonianza di Monti è caduta nell’indifferenza. Ma il fatto, che ha avuto larga parte nella crisi del debito italiano, era noto - e nel nostro “Gentile Germania” è anche diffusamente raccontato. A inizio 2011 Deutsche Bank si era liberata dei titoli italiani del debito in ottica ribassista, per ricomprarli a termine. A luglio lo aveva fatto sapere al “Financial Times”. Si spiega in “Gentile Germania”: “A ottobre 2011, per riaccendere la crisi che si affievoliva dopo la vendita dei Btp, il capo economista della Deutsche Bank, Thomas Mayer, pubblicamente aveva ammonito contro ogni aiuto all’Italia. In una col presidente del Ces-Ifo di Monaco, rinomato istituto di studi sulla congiuntura, Hans Werner Sinn, che aveva redatto e pubblicizzato una serie di note contro l’Italia, sul debito e le banche.  Con l’effetto non casuale di mettere nel mirino le banche italiane, meglio gestite e capitalizzate delle tedesche, elevando una cortina di fumo su quest’ultime, che erano tutte un colabrodo, Deutsche inclusa. «Offrire un’assicurazione di prima categoria sui titoli contro il fallimento dell’Italia ci colpisce come offrire un’assicurazione sulla cristalleria al padrone di una casa prossima a un impianto nucleare che sta per collassare», scrisse Mayer online nel bollettino della banca. Neppure con la garanzia del Fondo europeo di stabilizzazione: «Né il padrone di casa né il detentore di titoli italiani si sentirebbero molto sollevati da questa assicurazione». Con spreco di distinzioni fra germanici e latini”. E senza risparmiare il salvataggio italiano, da parte di Unicredit, la prima grande banca europea allora crossborder, della maggiore banca bavarese, Hypovereinsbank – come se fosse stato un atto di pirateria, mentre la banca era un colabrodo.
Sinn è dimenticato, e l’istituto per la congiuntura di Monaco, che allora era autorevolissimo e lui indirizzò contro l’Italia. Ma Monti ha un secondo retroscena importante con Cazzullo, proprio su questo: “Il Papa mi aiutò. Ero angosciato dalla frattura che si era aperta tra la Germania, in particolare i bavaresi, e i popoli del Sud Europa, in particolare i greci e noi italiani. Gliene parlai, e Benedetto scrisse all’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx. Quell’intervento ebbe un certo effetto sulla Cdu tedesca e sulla Csu bavarese”.
 

La stupidità è più intelligente

Il bello scemo, candidato per questo a fare il sindaco dai poteri forti, e il carcerato in affido al parroco animatore inventivo vanno avanti con una serie di gag. Del genere “rovesciamenti”: non tutto è come appare. Non tutte efficaci. Ma c’è una sorpresa finale. Anzi una sorpresa doppia, che ispessisce il plot e lascia con gusto piacevole.
Nunziante prosegue con Pio e Amedeo la comicità fine a se stessa avviata con tanto successo con Checco Zalone: qui pro quo, giochi linguistici, ribaltamenti continui – il nobile è malfattore, la verginella è un po’ sgualdrina, il delinquente è amorevole, è sdrucito ma inventivo, confusionario ma manageriale. Non con la stessa naturalezza, anzi di comicità un po’ imposta, gridata, ma la stupidità vince lo stesso.
Gennaro Nunziante, Come può uno scoglio
, Sky Cinema, Now

martedì 7 maggio 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (559)

Giuseppe Leuzzi


Nella personalissima etnografia che da qualche tempo ha avviato sui mondi “altri”, non europei, non europeizzanti, lo scrittore Franco-algerino Yasmina Khadra, una lunga personale esperienza della violenza in qualità di colonnello dell’esercito negli anni delle sanguinosissime guerre civili mussulmane, conclude il romanzo dei cartelli messicani a Ciudad Juarez, la città più pericolosa del mondo, con un finale che non è la fine - lui che si è intrufolato nei cartelli per ritrovare lei, ne uccide il protettore e la ritrova, ma per una fuga senza scampo. Non si esce dalle mafie se non da morti (anche morti viventi, ora che vanno i pentiti). O dal male: le violenze subite non si rimarginano. 
                                                                                                                     
Salvatore Baiardo si propone a sindaco di Bagheria - dopo essersi candidato, sempre in proprio, alle Europee. Non di un paesano: di una capitale dell’arte e dela cultura. Un personaggio assurdo, non fosse per un giornalismo cialtrone e l’antimafia del meglio-che lavorare. Che ha fatto Baiardo, a settant’anni, per meritare la ribalta? A parte i gelati, che erano il suo mestiere? Promettere foto di Berlusconi con Riina, o altri mafiosi. Il ludibrio della Sicilia, del Sud.
 
La Sicilia non ha in uggia questo “trattamento”, mediatico e giudiziario. C’è un perché? In fondo, l’antimafia è molto “siciliana” - riesce difficile immaginare un’antimafia come la nostra in Lombardia o in Emilia. Manzoni, per es., liquida la mafia come un fenomeno limitato, anche se oscuro. E malgrado la diffusione, se i “bravi” sono stati contati in 30 mila dallo storico Ripamonti - o in 60 mila?
 
Si fa scandalo per il giovane italiano “incaprettato” dalla polizia a Miami. Si direbbe che la mafia faccia “cultura” anche in America – la vittima legata le mani ai piedi dietro la schiena come il capretto destinato allo scuoiamento, la pena dei traditori. Se la polizia si vuole mafiosa.
 
Si sottovaluta l’America, anche nel parco divertimento che per gli italiani sarebbe Miami – come se fosse un’altra Europa. Ma è vero che anche Miami è Sud. E le immagini dell’“incaprettamento”, diffuse dalle stesse bodycam dei poliziotti, mini videocamere indossabili, mostrano senza vergogna mani nere e brune.
 
Il Nord è piramidale
“Nelle regioni italofone della Svizzera, ovvero Canton Ticino e parte del Cantone dei Grigioni, il termine lombardo terùn/terone è utilizzato in tono dispregiativo per indicare, senza alcuna distinzione geografica o regionale, i citadini di nazionalità italiana” - wikipedia.
Il Nord è come l’impiccato, ha bisogno di elevarsi.
Il Canton Ticino è spregiativamente colonizzato dagli svizzeri tedeschi, per vie del sole: si comprano le case migliori e fanno vita isolata dai terùn ticinesi – impiegati, avvocaticchi, mestatori, parolai.
Gli svizzeri tedeschi non sono simpatici ai tedeschi di Germania.
Neanche i tedeschi austriaci lo sono, in Germania.
 
La filosofia è meridionale
Tirando le fila, a 93 anni, di una lunga pratica di pensiero, Biagio de Giovanni parte da una constatazione: la filosofia è meridionale – la riflessione intitola “Giordano Bruno Giambattista Vico e la filosofia meridionale”, ma la congiunzione è di fatto una copula: il titolo è un’affermazione, la filosofia è meridionale. In antico e nella modernità.  “La filosofia occidentale nasce … in Magna Grecia, e si diffonde ad Atene”. Modernamente, “per citare i sommi, Telesio, Campanella e Bruno sono disseminati tra Calabria e Campania. E poi viene il Vico napoletano”. E ancora, parlando dell’Italia unita, “i primi «hegeliani» d’Italia e d’Europa sono i napoletani, Bertrando Spaventa su tutti, che era di Bomba, in Abruzzo, ma napoletano nella sua vita filosofica. E infine i grandissimi del Novecento: Croce e Gentile”.
Certo, dice, al Nord non mancano i filosofi, “da Marsilio Ficino ad Antonio Rosmini”. Ma, se si parla di “filosofi che hanno contribuito a cambiare la storia e la logica del pensiero umano, il Mezzogiorno resta un confine abbastanza solido e sicuramente carico di nomi”.
È come diceva l’Avvocato Agnelli sprezzante nei confronti di De Mita? “Un intellettuale del Mezzogiorno. Di quel pensiero tipico della Magna Grecia”. Ineffettuale cioè, chiacchierone – lo stesso si era detto per decenni di Aldo Moro, poi risparmiato dopo la tragica fine, dell’inafferrabilità, o incongruità, del suo dialogare. De Giovanni non contesta l’Avvocato: “La maggioranza dei filosofi citati, i massimi, manifestavano tutti qualche diffidenza critica verso l’irrompere della rivoluzione scientifica, quella iniziata da Galilei”. Compreso Campanella, che pure, benché in carcere, lo difese, facendo pubblicare una “Apologia di Galileo”. Fino alla “violenza polemica di Federico Enriques contro Croce che invitava gli scienziati a calcolare, non a pensare”. O quella anti-cartesiana di Vico, altrettanto violenta, contro “una razionalizzazione che disprezzava la storia”, contro il cogito-ergo-sum, “una ragione che dubitava del mondo, ma non di sé”. Vuole però salvare la metafisica, contro “l’equazione filosofia-metafisica-arretratezza”: la metafisica è “un tratto decisivo per fondare l’Europa quale continente della libertà”. Senza contare, “e non è cosa da poco, che nel Mezzogiorno d’Italia si afferma la statualità, e in Europa non c’è filosofia che conti senza Stato”.
Per motivare “l’arretratezza del Sud rispetto al Nord si dovranno trovare altre ragioni”. La filosofia non ne ha colpa, è solo titolo di merito.
Resta inspiegato perché tanta filosofia sia ineffettuale. Se non per le ragioni note – cui il filosofo indirizza di sbieco, a proposito della statualità: “L’esperienza «spagnola» di «Napoli capitale» contiene un elemento di modernità statuale, con un forte ordinamento forense, cui le larghe zone di arretratezza sociale ed economica (le analisi sono già in Antonio Genovesi, si può dire che con lui nasce la «questione meridionale») fanno solo relativamente ombra”.
“Relativamente” nel senso di poco? Poco no. Relativamente rispetto al Nord, al circuito virtuoso dello svluppo, economico e civile.
 
Al Sud lavorano gli immigrati
“Lavoratori extra Ue, arriva dal Sud il 54 per cento delle domande”, calcola “Il Sole 24 Ore” sui dati del ministero dell’Interno, aggiornati al 24 aprile. Delle domande presentate da imprenditori e famiglie negli ultimi click day del 18,21 e 25 marzo “relativi agli ingressi del 2024.
Un terzo della popolazione, un quarto (un po’ meno) del pil, presentano “il 54 per cento delle domande” di regolarizzazione: 380 mila da Sud e Isole, 224 mila dal Nord, 99 mila dal Centro.
In particolare le domande sono arrivate dalla Campania. Il 33 per cento delle domande, oltre il triplo della Lombardia, 10,7 per cento, che ha più abitanti. In testa Napoli, con 120 mila domande, seguita da Caserta , 53 mila, e Salerno, 43 mila – Milano è a quota 36 mila.
In totale 231 mila domande in Campania, sei milioni di residenti, dove il tasso di disoccupazione è al 17,8 per cento. E 75 mila in Lombardia, dieci milioni di residenti, con un tasso di disoccupazione al 4,1 per cento.
L’emigrazione ha prosciugato il Sud, non c’è più abbastanza forza lavoro? No, evidentemente: il Sud lavora a bassissimo lavoro aggiunto, per cui conviene la disoccupazione piuttosto che lavorare – il lavoro si lascia agli immigrati, nei campi e nelle famiglie, a basso costo, specie di oneri sociali.


Cronache della differenza: Napoli
“Un napoletano muto”, così ha lasciato scritto del Segretario di Stato di Pio XII, Luigi Maglione, cardinale, nelle memorie Wladimir d’Ormesson, ambasciatore francese presso la Santa Sede nel 1940, all’entrata in guerra dell’Italia (contro la Francia). Uno di cui bisognava capire “le mezze parole”, “una espressione”, “un gesto”, “una strizzata d’occhi”.
 
La donna de “Il fuoco che ti porti dentro”, il memoir di Antonio Franchini, napoletano principe degli editor a Milano, è la sua propria mamma, a detta dell’autore. Che la carica di tutto il peggio, “il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore”. Questo non è “napoletano”, non ci sono precedenti letterari locali di madri degeneri. Ma Franchini sì: non essere accomodanti – il “napoletano” è crudele.
 
Ernest Pignon-Ernest, “il pittore francese precursore della street art, molto prima di Banksy, molto prima di JR”, si è avvicinato all’Italia, dove opera, attraverso Pasolini e Napoli, trent’anni fa. “Rimasi folgorato dal caos”, dice a Montefiori su “La Lettura”: “Era una specie di caos legittimo, nel quale si poteva anche passare col rosso o andare contromano senza ricevere insulti, c’era una forma di convivenza ordinaria col caso”.
 
“Oggi Napoli è cambiata, è più ordinata”, continua Pignon-Ernest. Ma “i napoletani sono convinti che Napoli sia il centro del mondo, tutto è nato a Napoli, la prima nave a vapore in Italia, il primo teatro dell’opera, il babà al rum… e forse hanno ragione”. Una captatio benevolentiae, Napoli soprattutto seduce, o respinge.
 
“Napoli è la città in Europa con il maggior numero di armi in circolazione”, calcola Roberto Saviano sul “Corriere della sera”. È anche una città, dice Saviano, in cui i figli vogliono uccidere padri. Ma non in senso figurano, vogliono ammazzarli. Fa il caso di un Cristian Esposito, “figlio del boss Massimiliano Esposito detto «lo scognato»”, cioè lo sdentato, che del padre dice: “Quell’indegno tiene i principi suoi, lo devo fare pezzo a pezzo”.  Ancora: “Mamma mia, mamma mia, il primo che devo alzare in aria è lui. Lo devo alzare in aria, padre e buono”.
 
Raul Brancaccio, tennista professionista, 26 anni, 121mo nel ranking mondiale, declassato al 321 dopo una stagione sfortunata, si riprende a Napoli in un Challenger contro il francese Herbert, 36mo in classifica, quindi contro i pronostici. È avviato a un secondo set vittorioso, decisivo, se non che il “suo” pubblico gli si scatena contro, con urla, minacce, “termini impronunciabili”, al punto decisivo, per fargli perdere la concentrazione. E ci riesce: Brancaccio ha sette match point (colpi vincenti) ma non ce la fa. Il cuore di Napoli sono i soldi, la napolitudine è un mito, certo.
 
Il giovane Brancaccio è stato battuto dalle scommesse illegali. Lo sanno tutti, spiega il tennista a “Repubblica”: “Questa gente scommette sul game, sul risultato, sul punteggio, sul servizio, sui game, sul numero dei punti fatti in un set, su quello totale, e lo fa mentre assiste alla gara in corso in tribuna, con i telefonini, cosa assolutamente vietata”. Ma non al cuore di Napoli.
 
leuzzi@antiit.eu


Vita dei pastori in Sardegna dopo la guerra

“È mio. Ne ho bisogno in campagna”, disse il padre Abramo alla maestra alla ripresa della scuola dopo l’Epifania del 1944, e Gavino crebbe pastore, dall’età di sei anni. Durante il militare a Rieti, racconta qui, “feci conoscenza con un maestro di Poggiobustone, Ottavio Gentileschi. Un ragazzo simpatico e molto preparato. Si entusiasmò del mio entusiasmo”, e gli insegnò a leggere, lo introdusse alla cultura – il pastorello è diventato scrittore. E ha scritto e pubblicato molto. Si è anche laureato, a Roma nel 1970, in Glottologia, facendosi poi ricevere all’Accademia della Crusca – e dopo qualche anno ha avuto a Cagliari un incarico di assistente a Filologia romanza (evidentemente senza retribuzione – altro romanzo d’epoca….- se ha dovuto fare ricorso alla Legge Bacchelli, la modesta pensione pubblica per meriti letterari).
Un racconto di formazione. Di rabbia ed emancipazione. Che mantiene intatta la vigoria linguistica, essendo in realtà un’opera doppiamente originale, per il tema e per la lingua. Che è la trascrizione italiana della “lingua” sarda, di una delle lingue sarde. Di una sintassi (logica) e una sensibilità verbale dell’isola nell’isola Sardegna in cui l’autore era nato ed è cresciuto – e tuttora vive, Siligo, non lontano da Sassari.
Un racconto che ha fatto epoca all’uscita, nel 1975. Tra i Franchi Narratori Feltrinelli. Ed è presto diventato un classico, nelle scuole italiane e un po’ in tutto il mondo, il racconto dell’emancipazione attraverso lo studio. Sulle tracce di De Amicis, Deledda, etc.
“Padre padrone” si ricordava per la forza della sua lingua, concisa e insieme espressiva, diretta. Si riedita da classico – con introduzione di Carlo Ossola. E sembra un altro libro, forse effettivamente un “classico”, come “Cuore”. Perde, risulta aver perduto, la freschezza (la violenza?) della sua prima pubblicazione. Della vita del giovane pastore non da letterato, ma da pastore, seppure scappato alla dannazione cui il padre lo destinava. Forse effetto anche del contesto: Abramo, morto centenario, leggeva il giornale, padre e figlio vivevano vicino, in belle case. Non più una tranche-de-vie, drammatica, ma una testimonianza, ben scritta, un quadro d’epoca - vita dei pastori in Sardegna dopo la guerra.
Gavino Ledda, Padre padrone,
Oscar Cult, pp. 252 € 14,50

lunedì 6 maggio 2024

Il vero senso della guerra

Inimicarsi la Russia non ha senso diplomatico e nemmeno militare per gli Stati Uniti. Perché gli Stati Uniti da un decennio ormai con chiarezza si confrontano con la Cina, per cui una Russia forte e amica, oppure neutrale, è necessaria. E allora perché indurla alla guerra in Ucraina?
La sfida alla Russia è una costante americana dalla seconda presidenza Clinton, indotta dall’ex consigliere per la Sicurezza Brzezinski, proseguita da Bush jr., e poi personalmente da Biden, vice di Obama nelle due presidenze di quest’ultimo. In un’ottica europea, di confronto (poco) mascherato con la cosiddetta Fortezza Europa.
Gli Stati Uniti hanno stretto rapporti bilaterali privilegiati con i paesi europei dell’ex impero rosso, i Baltici, la Polonia, l’Ucraina, la Romania-Moldavia, la Georgia, e a tratti con la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Con la Polonia specialmente Clinton e Bush jr., con l’Ucraina Biden. Per indebolire la Russia e per condizionare l’Unione Europea dall’interno.
Da dieci anni gli Stati Uniti hanno forzato il contenimento della Russia spingendo, col sostegno dell’Inghilterra, loro mosca cocchiera, in Ucraina. Agganciandone le forze di destra estremsta. Misconoscendo gli accordi di Minsk tra Uraina e Russia mediati dall’Europa, attorno alla prima reazione russa ale manovre di Biden, con l’invasione della Crimea. Hanno addestrato e armato le forze ucraine, e tuttora le controllano - specie nei contrattacchi in profondità nel territorio russo. Sempre promettendo-minacciando un’azione risolutiva per liberare l’Ucraina ormai occupata, e sempre rinviandola. Ma senza drammi: la tensione permanente è obiettivo della guerra.  
Non può essere altrimenti. In termini militari una guerra d’attrito ha un senso solo politico. Non la sconfitta, nel caso, della Russia, potenza nucleare forse superiore agli Stati Uniti, né lo smembramento dell’Ucraina. Una sola è la logica: tenere l’Europa sotto tallone, già abbondantemente indebolita dai primi due anni di guerra.  
 

Secondi pensieri - 534

zeulig


Auto-coscienza
– O confessione - narrazione di sé, quale oggi prevale. Ci si conosce per sommatoria: cosa s’è aggiunto, cosa distrutto. Ma non a torto i bogomili dicevano la natura opera del diavolo, che tormenta beffardo l’uomo e gli sottrae forze e desideri. Conviene concentrarsi su di sé, si scrive pure per il bisogno che si ha di esprimersi. Come Tolstòj, che gira su se stesso. Che anzi, come Turguenev ha intuito, il terribile segreto opprime di non riuscire ad amare altri che se stesso.
Ma bisogna essere corazzati, tali il pedagogo Rousseau che i figli crebbe al brefotrofio – uno che ama l’infanzia ma non i suoi figli è un altro discorso: se l’uomo moderno è scisso, l’intellettuale è fangoso, ma “Rousseau mentiva e credeva alla sua menzogna”, nota Tolstòj. E questo chiude il discorso, o lo riapre.
 
“L’anarchica onnipotenza della personalità è un lapsus”, dice ancora Tolstòj, “bisognerebbe dire monarchica”. Per quanto, i russi non sono affidabili: “Parlo a nome mio”, dice Sklovskij, “ma non di me. Inoltre, quel Viktor Sklovskij di cui scrivo probabilmente non sono io e forse, se ci incontrassimo e prendessimo a parlare, sorgerebbero tra noi dei malintesi”. La confessione esce dalla testa di sant’Agostino, per il quale Dio sta sopra di noi ma va cercato dentro di noi. Ma ha una parentela. È Giobbe l’antenato della confessione.
Come in Giobbe, la confessione risuona della viva voce dell’autore. Questa è la confessione: parole a viva voce. La confessione è parlata, è una lunga conversazione, in tempo reale. Ma, come un romanzo, ci trasporta in un tempo immaginario, creato dall’immaginazione, in circostanze anche immaginarie. Il romanzo ha origine nella lanterna magica, nella soffitta abbandonata, nella natura vergine. In un tempo diverso da quello della vita. Quando il tempo del romanzo è quello della vita - Proust, Joyce – si ha una confessione.
  
Coscienza
– Tolstòj spregia la coscienza. Anche Hitler, che ne imputò l’invenzione agli ebrei. Già Hobbes la teneva in sospetto: “Coscienza, secondo il modo in cui solitamente gli uomini usano la parola, significa un’opinione, non tanto della verità della proposizione quanto della loro conoscenza di essa, alla qual cosa la verità della proposizione è conseguente”. Quindi, se io non conosco Gigi ‘Rriva, verità della proposizione, e al bar sento i fautori di Rivera, magari mi convinco che il bomber è un brocco. La certezza si combatte con l’incertezza, o con un’altra certezza? E l’incertezza? Siamo nel film di Antonioni, e va bene. Ma a che punto è la guerra al vecchio, il mediocre, l’ingiusto? O l’istinto di tirarsi indietro non è in reazione alla vilificazione di massa, ma contro l’egualitarismo che essa comporta? Da hobbits, i paguri del retrogrado Tolkien, che si ritagliano il loro piccolo mondo, fatto di ripetizioni gratificanti per essere comode, contro le convulsioni del grande mondo, e sono stupidi, incerti, terrorizzati, terroristi, insulari, conservatori. A noi non ci spaventa il brutto ma, per dire, quest’uso democratico, piccolo borghese, del doppio dativo, che poi in Spagna è buonissima grammatica. Del resto la coscienza, coi rimorsi e tutto, ce l’hanno i buoni, ai quali non sarebbe necessaria.
E dunque la coscienza, che Hegel mette con Dio o spirito del mondo, è invenzione del diavolo, se umilia i buoni. Per i ladri è la morte, nel Dictionnaire di Vidocq. Se non è lo Stato. Sempre Hegel afferma che “lo Stato è lo spirito che risiede nel mondo, e si realizza nel mondo attraverso la coscienza”. La coscienza, dunque, è dei Prefetti.
O del Novecento. Per la tecnica del flusso di coscienza, la letteratura del secolo, o delle seghe, abili certo, interminabili.
Del racconto senza interruzioni è maestra Vernon Lee, frasi di una pagina, modellate, senza ripetizioni né anacoluti, o soffi al cuore, un gioco d’incastri senza fatica. Il flusso di coscienza invece si vuole debordante. E dunque è la coscienza uno sciacquone? Deve avere qualche parentela con la confessione, una salmodia insonora.
Politicamente corretto – Ida Magli, che da ultimo si è voluta scorretta – anticonformista, criticona, perfino “di destra” – vedeva però bene, una dozzina d’anni fa, “Dopo l’Occidente”, sul confomismo vuoto di oggi. A propopsito del politicamente coretto: “La forma più radicale di lavaggio del cervello che i governanti abbiano mai imposto ai propri sudditi. La corrispondenza pensiero-linguaggio è infatti praticamente automatica. (...) Non sappiamo chi sia stato a ideare un tale strumento di potere per dominare gli uomini e indurli a comportarsi secondo la volontà dei governanti, un'evoluzione terrificante di quella che un tempo si chiamava censura. Terrificante soprattutto perché la censura non è più visibile come tale, nessuno ne è più consapevole: è stata introiettata”. Compreso il genere-non genere: “«L'uguaglianza finale non sarà soltanto quella delle idee, della lingua, della religione, della Patria, ma anche fisica. L'uguaglianza che si persegue, però, è il più possibile indistinta, di cui il modello è il trans. Si tratta, dunque, di preparare i giovani a non appartenere a nulla, a non identificarsi in nulla, a non sapere orientarsi sessualmente ma anche geograficamente, come è stato affermato con semplicità eliminando la geografia dagli insegnamenti scolastici”.
 
Ricordo – È selettivo, si sa – “la mia memoria è eccellente per dimenticare”, poteva dire Stevenson, “Rapito”. Anche casuale e involontario, distorcente a volte, ma pur sempre una ricostruzione. Di cose già vissute, in qualche modo - Pavese non ha ragione, che annota il 28 gennaio 1942 nel diario “Il mestiere di vivere”: “Ricordare una cosa significa vederla - ora soltanto – per la prima volta”.
Succede anche su terreni neutri, non problematici, non penali – un film, una lettura. Recentemente due film che il ricordo ha interamente trasformati. Uno, “I ponti di Madison County”, una lettura propone di tante cose che il ricordo eliminava: la solitudine in famiglia, l’emigrazione (trasmigrazione, dei corpi e delle anime), la famiglia come unità, di anima e di corpo. Mentre si ricordava l’Iowa come deserto, nella calura e l’umidita, nell’isolamento, pur nella benevolenza tra vicini, i ponti di legno coperti come un modesto “segno di sogno”. E senza l’Italia, che invece vi ha gran parte. E ancora: l’isolamento del globe-trotter, come si diceva, il vagabondo. E l’“inesistenza” dei genitori per i figli, forte, diffusa. O “Guida romantica a posti perduti”, film anche recente, quindi meno dei “Ponti” passibile di vuoti di memoria: memorizzato solo per i luoghi, le immagini dei luoghi, in effetti molto vive, mentra è un racconto di due disadattati, un alcolizzato e una fobica, dettagliato, insistito, prevalente nella narrazione e nelle immagini.
 
Rinascimento – Stagione del nichilismo lo vede Gadda nel saggio su Manzoni, 1924, “Apologia manzoniana”. Del “nihilismo fiorentino”, tra Machiavelli e Galileo. Rivedendo umoristicamente la figura di Don Ferrante in Manzoni, nel romanzo, lo dice Grande Opinionista – “è una persona colta, guida l’opinione”. Con una folta biblioteca, ma “deviata”: “C’è nello scaffale un posto per il «Principe» e un altro per il «Saggiatore» ma non sono proprio i suoi santi. Piante più grosse, nella bizzarra foresta, hanno avviluppato e soffocato”. E in nota: “. Volendo vederne la ragione dialettica. È già in atto in questo ostracismo la reazione religiosa (Molina, Corneille, Kant) contro il nihilismo fiorentino, sbocco del nostro  Rinascimento”.


zeulig@antiit.eu

Pasolini spensierato allo stadio

“Ci sono nel calci dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del «goal»”. “Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno”. “Tutto è cambiato in questi trent’anni” (1969)…. Tutto è cambiato ma le domeniche, agli stadi, sono rimaste identiche. Me ne chiedo il perché”. “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara… sono stati indubbiamente i più belli della mi vita”. Era ala destra, gli amici, “qualche anno dopo, lo avrebbero “chiamato lo «Stukas»: ricordo dolce-bieco”. Di più: “Il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo. Il calcio come ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.
Gabriele Romagnoli raccoglie sei articoli sparsi di giornali e tre interviste specifiche, tra il 1956 e il 1975, “una piccola grande antologia”, come “un discorso aperto”. Di un poeta tragico, tale vissuto dal pubblico prima ancora della morte ignominiosa, sempre per un motivo accigliato, anche nei tanti servizi fotografici che di sé prediligeva sui campi da calcio, in pieno assetto da partita, che invece si diletta, di una passione semplice. Pasolini ambiva all’innocenza, qui, in queste divagazioni, in qualche modo la vive.
Scritti agili, non noiosi (generalizzanti, sociologico – la “vena aperta” di Pasolini). Se non nell’articolessa per “Il Giorno” del 14 luglio 1963, ripresa l’anno dopo a Ferragosto su “Paragone”.
Il primo intervento, un’intervistina a “Paese Sera”, 1956, è a un “costanzo”, che è quel Costanzo, aveva 18 anni e cominciava proprio allora. Sincero: il calcio vuole all male – “che le donne giochino a pallone è uno sgradevole mimetismo un po’ scimmiesco” è annotazione di pochi giorni, poche ore, prima della morte: il calcio è Billy Budd, le cacce di Hemingway. Con un incredibile ritratto di Capello agli esordi, a p. 87 – patria friulana.
Il saggio lungo. “Il Giorno”-“Paragone”, dota pure di schemi grafici, con la doppia W per il calcio europeo, mentre il calcio sudamericano sintetizza come di “discese concentriche”. E l’immagine subito emerge della Roma di Liedholm e Falcao, dell’“onda”, quando il playmaker in pantofole portava armoniosamente avanti tutta la squadra – vista dall’alto delle gradinate Monte Mario, al centro dello stadio, sembrava una geometria in movimento.
 
Senza dismettere l’aura profetica. Di un altro calcio Pasolini ha sentore, prevedendone, cinquant’anni fa, gli sviluppi che oggi ci affliggono: “Il «calcio spezzatino»”, nella sintesi di Romagnoli, “la liturgia infinita, neanche un giorno senza partite, il calciomercato permanente come la campagna elettorale, le venti squadre in serie A, le coppe europee aperte a un manipolo di squadre per Paese, i tornei in Asia, il fuso orario dettato dalla Cina, la bulimia di spettacolo che riduce la magia a esercizio”.
Una lettura rinfrescante. Anche di Romagnoli - geniale “i tronisti dl calcio” Cassano, Balotelli. Con una svista: Romagnoli si dispiace che Pasolini non abbia potuto vedere Mar adona. Ma come? Lo ha antevisto nel saggio pretensioso, descritto nei particolari.
Pier Paolo Pasolini, Il mio calcio, Garzanti, pp. 93 € 5,90

 

 

domenica 5 maggio 2024

Ombre - 718

“Il Papa mi aiutò”, spiega Mario Monti a Cazzullo in una diffusa intervista sul “Corriere della sera” a proposito del suo governo nel 2011: “Ero angosciato dalla frattura che si era aperta tra la Germania, in particolare i bavaresi, e i popoli del Sud Europa, in particolare i greci e noi italiani. Gliene parlai, e Benedetto scrisse all’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx. Quell’intervento ebbe un certo effetto sulla Cdu tedesca e sulla Csu bavarese”. Le vie del Signore sono (in)finite.
 
Ma non c’era solo la Baviera, cioè l’istituto per la congiuntura di Monaco, diretto da Hans Werner Sinn, anti-italiano dichiarato, in combutta con Deutsche Bank, che aveva venduto Bot e Btp, lo aveva detto al “Financial Times”, e voleva ricomprarli per niente. Monti ha altro da dire: “Il “whatever it takes” di Draghi ci aiutò; ma non sarebbe bastata una frase a salvare l’euro e il nostro Paese, se non avessimo cambiato noi gli equilibri politici in Europa, togliendo l’assedio tedesco alla Bce”. Il “noi” è presuntuoso (a noi ci salvò Obama), ma perbacco: dunque, c’è stato un assedio tedesco alla Bce, contro l’Italia dopo la Grecia? Alla Bce di Draghi, in cogestione col debole Trichet (quelli della lettera contro l’Italia da loro stessi passata all’“Espresso”), e subito dopo.
 
Italia ultima in Europa per investimenti in infrastrutture, nelle chiare tabelle del “Sole 24 Ore”. Eccetto che per le fonti di energia alternative. Che finanziamo tutti, ricchi e poveri, con le sovratasse sui consumi di energia dette “oneri di sistema”. Senza controlli sugli esiti. Un (piccolo?) affluente della corruzione, per la quale invece siamo primi.
 
Un’Autorità per il calcio? È quella che ci manca. Anche le ragioni non mancano: sia il Covisoc, l’organismo della Federazione Calcio per il controllo dei bilanci, sia la cosiddetta giustizia sportiva sono al di sotto di ogni sospetto - i soli controlli contabili si fanno sulla Juventus, attraverso la Consob. Ma un’altra Autorità? Prodi le ha create, venticinque anni fa, per regolare il mercato, contro gli abusi, a protezione degli utenti\consumatori. Ma sono per lo più carrozzoni inutili, quale è il Garante per la Privacy, che non fa altro che moltiplicare i fogli inutili da firmare per qualsiasi atto, a raffica. O pericolose, come l’Ivass (assicurazioni) e l’Arera (energia) che si direbbe sono lì per favorire il “mercato”, il malaffare.
 
“Kiev, Macron sfida Mosca”: Perbacco! Ma non bisogna sottovalutare i presidenti francesi, per cinque anni si sentono dei Cesari, proprio, sul terreno militare. E già ci hanno inguaiato in Libia.
Della Russia si penserebbe che abbiano timore. Ma anche Napoleone vi si avventurò – non sapeva nemmeno bene quanto fosse grande, e che l’inverno ghiaccia.
 
“Giustizia, l’accordo”. Carriere separate per i magistrati “requirenti” e i magistrati “giudicanti”. Cin due Csm. E un’Alta Corte di Giustizia interamente dedicata ai magistrati. E crollano le resistenze: basta moltiplicare le poltrone.
 
“La città di Seul ha venti orchestre sinfoniche”, per musiche europee va aggiunto, “mentre noi, patria della musica, in alcune regioni – la Lucania, la Calabria, il Molise – non ne abbiamo nessuna. Però abbiamo caterve di conservatori che sfornano diplomati destinati ala disoccupazione”, Riccardo Muti, “Il Venerdì di Repubblica”. Una Repubblica senza (nemmeno) le banane.
 
Ville comunali, tra cui grandi parchi come villa Pamphili, chiuse a Roma per il Primo Maggio: il Comune non paga le spese dei volontari addetti alle aperture e chiusure (benzina e panini).  Perché? Perché i volontari delle aperture sono 5 Stelle, e il Comune è Pd. A Roma la sinistra si litiga anche gli stracci, quando si tratta di soldi.
 
Siamo ultimi nella Ue come tasso di occupazione totale (61,8 per vento), femminile (51 per cento) e giovanile 18-29 anni (33 per cento). Abbiamo poca voglia di lavorare. E non vogliamo altri (stranieri) che facciano il lavoro che non vogliamo.
 
Nelle more delle solite polemiche tra la neoscudettata Inter e la Juventus, “Tuttosport” ripubblica online documenti agghiaccianti del processo “Calciopoli” - in cui il club milanese non c’entra, ma forse no. C’entrano i Carabinieri, un colonnello Auricchio che nascose ai Procuratori di Napoli (o i Procuratori nascosero) le intercettazioni dell’Inter. Tutti promossi, il militare e i sostituti - diventati Procuratori Capo ipso facto (senza mai lavorare, attestava il loro Capo di allora Cordova - che tenteranno di far destituire dal Csm, ma questo non l’ottennero). Che giustizia.

L’Inghilterra sporca e cattiva – non per ridere

Una mamma irlandese giovane, impetuosa, sboccata, simaptica, in un ring con vecchie comari di villaggio, all’ombra della sacrestia, e della gentlemania inglese. Vittima naturale dei sospetti quando una serie di lettere ingiuriose sono indirizzate alle donne del villaggio, secche ma micidiali,  molto scurrili. Salvata da un agente donna, una delle rime, vittimizzata dal suo grasso capo, anche perché è mezzo indiana – accettata in polizia solo perché suo papa era un agente, inglese.
Una commedia, col taglio da commedia, sorretta da due ottime protagonist, una Olivia Colman zitella gonfia, di zelo e di bile, e una vera irlandese Jessie Bukley. Ma il pubblico in sala non ride. “Wickhed little letters”, letterine malvage è il titolo originale. Il film si difende come – Improbable - racconto di fatti “realmente accaduti”. Ma si direbbe una satira dell’Inghilterra, di un secolo fa come di oggi, dopo la Brexit: arrogante, stupida, grassa, brutta, un po’ sporca, non solo negli abiti – non trasandata, sporca; antistranieri, classista, anche nei ceti più bassi, pettegola. Il pubblico resta sempre fedele a Sua Maestà?
Thea Sharrock, Cattiverie a domicilio