sabato 8 giugno 2024

Problemi di base - 810

spock


Il realismo serve alla verità?
 
Il falso è più vero?
 
La stupidità è più intelligente?
 
L’amore è più violento?
 
Il futuro è oggi?
 
Non tutto muore ?

spock@antiit.eu

Abbasso la mamma

“Dicono dei padri che violentano le figlie, ma io ho visto Angela violentare la mia prima sorella”, Angela è la madre: “Annientarla, un giorno dopo l’altro”. Questo è scioccante ma non troppo: ognuno ha visto nella propria o altrui famiglia casi del genere, un rapporto aggressivissimo madre-figlia – non se ne parla, perché Freud non ne ha parlato, la psicologia non si sa cos’è, e il politicamente corretto è femminista, ma è un fatto, notorio. Se non che la parola più ricorrente è “maleodorante”, dalla prima riga: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”.
Una filippica, così si presenta il racconto in ripetuti tornanti, contro il legame materno: “Ma io che c’entro con questa donna?  Che cos’ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto mi separa”. La demolizione, all’apparenza, del legame parentale ritenuto più sacro, la maternità. Eretica per l’epoca, l’epoca contemporanea, femminista a occhi chiusi. Ma forse, inconsciamente?, un atto d’insubordinazione.
Questo è vero. Passati i sessant’anni, come nota di se stesso, per accentuare il suo ruolo di vittima, sessant’anni di insolenze e violenze materne, l’autore si lascia andare alla liberazione mentale dell’età adulta. Non antifemminile, molte donne amate ricorrono, zie, sorelle, moglie. Cioè, non misogino, ma contro il potere che la donna può esercitare, nefasto, in quanto madre. A cui viene opposta la figura paterna. Di un padre in là con gli anni e non affettuoso, non smanceroso, ma attento, e un porto sicuro per i ragazzi - commercialista di giorno, con sudio centrale e importante, cultore di libri rari con cui passa le serate solitarie. Un Filottete, l’autore decide da ultimo. Fratello maggiore, discreto, di un eroe di guerra, un militare medaglia d’oro nella guerra contro l’occupazione tedesca, per avere immolato nel giugno 1944 “la sua purissima giovinezza alla patria risorgente” – insomma un eroe della Resistenza, anche se quella militare non si riconosce. Un padre “altoborghese, cresciuto in condizione agiata”, con barca, seppure in condivisione, “con curiosità intellettuali e gusto per l’arte” – “non è conformista, è indulgente verso le debolezze, quelle degli altri più ancora delle proprie. Non sa condannare….”. Un padre che l’autore ritroverà negli zii e cugini, anche loro altoborghesi, a Milano.
Ma, poi, anche la madre vituperata non è da poco. Si è sposata incinta. Dopo due fidanzati “calabresi”, uno intelligente e uno bello. Forse non ha nemmeno tradito il marito-padre, di età doppia della sua. Con il quale invece ha fatto tre figli. “Assomiglia all’attrice Lea Massari”, che non è poco. E insomma, “anche lei è stata giovane, ed è andata a scuola facendo il classico in anni in cui non è facile che una ragazza orfana di padre e di condizione umile vada al liceo”. Dove ha studiato con profitto. Ha conoscenza squisita del latino, risolvendo al figlio, e all’amico latinista con cui il figlio studia, qualche problemino d’interpretazione. Di Filologia romanza usa dire “Filologia e romanzo”. Ma a “Filologia e romanzo” ha preso 28, come il figlio scrittore, pur “tenendo «a panza annanze»”. Ed è capace di trovare di molto napoletano le radici remote, greche e latine. “Le sono sempre piaciute le lingue classiche, il greco e il latino. È affascinata dalle sopravvivenze del greco e del latino nel napoletano”. Che non è da tutti rintracciare, specie dai famosi verbi greci del Pechenino. Ha perfino fatto studi di pedagogia, psicologia e teologia per affiancare la figlia maggiore negli studi e nella professione - di insegnante di religione.
Se non che è sboccata. La madre non riesce a parlare se non al modo delle “vaiasse nel facciaffrunto”, le popolane in piazza. Una madre beneventana, quindi un poco strega. “Sgherra” si definisce – è sannita prima che beneventana. “In un paese in cui ogni famiglia ha il suo soprannome, quelli del ramo di suo padre sono detti «sgherri»”, ingiuria (“sgherri come guardie armate, milizie private, gente a cui non la si fa, prepotenti”) che lei rivendica con orgoglio. Un concentrato del brutto: “Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo”, si dice il narratore a un certo punto, “l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre”. Che però è una persona, non una figura – e in quanto figura non è tanto italiana quanto europea, asiatica (araba sicuramente), latinoamericana, americana.
“La Talpa non fa che cucinare, e non parla che di mangiare” - la “vaiassa” e “sgherra” è detta in famiglia anche la Talpa. Quando non inveisce contro le “zoccole”. Cioè contro le donne: ogni donna è una zoccola, ma specialmente le figlie. Lei e la sua amica Carmela, un’altra che ama il turpiloquio, Franchini dice “the last two of a vanishing people,come l’ultimo dei Mohicani”.
Con molte annotazioni di costume, d’epoca. Del tipo: per i bambini “il rito crudele del riposo pomeridiano”. O le conversazioni sotto l’ombrellone, in spiaggia - alle diverse latitudini, a Formia piuttosto che a Scalea. È l’epoca, negli anni dell’autore in famiglia, della “cucina con «tinello»”. Cioè della familiarità obbligata, il “tinello”, adiacente alla cucina, fungendo da soggiorno, e le altre stanze restando chiuse – contro la polvere, per il decoro, in attesa degli ospiti che non si invitano mai. “Gli uomini appaiono sicuri di sé, convinti del mondo immobile e gerarchico che hanno creato o accettato, e noi li odiamo, ma le donne, molte di queste donne, sono pazze e noi non ce ne accorgiamo”.
La madre è anche Napoli, i riti e miti che circuiscono la città, e stancano. Ripetutamente, in ogni circostanza. Ed è il raffronto Nord-Sud perpetuo, anteleghista, per ogni evento. Un modo d’essere o di dire in effetti diffuso, e stucchevole.
Ma, poi, Napoli è celebrata indirettamente nel dialetto, di cui Franchini non si sa privare, anzi fa un uso estensivo. La lettura si direbbe la più “napoletana” dopo Basile, anche più di Eduardo o Di Giacomo - più “veracemente” napoletana.
Uno sbocco di malumore? Non per duecento e più pagine - riscritte. Di un’opera che sa di “non finito”. Non per mancanza di tempo o di voglia, o di progetto, ma per l’incertezza dell’artista sull’ultimo tocco, dopo avere sbozzato il tronco con colpi violenti di scalpello, con spazzolate invece dello stencil - il “non finito” che dà più rilievo al soggetto e alla sua storia, anche se irrisolta.
Non un libello. Un lungo epicedio piuttosto. Il tributo a una madre “senza tenerezza, la mia madre senza grazia, la mia madre di rabbia e furia”. Angela, la madre, “ha attraversato altre mie storie”, confida l’autore, “sempre con un’ombra negativa”, tirata in campo “per esprimere qualche forma di disvalore”. Nel libro su Giancarlo Siani, intitolato “L’abusivo”, come personificazione dell’“amoralità familiare meridionale”, da Franchini appaiata all’immoralità, la violenza,  la sopraffazione della “criminalità organizzata”. Un collegamento che prospetta una  énaurmité ubuesca alla base del racconto. Dopo la constatazione: “Ma che ne ho saputo io di lei per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza  e della sua maturità”? In casa Franchini come in tutte le case, ognuno lo sa: i genitori non sono più un problema “dopo”, in vita sono vittime dei figli, che li hanno per impaccio, e della disattenzione necessaria: “Che ne sanno di noi i nostri figli?” Malinconico: “Per lungo tempo non diamo vita”, i genitori, “che a fortuite eclissi”.
Una trenodia doppia: anche alla città, da emigrato senza nostos, senza ritorno. Malgrado anche qui le maldicenze, un tributo alla lingua. Angela e la città confluiscono alla fine in Pino Daniele, “Napule è”.
Un lavoro di “scrittura”, curata, di bulino, senza plot. Esito paradossale per un editor così rinomato come Franchini – non è lui il “curatore editoriale”, come si definisce, l’autore ombra,  del best-seller del Millennio, “Gomorra”?
Finisce con la giustificazione: “Ad amare come viene sono buoni tutti, e anche chi ama senza essere riamato trova consolazione in questo sacrificio, ma chi è incapace di risvegliare attorno a sé le forme minori dell’amore conduce una vita aspra e non sa perché”. L’indulgenza prevale. L’effetto alla lettura è gargantuesco, Franchini sembra essersi divertito a fare il Rabelais, con eccessi linguistici e anche caratteriali, di aggettivazione, situazioni, deviazioni\digressioni, rivolgimenti improvvisi. Attorno a un personaggio “odiosamato”, ma autonomo, a tutto tondo – col tocco di “nonfinito”.
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro
, Marsilio, pp. 223 € 18

venerdì 7 giugno 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (562)

Giuseppe Leuzzi
Nella lunga invettiva contro la madre (la sua propria madre, Angela, non la figura materna), “Il fuoco che ti porti dentro”, Franchini introduce “’O zappatore”, la canzone di Libero Bovio di un secolo fa, di forte retorica familista e sociale (lo zappatore irrompe nella festa cui partecipa il figlio,  che ha mantenuto agli studi, e gli “insegna” a riconoscere e onorare “la madre”, le origini), e conclude l’episodio: “Queste senso d’inferiorità dello zappatore, che si rovescia nel suo contrario, è lo stesso di Angela, è lo stesso di tutto il Sud” – “ciò che la canzone ostenta è soprattutto la fierezza del contadino, la sua superiorità morale sul signore, una supremazia ribadita dalla posa guappesca”.
Il Sud guapperìa?
 
Si critica il progetto di autonomia differenziata per problemi probabilmente di equità, ma dimenticando quella di cui hanno beneficiato e beneficiano - con Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia - la Sardegna, con profitto, e la Sicilia, con disastri – il sottogoverno del sottosviluppo. Le leggi sono uguali per tutti, ma vedere che benefici ha tratto dallo statuto speciale il Trentino-Alto Adige, montagnoso e aspro, chiuso, diventato la regione più rica, civile e pulita d’Italia (e del mondo teutonico), e cosa ne ha fatto il giardino delle delizie Sicilia, che si può obiettare?
 
Commentando la lettera di un’accademica, Caterina Carpinato, specialista a Venezia di lingua e letteratura neogreca, scandalizzata dal “teatro gremito plaudente” al leghista Salvini a Catania, il catanese Francesco Merlo evoca “l’eternità del Sud come scenario naturale degli imbonitori, verso i quali a Catania viene esibito un misto di soggezione, sottomissione e fatalismo pur covando diffidenza e disprezzo”. È possibile. C’è gente di destra anche a Catania, che ce l’ha con gli immigrati, con l’Europa, e con i giudici giustizieri – da molti decenni è tutta l’isola a votare a destra, irrimediabilmente. Ma è il volto della politica al Sud.
 
La famiglia avunculare
Si pratica in molto Sud, in Sicilia, in Calabria, a Napoli, oltre al genere queer liberamente in famiglia, dello zio, la zia ostinatamente celebi e un po’ misantropi, il rapporto familiare avunculare, dei figli che crescono con gli zii, la zia, lo zio. Nel rispetto e l’affetto degli e per gli zii. Specie se non sposati, o allora senza prole. Un uso probabilmente magnogreco, poiché in Grecia in antico era diffuso e ricordato – una delle tante eredità greche dall’antico Egitto, di cui le storie non tengono conto, dove era pratica legale al vertice dello Stato, nella successione dei faraoni..  
Il rapporto non si trova in letteratura perché i letterati al Sud sono sempre stati allogeni – del resto, non ce n’è traccia neanche nella letteratura scientifica, neppure nei meandri freudiani. Ma è stato a lungo un fatto, e da quello che si può vedere e sapere personalmente lo è ancora. Antonio Franchini nell’ultimo racconto, “Il fuoco che ti porti dentro”, ha molte insofferenze verso le famiglie, e più ancora verso il verso il Sud, partendo dalle intemperanze e i pregiudizi, o modi di dire, della propria madre. Ma è, e lo testimonia ripetutamente, avunculare in misura al Sud ormai sconosciuta o non più praticabile: rispettoso e legatissimo a zie e zii, gli unici suoi personaggi amati, di cui racconta a a più riprese con ammirazione e affetto.
 
La nuova questione meridionale
Non è la Lega, non l’autonomia differenziata, non è Roma o Bruxelles il nemico del Sud: il nemico del Sud è il Sud. La politica gira a vuoto al Sud, ancora come sempre - con pochissime eccezioni, Mancini in Calabria, Moro a Bari, D’Alema nel Salento. Rituale, sconnessa, improduttiva e perciò negativa.
La spina dorsale è debole e debolissima del Sud. Che si pregia delle cartoline dell’Unesco, di storia e di bellezza, della cucina, dei turisti, delle esportazioni (“il Sud aumenta le esportazioni più del Nord” - dell’uno avendo fatto due rispetto all’anno precedente). Mentre il fatto è “l’economia congelata del Sud, il Pil ancora sotto di 7 punti rispetto al 2008”. Che Gianni Trovati può chiamare sul “Sole 24 Ore”, ironicamente?, “diseguaglianze”: “Anche l’anno scorso crescita a + 0,7 per cento, poco più della metà rispetto all’1,1 per cento del Nord”. L’anno scorso come i precedenti: “Anche nel 2021 e nel 2022 il prodotto interno lordo a Nord è cresciuto più che nel r esto del Paese, come è accaduto costantemente fra 2020 e 2019”.
Con in più la crisi demografica - chi l’avrebbe detto, il Sud si spopola, la famosa “donna del Sud” finalmente si scopre, determinata a non fare la fattrice: la “produzione pro capite è ferma dal 2016 al 56 per cento di quella settentrionale per il calo della popolazione residente”. In un quadro generale sempre di sottosviluppo: “Il Mezzogiorno “fra 2007 e oggi ha cumulato un differenziale negativo di crescita rispetto al Nord di 9 punti”. Con il risultato che il pil del Sud è ancora sotto di 7 punti rispetto ai livelli che precedono la crisi del debito pubblico scoppiata nel 2008-2009”, quasi vent’anni fa.
È aumentata l’occupazione: al Sud è aumentata nel 2023 de 3,1 per cento, molto dipiù che al Nord, 1,7 per cento. Ma “un’occupazione che corre più del prodotto interno lordo denuncia in media una flessione della produttività, cioè della causa strutturale del deficit di crescita”.
 
Milano non è più la meta
Giovanna Maria Fagnani registra sul “Corriere della sera” la “fuga degli insegnanti da Milano, il costo della vita è troppo alto, in 796 lasciano la città, per il sud Italia”. Ritornano. Anche la bidella Giuseppina Giuliano, venuta alle cronache perché per mesi ha viaggiato ogni giorno da Napoli a Milano, e viceversa, non potendosi permettere “un letto in condivisione” a Milano: ha ottenuto il trasferimento. Era successo negli anni 1990 col personale ospedaliero, la paga non bastava a pagarsi vitto e alloggio, succede ora per l’insegnamento: si accetta la nomina al Nord, ma appena si maturano i numeri per il trasferimento si chiede il ritorno a casa, o nelle vicinanze.
Non si direbbe nemmeno un ritorno, è solo una strategia di nomine nel pubblico impiego. Per la peculiarità italiana di un costo della vita molto differenziato, a parità di servizi e consumi. Il modo di vita è uguale al Nord e al Sud. Ma in gran parte del Sud, nei paesi e in qualche città, uno stipendio pubblico consente un tenore di vita anche elevato, mentre a Milano non basta.  
“Tra le regioni di destinazione in testa il Lazio, la Sicilia (con la provincia di Catania al primo posto), la Campania (Napoli al primo posto), la Puglia (soprattutto a Bari e dintorni). Il 15 per cento circa si sposterà verso altre province lombarde, Monza Brianza, Bergamo e Brescia in testa - anche qui probabilmente per il costo minore degli affitti”.
 
Ma il Sud si è (anche) svuotato
Nei dodici anni dal 2012 il Sud ha perso 600 mila residenti. Circa 1,3 milioni i movimenti in uscita dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord, e circa 700 mila i trasferimenti in direzione opposta. La regione del Sud da cui si parte di più è la Campania, che ha la popolazione maggiore (quasi 6 milioni) rispetto a Sicilia (5 milioni) e Puglia (4): uno su tre migranti dal Sud viene dalla Campania. Che però è anche la regione con il maggior numero di immigrati. Qui con sospetto d’illegalità, camorristica o di caporalato, su cui ora indaga la Procura Antimafia sollecitata dal capo del governo: nel click day del “decreto flussi” d’immigrazione 2024, Napoli ha fatto più domande di nulla osta di tutta la Lombardia.
Negli stessi anni 2012-2023, secondo un’elaborazione della Banca d’Italia, 30 mila laureati del Sud si sono trasferiti all’estero, 138 mila al Centro-Nord.


Il familismo amorale non è criminale

Ripetutamente critico, nel memoir sulla madre “vaiassa” e “sgherra”, “Il fuoco che ti porti dentro”, della sorta di protoleghismo meridionale, comunque napoletano, che il Nord, e specialmente Milano, doveva immancabilmente vituperare quaranta e cinquanta anni fa e ridurre in briciole, Franchini evoca il “familismo amorale” come motore del malaffare. Conclude anzi il racconto ricordando il suo libro “L’abusivo”, sull’assassinio del giovane giornalista Giancarlo Siani da parte della camorra, che aveva l’intento “di mostrare come certi meccanismi di violenza, di sopraffazione, di amoralità fossero latenti nella relazioni private della società meridionale, anche borghese, prima ancora che nella criminalità organizzata”. Tesi ardita, anche se ha avuto spessore sociologico.
È la vecchia tesi di un vecchio libro di Edward C. Banfield, sociologo inglese, 1956, il primo studioso della mafia. Si deve a lui il “familismo amorale”. E nel familismo la radice – insieme con altri pseudo-concetti, come l’omertà – delle mafie. Il familismo amorale peraltro estendendo a tutta l’Italia: per l’italiano la famiglia resta la massima espressione di statualità.
La sociologia non è più anglo-sassone - anche se l’economia e la politica, la vita comune, lo sono più che mai, nel “pensiero unico” - ma qualche distinzione è opportuna. Banfield dava spessore scientifico a Longanesi, che però era un battutista, e il “tengo famiglia” lo voleva sulla bandiera italiana.
Franchini sanziona il legame famiglia-mafia con l’aneddoto che gli ha raccontato “uno scrittore napoletano”. Suo fratello, il fratello dello scrittore, spiega alla madre, che gli chiede perché è preoccupato, che ha messo incinta una ragazza, e la madre lo rincuora: “E tu dici ca nun è ‘o toio…”. Che non è meridionale, benché suoni alla Totò, e certamente non è mafioso. Alcune pagine prima Franchini vitupera la madre, tema del suo memoir, fra le altre nefandezze, per avere “trovato un posto” alla sorella maggiore come insegnante di religione, arruffianandosi i preti. No, la madre studia psicologia, pedagogia e le altre materie di magistero, per accompagnare negli studi la figlia, e poi anche teologia: la sorella aveva tutti i titoli per insegnare religione, anche se gli incarichi venivano demandati al vescovo.
Le famiglie sono unite, e sono anche disunite, anche al Sud. Le mafie purtroppo no – o allora è guerra, fino alla morte.


Cronache della differenza: Puglia
Con un minimo di preparazione chimica si può produrre olio d’oliva con solo il 4 per cento della materia prima propriamente detta, produrlo regolarmente – è uno dei famosi regolamenti europei. Ma a Cerignola hanno fatto di più: hanno perso olio di semi e lo hanno trasformato in olio evo. Illegale, come ha dimostrato “Gambero Rosso”, ma ben fatto. Il malaffare richiede applicazione.
 
“Accanto alla più grande acciaieria d’Europa non è sorta nemmeno una fabbrica di forchette” è battuta micidiale del film “Palazzina Laf”, di Michele Rimndno (che ne è anche regista e attore) e Alessandro Riogrande. L’industria di base che avrebbe dovuto fare d a volano per lo sviluppo – il “grande balzo” per cui fu famoso il presidente Mao. Una teoria errata, oppure ottimistica. Ma è vero che niente è sorto attorno alle “cattedrali nel deserto” che dovevano promuovere il Sud. Non per colpa dello Stato che aveva investito.
 
Sempre in “Palazzina Laf” l’acciaieria di Taranto è un’isola del più cupo localismo. Dall’orizzonte basso, bassissimo, benché la fabbrica esportasse, ed esporti, in tutta Europa. Perfino nel linguaggio: si privilegia il dialetto stretto (altri filmati lo addolciscono), indistinto per i più, coi sottotitoli.
 
Si dice Gaetano Salvemini di Molfetta. Come se fosse una tara, un non luogo. Lo stesso dice ripetutamente Stinchelli nel suo pamphlet online contro “La verità sull’affaire Muti-Barcaccia”. Lo stesso, un po’, indirettamente, dice Arbore, che pure è di Foggia – un po’ più su di Molfetta, essendo capoluogo?, che si professa napoletano.
 
Si può essere eletti a destra e fare l’assessore in una giunta di sinistra. Forse per questo Bari era la città della fiera del Levante.
 
Il Salento, che ha soppiantato la Toscana nell’immobiliare agreste degli anglo-americani ricchi, ha fatto un miracolo trent’anni fa con i fondi per il restauro dei centri storici, ha riscoperto il grikò, e i fondi europei per le minoranze linguistiche, ha ripulito anche le spiagge, e ora ospita, per la grande capacità di accoglienza, il vertice dei Sette Grandi, che è una baraonda. Più il papa. Trent’anni fa era area depressa.
 
Il Salento ha molte ricchezze, che infine, con la spinta del senatore Acquaviva e del romano D’Alema, ha messo in valore. Quelle naturali, ambientali. Quelle storiche e artistiche hanno avuto un solo patrono, la lombarda Maria Corti, nei quattro anni che insegnò a Lecce, e dopo. Prima del boom turistico, quando il Salento ha scoperto se stesso.

Saranno stati gli anni, o la fatica del concerto appena concluso a Verona, ma nel messaggio finale, pure di forte humour inglese, Riccardo Muti, una vita a Firenze, Milano, Chicago, Ravenna, la città dove gestisce la sua orchestra di giovani, nonché Vienna e Salisburgo, riprende un forte accento pugliese (cadenza, tonalità). O ci sarà un imprinting linguistico. Si parla come in famiglia.

leuzzi@antiit.eu

Giallo curioso

“The Mistery Reader Companion” è il sottotitolo: notizie, curiosità e divagazioni sui romanzi e film gialli - l’autrice di “Anonima assassine” aveva cominciato con il nucleo centrale del genere, a lungo prettamente maschile. Un must per i cultori del genere, anche per i semplici curiosi. Oltre che un libro da collezione – eccessivamente bello per la quotazione attuale del mercato librario.
Irlandese di origine, l’autrice è la prima libraia che ha aperto negli Stati Uniti e gestito una libreria specializzata nei gialli – di librerie del genere ce ne sono state altre, ma tenute da librai – negli anni 1970-1990.
“Murder Ink” era la sua liberia, a Manhattan, Upper West Side, il quartiere residenziale intelletuale di New York tra il Central Park e il fiume Hudson. La aprì nel 1972, la cedette nel 1976 (la libreria vivrà, vagando per Manhattan, fino al 2006), e ne aprì un’altra a Key West in Florida – che animava anche con spettacoli gialli.
Col volume Winn ha vinto il premio Edgar (Wallace) della Mistery Writers Association degli Stati Uniti. “Anonima Assassine”, sottotitolo “La parte migliore del giallo”, seguì nel 1979.  
Un volume molto illustrato, molto curioso. Non di cose già note. C’è un tè con Frederic Dannay, il cugino sopravvissuto del binomio noto com Ellery Queen. Un’intervista è con Donald Downess, un romnziere che era un ex spia dell’Oss, il bozzolo della Cia: Downess aveva risposto a un annuncio a pagamento di Dilys Winn sulla piccola pubblicità del “New York Times”, che invitava chiunque avesse voglia di parlare di spionaggio di prendere contatto con lei.
Dilys Winn, Anonima Assassini
, Milano Libri, pp. 522, ill., ril. € 10 online

giovedì 6 giugno 2024

Celebrazione in minore dell’impero Usa

È un’immagine fiacca che gli Stati Uniti hanno offerto alla celebrazione dello sbarco in Normandia. Dell’evento che li ha incoronati padroni del mondo. Biden lento, vacuo, e forse confuso. Mentre a casa lo sfida un Trump più furioso che mai. Sono tempi calamitosi - sempre lo sono, il proprio delle democrazie è tremare.

La cosa fa senso nella celebrazione della Liberazione. Perché la Liberazione è prima di tutto americana: sono stati gli Stati Uniti a liberare gli europei, con sacrificio enorme di uomini e di mezzi, di risorse.  Ma il clima è ora in America da basso impero: mignotte in cattedra, giustizia corrotta, ruberie colossali, una sagra delle maldicenze interminabile, con i barbari sempre alle porte - manca solo il generale, il capo delle centurie. Mentre il mondo è in ansia, specie in Europa. Per sapere se ci sarà la guerra nucleare, e per cos’altro combattiamo la Russia, per conto dell’America. La Russia e la Cina. Giacché gli Stati Uniti, che hanno imposto la globalizzazione quarant’anni fa, ci impongono ora di demolirla, in un orizzonte di rovine e di fame.
L’impero Usa è sempre vasto. Militare. Economico. Culturale o sociale, di costume. Ma incerto. Vacuo, e forse non voluto, non più. Sicuramente involuto. L’americanizzazione, subito adottata dopo la guerra in Italia e Germania, a lungo risentita in Francia e Giappone, e ora estesa alla Cina e all’India, è debole in patria: gli americani non si sentono più predestinati, e non parlano più di liberazione e democrazia. Le guerre sono state sempre perdute dopo lo sbarco di Normandia che si celebra. L’impero economico è costellato di disastri, imposti a tutto il mondo: 1929, 1970, 1973, 2007 – tutti provocati dalla libera speculazione.

Con l’eccezione dell’Italia, e di poche altre aree, il resto del mondo non si fida dell’egemonia americana. Da ultimo con l’allargamento della Nato imposto all’Europa, alla Transcaucasia e all’Indo-Pacifico. Nel mentre che se ne disinteressavano a ogni effetto pratico – facciamo una guerra perché l’Ucraina doveva entrare nella Nato, mentre ora si proclama che l’Ucraina non deve entrare nella Nato.

 

Virginia vista dal basso

Com’era la vita domestica di Virginia Woolf, vista da una delle sue serve, Nelly Boxhall, che è anche cuoca – l’altra, Lottie Hope, è un’orfanella, illusa inguaribile. La stanza è, ironicamente, antifrastica della “Stanza tutta per sé” di V.Woolf: quella delle sue domestiche è piccola, bassa, angusta.
Il romanzo si vuole della condizione e dell’occhio delle serve in casa della “banda” di Bloomsbury – le due donne hanno anche servito in precedenza e servono occasionalmente negli anni della narrazione (1916-1934, poi Nelluy finirà in casa di Charles Laughton ) in casa di Roger Fry, di Vanessa Bell, del fratello psicoanalista Adrian Stephen. Che vedono come “una banda di invertiti e di immorali, e che cambiano di letto, d’amante e di sesso”. Un occhio che Giménez-Bartlett vuole di classe. Senza la politica, ma di condizioni classiste di lavoro, di remunerazione, di dignità. Virginia non è la Padrona ma è bene la Signora – all’autrice è mancata la notazione che Virginia è cresciuta in una casa con otto domestici, a Hyde Park Gate. Senza mai una riga o una parola amichevole, diretta, semplice, anche di curiosità, nei quasi venti anni di frequentazione. Oculata sempre, perfino taccagna, benché non lo sapesse - era il suo dovere di Signora. Anche quando la casa editrice cominciò a funzionare, e ci furono soldi, tanti che la coppia Woolf poté comprare nuove proprietà o migliorarle, nei tardi anni 1920.
Con un po’ di contesto. Il gruppo di Bloomsbury gaudente, malgrado la guerra e il difficile dopoguerra, e trasgressivo – a beneficio delle serve? E la situazione al mercato, il luogo delle serve, sempre difficile, prima per la guerra e i bombardamenti, poi per la ripresa postbellica stentata, infine per la crisi del 1929.
Non un romanzo-verità, insomma, non svela nulla. Neanche nei ritratti feroci di Lady Ottoline Morrell, o della seconda amante di Virginia, Ethel Smith - una cafone, agli occhi delle serve.... Smontare il mito Virginia Woolf non è necessario e forse impossibile. Comunque non si fa qui. Quando muore “la signora Murry”, Katherine Mansfield, si opina che Virginia ne fosse gelosa, per la gioventù, la bellezza, e la scrittura. E se fosse? Il punto nodale, del contesto e infine della narrazione, è l’equivoco del progressismo. Qui l’autrice è sintetica e va al punto. Succede quando la Signora registra l’entusiasmo della serva per la vittoria dei laburisti nel 1929. “«Stiamo vincendo» ha detto Nelly durante il tè”, annota Virginia il 31 maggio 1929: “È traumatico pensare che entrambe desideriamo al vittoria del partito Laburista – perché? In parte perché non voglio che sia Nelly a governarmi. Penso che essere governati da Nelly e Lottie sarebbe un disastro”. È così. Ma dell’affettazione del gruppo di Bloomsbury non si scopre nulla – e anche delle opere che scarseggiano, a parte V.Woolf, solo resta l’esibizione sessuale, dell’omossessualità e della poligamia. 
Una promessa tanto attraente, quanto deludente è la lettura, stancante, e di nessun sapore. O quasi, se non per i riferimenti e le citazioni dai “Diari”. Il problema è anche questo, che la ricostruzione – il romanzo, dice l’autrice – si scontra con i “Diari”, cioè con quello che di Virginia Woolf si sa.
Che registrano anche anotazioni domestiche, ma non fanno mai questioni classiste, o di avarizia. Giusto di carattere. Con qualche occorrenza o aneddoto minimamente interessante. La stessa vita, delle domestiche è quella dei “Diari” della scrittrice, delle (poche) annotazioni che le concernono.  Con qualche materiale dalle biografie: di Virginia spesso dimessa e sciatta, o dell’abitudine nel gruppo di amici e parenti che si è convenuto di chiamare Bloomsbury di scambiarsi le domestiche – ma: se le scambiavano come mwrce, o per stima e affezione?
Riassumendo, l’autrice di Petra Delicado, l’ispettrice di Polizia che governa i misteri di Barcellona, s’impersona questa volta in una delle cameriere di V.Woolf e, attraverso soprattutto i diari della scrittrice, dà all’icona di molto femminismo e progressismo uno sguardo dal basso. Questo è il programma, che l’editore prospetta. Perché poi, di fatto, Virginia ne esce senza pregiudizio, e così la sua società mitizzata di Bloomsbury. E anzi, pur nel suo relativo classismo e poco senso pratico, attenta, anche generosa, e simpatica. Quello che si legge è la vita dei domestici un secolo fa, povera e incerta. Ma per questo basta, per chi non riuscisse a immaginare i lavori di casa prima dell’elettricità e del gas, la p. 74, trenta righe di cose da fare, ogni giorno - con l’aggiunta di p. 86: se si ghiacciano i tubi d’inverno, e si ghiacciano, non c’è l’acqua.
Alicia Giménez-Bartlett, Una stanza per tutti gli altri
, Sellerio, pp. 389 € 10

mercoledì 5 giugno 2024

Occidente in maschera in Normandia

Gli ottanta anni dello sbarco di Normandia, dell’inizio della liberazione dell’Europa da Occidente (ma questo inizio non si era avuto un anno prima, con lo sbarco in Sicilia, che non si commemora?), sono dominati dal mancato invito alla Russia a partecipare. La geografia politica è mutata: è invitato il presidente ucraino Zelensky, di un paese e una popolazione che in guerra furono a fianco di Hitler, con speciale ferocia – in Toscana e nel Veneto se li sono ricordati a lungo. Mentre è esclusa la Russia, perché ha fatto guerra all’Ucraina. Che l’Occidente aveva già eletto a suo baluardo.
È un Occidente volubile, e vulnerabile, quello che si celebra domani. Lo sbarco a lungo non fu celebrato, la Francia non gradiva dirsi liberata dagli anglo-americani – gli anglosaxons di molte intemerate, politiche e sociali (giornalistiche e comuni, di costume, alimentazione, mentalità). La celebrazione decennale è stata istituita da Mitterrand, nel 1984, per i 40 anni – come un modo per riaffermare la sua signoria sull’Europa, invitandovi anche la Germania del suo grande amico Kohl. E naturalmente la Russia – Putin presiederà alle celebrazioni dei sessanta e dei settanta anni dello sbarco, nel 2004 e nel 2014 (malgrado la Crimea).
La Francia è stata di fatto fuori dalla Nato, dall’organizzazione militare, dal 1966 al 2009.
La stessa Francia prima aveva invitato la Russia per l’ottantesimo, poi ha detto di no, e ha invitato Zelensky. Un invito che può essere più in armonia con lo scopo dichiarato della Nato, organizzazione difensiva. Ma il gradasso non è solo una maschera francese.

L’inefficienza militare della Germania

La macchina bellica tedesca è stata sempre inefficiente nei momenti decisivi. Nelle rievocazioni che si leggono dello sbarco di Normandia, come nei film più iconici, “Il giorno più lungo” di Zanuck, 1962, e “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg, 1998, il successo dello sbarco fu un colpo di fortuna. Il tempo era orribile, la contraerea tedesca inensa, sbandati i paracadutisti, che dovevano aggredire il fronte alle spalle, il fronte dello sbarco troppo esteso, 80 km., su coste di carateristiche fisiche motto diverse.
La verità è che si vuole, ancora, la Germania invincibile. Il retropensiero è questo – se lo sbarco fu un successo lo fu quindi per caso. Rapida e invincibile, anche la Germania, inarrestabile. Mentre perse malamente – la perse la Germania prima dell’Austria-Ungheria- la prima guerra mondiale. Nella seconda vinse facile contro la Polonia perché la Polonia non si poté difendere, attaccata in contemporanea alle spalle da Stalin. E contro la Francia, che non combatté – chi dei tedeschi ne ha lasciato memoria è di stupefazione. Ma fallì a Leningrado e Stalingrado, a Alamein, trascinando nella sconfitta gli italiani, che invece la parte loro l’avevano vinta, e subì inerte lo sbarco in Sicilia prima che in Normandia – gli sbarchi non sono fulminei, vanno preparati, sono noti in anticipo. Subì perfino la Resistenza italiana, poco armata e molto divisa, a Roma e alla Linea Gotica – le ripetute stragi, senza nessun senso militare, lo testimoniano.
È successo alla Germania fino al 1944 come già alla Prussia, che si era circondata di un’aura di invincibilità mentre alternava le vittorie a sconfitte che ne minacciavano l’esistenza – e tremava, al modo del re di Prussia per eccellenza, Federico il Grande, nel ritratto di Thomas Mann. Si prenda il più celebrato, tuttora, dei grandi “prussiani”, il maresciallo Rommel. Il giorno dello sbarco Rommel lasciò la Normandia per festeggiare a casa la moglie nel suo onomastico - Erwin Rommel era una volpe, andava quindi di corsa: in altra cultura, meno indulgente, si direbbe che scappava, non sapendo come tenere il fronte Nord dopo aver perduto il Mediterraneo.
E la fissa degli ostaggi. Avanzando gli Alleati, i tedeschi abbandonavano le fortificazioni ma non i prigionieri. I trentamila moribondi di Auschwitz, i dodicimila di Gross-Rosen, infangati nella neve alta, i trentamila residui di Dora-Mittelbau, per i quali il trasporto fu organizzato a metà aprile verso Bergen-Belsen, dieci giorni prima della fine. E in ritirata sempre si fermavano per organizzare un plotone d’esecuzione: assemblavano una diecina d’uomini inermi, a Forte Bravetta, alla Storta, e si sparavano le ultime cartucce, per dispetto, per paura.

Nelle famiglie ognuno è un altro, ma si ride poco

Muore il padre, medico illustre, e la famiglia si rivela un’altra. Altra la madre, altri i figli. Con un cast di grandi nomi, tra cui Capotondi e Galiena buttate nella comicità dopo una carriera seriosa.
Siani tenta tutte le trovate della farsa: agnizioni, sparizioni, vivi morti e morti vivi, e la verità che a ogni giro di pagina è un’altra e l’opposto. Le sorprese si moltiplicano, ma la comica lascia freddi – problemi di ritmo - montaggio? sceneggiatura?  
Alessandro Siani,
Succede anche nelle migliori famiglie, Sky Cinema, Now

martedì 4 giugno 2024

Problemi di base - 809

spock


La verità è virtuale?
 
La realtà c’è, ma ci sfugge, Kant?
 
Le cose ci sono ma mascherate da fenomeni?
 
Maradona è un fenomeno?
 
È una favola?
 
È un simulacro?

spock@antiit.eu


E adesso, povero Elkann – 2

Ha licenziato l’allenatore della sua squadra di calcio, Juventus, “per giusta causa”. Ma due giorni dopo, per evitare il giudice, che gli avrebbe dato torto, si è impegnato per una buonuscita.
Lo stesso giorno, ieri, che i quadri che la nonna gli aveva regalato sono riapparsi: non erano preda di ladri e ricettatori, ma in Italia, in possesso suo e dei fratelli - e sono dei falsi (eccetto uno).
L’image building di John Elkann, l’Ingegnere, fatica. Benché sia influente – possiede anche il gruppo editoriale “la Repubblica”. E si trascura il fatto che è un evasore fiscale, con la residenza fittizia in Olanda. Lo stesso processo che sua madre gli ha intentato è per evasione fiscale.
Ha licenziato l’allenatore perché gli ha salvato, da solo, per due anni di fila, la squadra e la reputazione. Senza mai sostituirgli i calciatori infortunati o drogati. E quindi gli dava ombra. Da mesi ne cercava un sostituto, con incontri al ristorante. Che non sembra cosa vispa, oltre che sleale – la squadra non ha più giocato.

 

L’America di plastica

Una manifestazione-premio di giovani scienziati nel deserto viene interrotta dal passaggio di un’astronave, con alieno che scende per dare un’occhiata. Il presidente sospende la cerimonia, attraverso un un nerboruto generale che editta ordini tassativi, e i convenuti, genitori, ragazzi, scienziate, attori, attrici (poicché siamo in una rapporesentazione filmica di un’opera teatrale che è stata adattata per la tv….). Un catalogo enorme di star, Tom Hanks, Scarlett Johannson, Margot Robbie, Jason Schwartzman, Adrien Brody, Tilda Swinton, Jeff Goldblum, Matt Dillon, Willem Dafoe, Edward Norton et al..  Per dialoghi e immagini come still frame, alla Antonioni. Per di più piatti, senza rilievo. Pur volendosi la sintesi dei tre modi d’immagine, in teatro, in tv, al cinema. A meno che il film, soggetto e sceneggiatura dello stesso Anderson, non vada letto come una satira, dell’America di oggi, smarrita volendosi decisionista.
Non un solo dialogo fila, a parte il nonno (Tom Hanks, qui quasi simpatico come Paul Newman) che interviene a proteggere i nipoti. O l’autore-regista del pezzo teatrale originario, che parla molto ma soprattutto punta a farsi il bel prim’attore.
Un mondo di figurine incerte su fondali di plastica. O il 2023 è l’anno per Hollywood dei colori pastello e dei mondi di plastica (Margot Robbie, “Barbie”, è anche qui), oppure Anderson propone, in libera lettura o ricostruzione, un’America che parla e gira a vuoto – non cattiva come sembra essere, ma confusa.
Wes Anderson, Asteroid City, Sky Cinema 2, Now

lunedì 3 giugno 2024

Letture - 551

letterautore


Classifiche - “Aprendo il catalogo di un libraio antiquario di Firenze” Roberto Calasso, “Opera senza nome”, trova il suo “La folie Baudelaire”  nella sezione Erotica-Sessuologia.
Sorpresa, ma subito Calasso si consola: “Meglio di Amazon, che aveva categorizzato «Le nozze di Cadmo e Armonia» come «Accessori decorativi per la casa» e «L’innominabile attuale» come «Decorazioni per le unghie»”.
Non è vero, Amazon è più intelligente, però è possibile: le classificazioni sono casuali, come le classifiche dei libri più venduti, autogestite dagli editori-librai.
 
Italia – Un paese di “fantasmi di sculture”? “Rythm Field”, una raccolta di scritti sulla coreografa americana Molissa Fenley, è illustrato di figure spettrali, quali Nijinsky e Strawinsky, e i “fantasmi di sculture” da cui la coreografa si disse ossessionata durante un viaggio in Italia nel 2008.
 
Maternità Rosella Postorino la scopre in una parrucchiera. Filippina. Attenta a tutto, autorevole, scherzosa - un ritratto curiosissimo ne fa su “7”. Così lontano?
 
Ozio – È il motore dello sviluppo, direbbe Rousseau: “Lavoriamo per arrivare al riposo. È  la pigrizia che rende laboriosi”.
 
Parodia – È dissacrante, si suole dire. Ma quelle di Proust (pastiches) sono al contrario celebrazioni.  E comunque quanto (non) vere? Si leggono quelle settimanali di Saverio Raimondo, che pure è un comico e non un filologo, cioè è uno “cattivo” per professione, su “Robinson”, “Corso di lettura veloce”, e si vede invece che sono veritiere. Sartre, “La nausea”: “
È il libro che ha dato il via all’esistenzialismo, quando bastava un Plasil” – “il giovane protagonista ha allucinazioni e mal di stomaco, allora cerca i sintomi su google e si autodiagnostica il male di vivere”. O Stendhal, “Il rosso e il nero”: “Narra le vicende di Julien Sorel, arrampicatore sociale: la prima cosa che guarda in una donna è il culo - ma in senso figurato: gli piacciono le donne che hanno la fortuna di essere ricche e con una posizione sociale. Ci prova con una ma è sposata; con la seconda va meglio, ma arriva una lettera della prima a rovinare tutto. Alla fine Sorel finisce ghigliottinato e senza neanche aver detto “«che mangino brioche».  Pensare che era andato a scuola dai preti”.
La “scrittura” prescinde dal plot – è la scrittura che anima la letteratura.
Per quanto, i pastiches così riusciti di Proust – a sua volta facilissimo da “pasticciare” – un po’ ridimensionano anche la “scrittura”.
 
Pasolini - Mai un'istantanea, sempre in posa – non c’è album che lo riprenda “al naturale”, anche in un solo scatto: Sempre atteggiato, anche nelle foto di scena, in teoria “rubate”.
 
Il giornalista Massimo Fini, intervistato da Cazzullo sul “Corriere della sera” oggi, ha questo ricordo della visita che gli fece per intervistarlo a sua volta: “C’erano tanti Pasolini. Mi ricevette nella sua casa moto borghese, all’Eur. Non aveva affatto un tratto da checca, anzi. Ma poi entrò la madre, e si infantilizzò. Tutto un puci-puci: imbarazzante”. Ma c’era, continua, un terzo Pasolini: “La sera mi portò al Pigneto, all’epoca un quartiere di ragazzi di vita e di malavita, dove vidi un altro Pasolini ancora”. Dragueur?
 
Quattrocento – “Un secolo senza poesia”, constata Stefano Lanuzza, “Storia della lingua italiana”. E la lingua, dopo due secoli, apparentemente, di toscano? “Sannazzaro, napoletano, il massimo scrittore in volgare del Quattrocento”.
 
Riletture - Avviene di leggere per la prima volta un libro che si è già letto, e anche con attenzione, avendolo annotato e perfino commentato, senza sapere di averlo letto. Per un difetto di memoria? La memoria difetta solo in questo caso. Per l’inappetenza del libro? Ma avviene anche con i romanzi, che pure si segnalano (dovrebbero) per la loro singolarità. È avvenuto con Banville due volte, letto in inglese e poi in italiano, o viceversa – uno scrittore di personaggi singolari, ma non memorabili.
 
Romanzo-saggio – “C’è poi la domanda, tediosa fra tutte, su saggio e romanzo”, lamenta Calasso nel postumo “Opera senza nome”: “Nelle classifiche «Le nozze di Cadmo e Armonia» appariva equamente diviso tra narrativa e saggistica”. Ma poi continua: “Che il libro contenesse, dalle prime righe alle ultime, un intreccio di narrazioni così fitto che l’autore stesso stentava a ritrovarvisi (per questo, a partire da un certo anno, aggiunsi l’indice dei nomi) non bastava a rassicurare”.
 
Scrivere – Antonio Franchini, “Il fuoco che ti porti dentro”, 156, quando scopre al Pocol che, dietro la casa “nel mezzo del bosco”, tra i caprioli, dell’amato zio Francesco c’è un cimitero militare, il Sacrario del Pocol, riflette: “Scrivere di solito o è aspirazione o è dilazione, più raramente è atto; come l’amore e molte altre cose importanti della vita”.
 
Spagna – Fu molto presente nella letteratura italiana tra il Cinque e il Settecento, mentre non ci fu l’inverso, la Spagna seppe poco dell’Italia: “Si calcola che dal 1551 al 1700 ci siano state circa 1200 traduzioni dallo spagnolo all’italiano e più di 120 edizioni in lingua spagnola” – Stefano Lanuzza, “Storia del lingua italiana”, 47. In Sardegna nel Settecento, sotto i Savoia, la lingua scritta è lo spagnolo (id., 55).
 
Slavi
- "Gli slavi si lamentano sempre di tutto", Marina Abramovic nel lungo ritratto che ne fa Francesca Pini su “7”, il settimanale del “Corriere della sera”: “Non sei mai felice da nessuna parte, fa parte dell’anima slava, come quella di Dostoevskij o Kafka. Non sappiamo come affrontare la felicità. Questo non è lo stato naturale degli slavi, devono essere sofferenti e infelici”. L’Europa non sa quasi nulla del mondo slavo, storia e psicologia, un mondo che pure è la sua metà, quasi, e dalla fine della seconda guerra mondiale si è fatta sempre guerra. È il problema dell’Unione Europea, che si era costituita inizialmente in Centro Europa, da Rügen a Pozzallo.

letterautore@antiit.eu

Il sorriso di Troisi

Fra i tanti tributi a Troisi nel trentennale della morte forsi il più lieve, troisiano. Osannante ma sottotono, e scorrevole, mai compiaciuto.
Molti ricordi e testimonianze, umane, di scena, intervallate da spezzoni celebri, di Verdone, Martone, Giuliana De Sio, Francesca Neri, Émanuelle Béart, si nna Pavignano, la sua comapgna, dell’amico Giovanni Benincasa, del nipote Stefano Veneruso. Fanno colpo le scene dell’avventura a Hollywood per “Il Postino”, candidato a numerosi Oscar. Con Pavignano, candidata per la sceneggiatura, Cucinotta, Caldonazzo, Luis Bacalov – che l’Oscar poi lo vincerà.
Una chicca la ripresa delle quartine in rima di Benigni in memoria dell’amico, parte della primissima commemorazione, “Il mio amico Massimo”, di Roberto Bencivenga, uscito nel 2022 e irreperibile in rete:
“Non so cosa teneva dint’a capa;
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un Troisi non se ne fa un altro.
 
Morto Troisi muore la segreta arte,
di quella dolce tarantella,
ciò che Moravia disse del Poeta
io lo ridico per un Pulcinella.
 
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di jamm, o' saccio, ‘naggia, oilloc, azz!;
era come parlare col Vesuvio,
era come ascoltare del buon Jazz. 

 
“Non si capisce”, urlavano sicuri,
“questo Troisi se ne resti al Sud!”
Adesso lo capiscono i canguri,
gli Indiani e i miliardari di Hollywood!
 
Con lui ho capito tutta la bellezza
di Napoli, la gente, il suo destino,
e non m’ha mai parlato della pizza,
e non m’ha mai suonato il mandolino.
 
O Massimino io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
ha fatto più miracoli il tuo verbo
di quello dell’amato San Gennaro”.
Anna Praderio,
Per sempre al Massimo, Canale 5, Infinity

domenica 2 giugno 2024

Ombre - 722

Cosa ha detto la presidente del consiglio Meloni all’ex sindaco di Roma Rutelli nei giardini del Quirinale per la festa della Repubblica: “Mi diverto? No. Però non mi annoio” - “la Repubblica”. Oppure, Rutelli le chiede: “A Palazzo Chigi ti stai divertendo?” e lei risponde: “Non mi annoio, ma tra un mi annoio e un mi diverto ce ne passa” -“Corriere della sera”. Non si può mai sapere.
 
“Intelligenza artificiale, boom di truffe”, scopre “Il Sole 24 Ore: “Negli Usa 40 miliardi di danni al 2027”. Ecco di che si trattava: l’IA pone questioni etiche, ma di tipo noto.
“Boom di truffe anche in Europa”. Si andrà a – ci vorrà – un inverno anche digitale?
 
“Nella gara Zara-Benetton gli spagnoli vincono 35 miliardi a 1”, cioè vendono per 35 miliardi, Benetton solo per uno. Impietoso “Il Sole 24 Ore” stronca Luciano Benetton, che sostiene di non avere saputo dal management l’andamento degli affari. Si poteva argomentare, come è stato detto e fatto, che il settore era “maturo”, i margini ristretti, il franchising oneroso, e il “poeta” Luciano per questo era stato marginalizzato dai fratelli, e poi dai nipoti. Ma si è voluto proteggere la Famiglia, concedere a Luciano un ultimo palcoscenico, con la tonitruante intervista contro i manager.
 
I Giovani Industriali si augurano un’Europa diversa dopo il voto. Una che non ripeta “quello che è stato fatto in questi cinque anni, un green deal che è «fuori di testa», una burocrazia asfissiante, la disunione bancaria, la disunione fiscale”. Sono critiche-richieste di destra? Può darsi, vanno nel senso dei sondaggi sugli umori degli elettori. Ma la sinistra cosa propone?
 
Il recupero dell’economia dal crollo del 2007 si è prodotto solo nel 2023, calcola l’Istat, e spiega (accenna) la Relazione annuale della Banca d’Italia.  Come se l’Italia emergesse da una voragine, dopo un quindicennio di navigazione sotto terra – emergesse per di più con dieci anni di ritardo rispetto alle economie maggiori della Ue. Ma di questo non si legge, i giornali hanno molte pagine di politica, ma di Lollobrigida, De Luca, e naturalmente “le duellanti” Meloni-Schlein.
  
A una settimana, o sono due?, dal fatto, Meloni che si presenta a De Luca come “sono la stronza”, “la Repubblica” ha lunghi commenti, di specialisti e “firme”,  su “stronzo”, “merda”, “escrementi”, “cacca” e affini. Giornalismo non è. È consolazione – di che? glottologia? fancazzismo? coprofilia? Ma contro o pro Meloni?
Gli intellettuali leggono i giornali in ritardo? Hanno i riflessi lenti? E i direttori?
 
Il cardinale Pizzaballa, patriarca dei cattolici in Terra Santa, constata il fallimento del dialogo delle religioni. Niente dialogo, dal 7 ottobre solo odio. Il dialogo non è teologico, ma di storia e popolazioni – anche nelle guerre di religione, la religione (teologia, culto, riti) era una copertura.
Il cardinale è peraltro il patriarca dei cattolici latini, o romani. C’è un patriarca distinto per i cattolici ortodossi?
 
Meloni che alla celebrazione di Matteotti accusa il fascismo è inquietante. Se anche lei passa con l’antifascismo, che cosa resterà agli antifascisti, soprattutto quelli dell’ultima e ultimissima ora? In questa estate 2024, di guerre crudeli, di bellicismo macroniano, e di deglobalizzazione. Dovranno magari rifletterci su, un poco.
 
Diminuisce la disoccupazione giovanile, dopo il fenomeno pluriennale dei “bamboccioni”, o nerd, che si fanno mantenere dai genitori. Ma non perché sono diminuiti i giovani? Ci sono oggi 5 milioni in meno di “giovani”, 18-34 anni, rispetto a trent’anni fa.
 
Dopo il gas, si scopre che anche il grano russo ha continuato ad affluire in Italia nel 2023, con tutte le sanzioni. In misura abnorme, il mille per cento in più – con un 800 per cento in più dalla Turchia (quindi sempre dalla Russia, via Turchia) e qualcosa anche dal Kazakistan. Superando le tradizionali importazioni italiane di grano dal Canada, e abbattendo i costi per gli utilizzatori – i grossisti, a danno dei coltivatori italiani. Le sanzioni sono un business.
 
Roma ha il record delle multe stradali, 172 milioni nel 2023, il 40 per cento in più rispetto al 2022. Delle multe pagate, questo è il vero record. L’aumento è una delle poche cose che la giunta  Gualtieri, in carica da quasi tre anni, ha fatto, più multe: nelle strade riposte dei quartieri è stata una messe ubertosa (non in quelle commerciali) – per il resto è come se non ci fosse.
 
Ci sono leggi per l’utilizzo degli incassi da multe stradali: devono andare alla sicurezza della circolazione. La metà deve andare alla segnaletica, al manto stradale, all’illuminazione. Tutte cose che Roma non aveva e non ha, anche ora che s’impavesa per il Giubileo: si guida di notte, sui lungotevere ma anche nei quartieri, a naso, si può guidare per Roma solo a memoria, i segnali stradali non ci sono (quelli vecchi, dell’Olimpiade 1960, sono in piccolo, in alto, dopo l’incrocio) e stanti le forti vibrazioni in macchina, come da catastrofe imminente, ci si meraviglia che ciclisti e motociclisti arrivino indenni.

Nostalgia della Russia, patria di emigrazione

La rappresentazione della memoria. In chiave nostalgica. Della Russia, patria di emigrazione. Nelle specie di un giovane che all’età di otto, dodici e quattordici anni aveva “viaggiato”: “per quattro anni in Russia, poi – per due anni – sui mari e in Europa”. Come molti russi, prima, durante e dopo la Rivoluzione sovietica.
Il racconto è di un’estate in un castello diroccato, nel mezzo della Francia. Di cui la regina è la contessa Praskov’ja Dimitrievna, la vecchia nonna. Una nonna che è “il secolo passato”, l’Ottocento, quando tutto era in ordine. C’è la Russia nella nonna. E c’è la Russia nella rovina del castello. Tutto anzi è rovina: il castello, il parco, i rapporti familiari. In rovina è anche il villaggio, nell’immagine breve di una vendita all’asta per debiti. Russo è il testimone della rovina, il giovane del racconto.  
Ma non è una parabola. Il quadro è lieve, come di una fantasia – è subentrata la rassegnazione. Un’altra stazione nella
via crucis dell’emigrazione – dopo l’ebreo errante ci sarà il russo errante, ormai da un secolo e più? Ma serena, rasserenante.
Nina Berberova, Roquenval, Guanda, pp. 78 € 10