sabato 22 giugno 2024
Il Sud si disamora della destra
Le città maggiori, Bari e Firenze, si confermano domani alla sinistra, non c’è gara per i candidati della destra. Ma la destra soffre anche in città che pure alle politiche l’hanno votata a maggioranza: Lecce, Potenza, Vibo. Sono centri del Sud, che visibilmente si disamora della destra al voto. Per non dire delle reazioni, tra rassegnate e mordaci, alla lusinga del Ponte. Mentre si ritiene bastonato dalle autonomie lombardo-venete, ben di destra.
Repressione e liberazione, un’altra storia
La ricostruzione a ottant’anni della liberazione di
Firenze, con una dura guerriglia urbana contro camicie nere e truppe tedesche
nella parte Nord della città, mentre gli Alleati erano attardati a Sud dell’Arno,
i tedeschi avendo minato i ponti. Una battaglia che durò tutto un mese a
partire dall’11 agosto 1944. I gerarchi
fascisti e i tedeschi sono in ritirata, ma presidiano ancora la città, per
garantirsi le spalle, e ancora per quasi un mese saranno attivi e cattivi
contro ogni forma di Resistenza.
Dopo Napoli, Firenze fu la prima città che insorgeva
contro la Repubblica di Salò e l’occupante tedesco, anticipando le vicende
politiche e militari al Nord nei mesi successivi. Avvenne dopo una serie di
scioperi, a partire da febbrario, a Firenze alla Nuovo Pignone, e alla Manifattura Tabacchi, qui a opera
delle sigaraie, a Vicchio, a Empoli nle vetrerie, a Prato nel tessile. La
repressione è a opera dei fascisti di Salò. A Prato in concomitanza con un
disastroso bombardamento Alleato, che distrusse abitazioni e monumenti. I
partecipanti allo a Prato, o presunti tali, tutti uomini, 338, vengono avviati a Mauthausen -
ne ritorneranno 64.
L’occupazione era stata specialmente cattiva. Arresti
arbitrari e torture si operavano a Firenze a Villa Triste, a opera della banda
mussoliniana Carità. La deportazione degli ebrei fu particolarmente curata.
Dopo l’insurrezione i cecchini fascisti, sotto il manifesto “Ritorneremo”, continuarono
a lungo la folle corsa all’assassinio mirato di innocenti. Firenze aveva un
ruolo centrale per il fascismo repubblichino, con molte presenze di grandi
federali, e molta determinazione, fino alla ferocia.
Le ricostruzioni sono dello storico Matteo Mazzoni,
e di Valdo Spini - figlio dello storico Giorgio Spini, un esponente della sinistra
del partito Socialista, di cui fu il coordinatore (segretario) nell’estate del
1994, dopo essere stato ministro dell’Ambiente nei governi Amato e Ciampi.
Una celebrazione pregevolissima. Con notevoli
medaglioni di personaggi di primo piano nella Resistenza, che non figurano
negli albi di storia. Molte donne: Anna
Maria Enriques, Tina Lorenzoni, Mary Cox, Maria Penna Cannaviello. L’eccidio della
famiglia Robert Einstein, il cugino di Albert Einstein che a Firenze era ingegnere
al Nuovo Pignone. Gli intrighi e intrallazzi attorno ai beni artistici. Un
ricordo di “Potente”, Aligi Barducci, comandante della divisione partigiana
Arno. I Carabinieri di Fiesole, trucidati dai tedeschi perché sospetti di optare
per la Resistenza.
Con molte fotografie, anche di manifesti d’epoca, e
materiale documentario in facsimile
Con molte fotografie, anche di manifesti d’epoca, e
materiale documentario in facsimile
Valdo Spini-MatteoMazzoni, 1944 Firenze insorge,
“la Repubblica”, pp.139, ill., gratuito in edicola
venerdì 21 giugno 2024
Secondi pensieri - 538
zeulig
Assoluto – “L’inaccessibile, com’è
vicino!”, esclama il poeta Osip Mandel’stam a mezzo di una delle sue “Ottave” –
la 4, del maggio 1932. Memore di Bergson, di cui aveva seguito le lezioni?
“L’Assoluto si rivela molto vicino a noi, e in una certa misura, in noi. È di
essenza psicologica, non matematica o logica. Vive con noi. Come noi, ma, per
certi aspetti, infinitamente più concentrato e più ripiegato su se stesso,
dura” – “L’evoluzione creatrice”.
Psicologico e non matematico? Un assoluto mobile,
volubile.
Corpo – La metafisica Vico voleva “corpolentissima” – quella
dei primi poeti. della immagini fisiche: “Non ragionata ed astratta…. Ma
sentita e immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli
ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorisissime fantasie”,
quando alzarono lo sguardo al cielo. Contro il “cogito” cartesiano, astratto
dalla corporeità: la parola si forma nel “linguaggio muto de’ corpi”: “La
natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa proprietà:
ch’i sensi sieno le sole vie ond’essa conosce le cose”.
Crisi – L’epoca si vuole di crisi benché in condizioni
materiali immensamente migliori per tutti (per la stragrande maggioranza degli
uomini e anche, per la prima volta, degli animali, di molte specie di animali),
di qualsiasi altra epoca della storia (reddito, merci, salute, igiene, carità,
e perfino liberazione dal lavoro). Vico direbbe che è l’effetto dello
scetticismo (pessimismo “cosmico”), barbarie della riflessione.
Lo scetticismo ha perduto gli
imperi e perde la ragione, direbbe sempre Giambattista Vico (“Autobiografia”,
lettera a Francesco Sola, 12 gennaio 1729): “Lo scetticismo, mettendo in dubbio
la verità, la qual unisce gli uomini, li dispone ad ogni motivo di proprio
piacere o di propria utilità che seguano il senso proprio, e sì dalle comunanze
civili li richiama allo stato dele solitudini…, di fieri ed immani che vivono tutti
divisi e soli nelle lor tane o covili, e la sapienza riposta degli
addottrinati, che dovrebbe reggere la volgare de’ popoli, le dà le più forti
spinte a precipitarsi ed a perdersi”.
La colpa? Di Renato delle Carte, dice Vico: lo
scetticismo è della ragione?
Politica – Non è, non dovrebbe essere per Giordano Bruno,
“Spaccio de la bestia trionfante”, di “pedanti e parabolanti, ma di quelli che
per adoprarsi nella perfezione del proprio e altrui intelletto, nel servizio
della communitade, nell’osservanza espressa circa gli attui della magnanimità,
giustizia e misericordia, piaceno agli dei”.
Dovrebbe ma non è. In assenza di “dei”? Di
giudizio sì.
Purezza – È, s’intende, semplicità? E per questo
apprezzabile, di grande valore. Si dice dei metalli rari e ricchi. Come anche,
si dice, “puro pensiero”, “pura intuizione”, “pura spirazione”.
Storia – “La storia è storia dell’umanità anche se una
gran parte dell’umanità è stata esclusa dalla storia”, Italo Calvino, “Lettere
a Chichita”, 2 luglio 1963, “e deve ritrovare questo suo valore universale anche
per coloro che ne sono stati esclusi”.
Tempo - “Fra tutte le nostre invenzioni, senz’altro la
più artificiosa”, per lo scrittore W.G.Sebald, “Austerlitz” , p.11. E tuttavia
i movimenti di sono, di luce, di calore, anche ciclici.
“Newton riteneva che il tempo fosse un fiume come
il Tamigi”, uniforme ovunque? Si, fluisce.
Lo stesso scrittore nello stesso libro fa opera
di memoria, vagante nel tempo, di memoria infine riconquistata, di persone,
avvenimenti e tempi che furono.
Lo stesso scrittore ha , qualche pagina dopo,
“l’abisso del tempo”.
Vangelo – È laico, perfino anticlericale. Non c’è altro Vangelo se non laico. Quelli
canonici sono il primo testo laico della storia, un testo sacro che demitizza
tutto - solo pena e amore contiene, amore della verità.
Verità - La verità è sempre quella dell’Agente segreto di Conrad: la stupidità delle buone intenzioni. O di san
Paolo, che proprio ai romani spiegò che il peccato lo fa la legge: “Senza la
legge il peccato è senza vita”. Non solo, ma “la legge che doveva portare alla
vita finisce per con-dannare alla morte”. È la doppiezza, associata all’infamia, che fa la grandezza
dell’uomo di Borges. O di Paul de Man, che in Borges l’ha scovata, impegnato a
cancellare il suo antisemitismo di quando Hitler vinceva la guerra, e porsi a sinistra.
La peste può essere così morbosa, quella di Atene in Tucidide, da allontanare le
bestie che si cibano di cadaveri.
La
verità si fa, è quello che siamo, dice la moderna filosofia. Era nel senso
biblico originario la parola di Dio, proprio il suono, il nome di Dio: la
verità è quello che si dice, per questo nei suoi atti rituali il sacerdote
d’Israele non parla. E se l’interlocutore è parte di una setta, possiamo
usare contro di lui nell’argomentazione i principi di quella setta, è il topico
VIII, 9 d’Aristotele, o topica. La filosofia lo consente, Schopenhauer dice, poiché
per essa “il vero può conseguire da premesse false, ma mai il falso da premesse
vere” – questo filosofo non è antitedesco.
Viaggiare – “Ogni qualvolta ritorniamo da un viaggio, non
sappiamo mai con certezza se davvero siamo stati via”, W.G.Sebald,
“Austerlitz”, 19. È la sindrome del sedentario? Delle sue fobie, che si debba
viaggiare in aereo, o anche in macchina, o anche solo a piedi – come l’africano
fa incessantemente, nella foresta, da un punto a un altro, non importa quale
(non importa la meta, importa il cammino, il moto).
Si può viaggiare anche distratti.
Ma normalmente, viaggiando con intenzione, per
diporto o per lavoro, la differenza è incancellabile, di spazio come di
tempo.
zeulig@antiit.eu
Il successo non ha successori
La teoria del capitalismo familiare, destinato alla discendenza, già alla prima, a mutarsi o perire – esemplare nella storia odierna di Luciano Benetton, dei Benetton dei maglioni e del franchising. Al più la famiglia può avere incarichi di rappresentanza, ma non la gestione, i geni della gestione non si trasmettono. Sotto forma di recensione della bio definitiva di Henry Ford scritta da Robert Lacey, “Ford: Men&Machine”, nel 1987.
“Il mito dell’individuo è sempre forte nell’opinione popolare. Le persone sono interessanti e comprensibili, l’organizzazione, la burocrazia, no.…. Le Borse reagiscono con raffinata indifferenza al passaggio di consegne in una grande azienda da un capo all’altro. Nessun informatore segreto trova da vendere informazioni sullo stato di salute dei dirigenti, se qualcuno ha il cancro o problemi di cuore, o l’Alzheiner aziendale…”. Ma la verità delle cose è altra.
Nessun fondatore ha trasmesso i geni della sua riuscita. Rimangono nella storia, Durant, Sloane, Rockefeller, Watson, perché sono finiti filantropi o uomini pubblici di rilievo.
L’unica eccezione è, insieme probabilmente con Dupont, Henry Ford. Ma per un insieme di coincidenze. Ford “era semi-analfabeta, imprevedibilmente autoritario, antisemita, e pieno delle fobie dell’ignoranza. Era un buon meccanico. Ebbe l’idea di un’automobile robusta, spartana, eccessivamente economica” per gli standard dell’epoca, da vendere per poche centinaia di dollari, quindi a un mercato di massa. “Ci riuscì, e il successo ha superato i suoi limiti personali”.
Lo stesso successo del Modello T, però, il biografo e Galbraith attribuiscono a una struttura manageriale e proprietaria che subito affiancò Ford. “Il genio organizzativo di James Couzens”, scrive Galbraith, che poi sarà capo della Polizia e sindaco di Detroit, e senatore Repubblicano liberale per il Michigan. E quello commerciale dei concessionari Dodge, i fratelli John e Horace. Anche il fordismo, che ha regolato l’industria poi per quasi un secolo, non sarebbe di Ford. La produzione a catena era già in atto, Ford la adattò al suo impiego poi universale. Le paghe alte furono introdotte da Couzens per tagliare controversie sindacali su orari di lavoro e addestramento.
Caratteristicamente, aggiunge Galbraith, Ford tra le due guerre, quando il gruppo era divenuto grande e diversificato, liquidò tutti i manager a catena al vertice della gestione. Il gruppo Ford arrivò alla guerra “quasi morto. La sua incompetenza nell’economia bellica, specialmente nella produzione di aerei a Willow Run, fu così grave che si parlò di un salvataggio pubblico”.
J.K.Galbraith, Truly the last Tycoons, “The New York Review of Books”, free online
giovedì 20 giugno 2024
Problemi di base storici - 812
spock
Le novità accelerano la storia?
Il, mercato (l’economia,
l’età del mercato) è indifferente alla storia?
Il segreto sempre si lega al
totalitarismo – che però si dichiara?
Non ci si può
liberare del passato, ma si può riscriverlo?
“Il presente è
il presente, ma è insieme vocazione e storia”, Giulio Bollati?
“L’inaccessibile,
com’è vicino!”, Osip Mandel’stam?
spock@antiit.eu
Un cigno russo a Roma
Niente di più scontato, l’amore trionfa sula morte, il cigno è bianco, il
cigno è nero, i cattivi tramano, i buoni sono ingenui, ma poi… La musica naturalmente
- Čaikosvskij lamentava il libretto, pessimo (“ho dovuto rifarlo da cima a fondo”):
aveva già in mente, con la storia, la musica, compresi i balletti etnici che la
farciscono. Niente di più visto e rivisto - è pure il balletto più rappresentato
al mondo. Anche in qesta edizione, che è in realtà una riedizione: Benjamin
Pech, il coreografo francese, già primo ballerino dell’Opéra di Parigi, l’ha realizzata
sempre per l’Opera di Roma nel 2018, e replicata due anni per le folle al Circo
Massimo (dopo Roma sarà ripresa a Barcellona, al Liceu, il più grande teatro d’opera
europeo, benché costruito all’italiana, 3 mila posti, e il più antico di Barcellona).
Da che il fascino particolare di questa riedizione? Lo stile Bolshoi “sovietico”,
imponente. Anche nelle scene e i costumi, di Aldo Buti. Col contributo robusto
in questa riedizione del Royal Ballet londinese, nella veste del maestro Ken
Kessels, direttore musicale dell’istituzione londinese - tre primi ballerini
del Royal Ballet si alterneranno nelle repliche.
Un trionfo del bianco, dell'innocenza. Con settanta-ottanta danzatori, il
corpo di ballo dell’Opera messo a punto da Eleonora Abbagnato. Con Rebecca
Bianchi, Alessio Rezza e Mattia Tortora nei ruoli, capaci di animare l’imponente
messinscena.
P.I Čajkosvskij, Il lago dei cigni, Teatro dell’Opera, Roma
mercoledì 19 giugno 2024
Chi dopo Xi?
Una struttura decentrata, federale, è
sempre più il tema del futuro dei tanti think tank accademici cinesi,
di università e istituti specializzati. Del dopo-Xi, però, quindi in attesa della
successione – ma il presidnete ha 80 e più anni.
Xi le ha provate tutte per ricentralizzare
nei suoi quasi vent’anni di dominio politico - a capo del paese da dodici, ma da
vent’anni capo del partito Comunista dominante. Contro, di volta in volta,
varie pestilenze che inevitabilmente hanno portato a decapitare il partito dei
possibili concorrenti: la corruzione, l’americanismo, la speculazione edilizia.
Ma il decentramento appare inattaccabile – nella natura della Cina. E forse della
sua continuità come stato unitario.
Su questo non ci sono dubbi, nessuno contesta
le forze del decentramento. Che vertono sull’asse Shanghai-Hong Kong contro
Pechino, il Sud più industrializzato e finanziarizzato (capitalistico).
Le macro-regioni economiche, quelle più
ricche e politicamente influenti sono cinque: Pechino, Shangai, Chengdu-Chongging,
il Delta dello Yangtze, e la Greater Bay Area (Canton-Hong Kong).
Il dibattito è aperto. Ma senza
eccessi. È stata l’unità infine ritrovata per una lunga stagione, senza Guardie
Rosse e campi di concentramento (di rieducazione), che ha fatto della Cina in pochi
anni, di un paese povere sovraffollato, un paese ricco e addirittura in crisi demografica
– era appena ieri che i cinesi uscendo dallo stadio dovevano rintracciare la
loro bicicletta, invariabilmente nera per risparmiare qualche centesimo sulla
manifattura, sotto camicie tutte eguali di forma e colore, ala Mao, anche qui per
risparmiare.
Quando Buzzati s’inventò la IA
Appena pubblicato, col titolo “The Singularity”, la stranezza, e subito scelto per il
Classics Book Club, fiore all’occhiello della “New York Review of Books” che
l’ha fatto tradurre e lo sostiene – “un maestro del fantasy italiano,
alla apri di Calvino e di Landolfi”. Ma soprattutto lo celebra come
anticipatore dell’Intelligenza Artificiale, l’idolo del momento. Ermanno Ismani,
tranquillo professore all’università, viene convocato dal ministro della Difesa
con una strana proposta: una missione segretissima di due anni, in un centro di
ricerca non specificato, isolato, tra foreste, crepacci e montagne a picco. Per
fare che, e quanto a lungo non può sapere, ma sarà ben pagato.
Ismani accetta, tanto più che può andarci con la moglie, persona pratica
e risoluta. I dubbi e le fantasie sono molte – anche le tentazioni di
adulterio. Ma, insomma, in ballo è un supercalcolatore, chiamato Numero Uno,
che non parla, non ancora, non è Alexa, ma è già in grado di emulare la mente
umana. Ci sono anche belle e rigogliose donne, con nudi, femminili, e tutto
quanto fa Buzzati. Ma questo va a premio in America rispetto ai suoi classici
del mistero, deserti, tartari, orsi.
Scritto nel 1960, il racconto prospetta gli eventi al 1972. Ma oggi che
sono passati cinquant’anni dalla data fatidica la cosa sembra avverarsi
veramente. O almeno così il romanzo è osannato in America. In Italia è
disponibile molto Buzzati ma non questo – solo in ebook, dal download arduo.
Dino Buzzati, Il grande ritratto, ebook, pp. 134 € 7,99
martedì 18 giugno 2024
Le Pen gollista
Migliora il richiamo del neo-costituito
Fronte Popolare in Francia contro il Rassemblement National, ma non ancora nella
misura, secondo i sondaggi e gli analisti, di recuperare la sbandata a destra dell’elettorato francese alle Europee. Anche scontando gli apparentamenti e le
altre possibili alchimie del secondo turno. Mentre migliora il rating del Rassemblement National, come ora si chiama
il partito di Marine Le Pen, quale erede del Rassemblement gollista – che in Francia è memoria
intoccabile e taumaturgica. Sarebbe questa la ragione per cui una parte dei Républicains, il partito gollista, fa campagna elettorale con Le Pen.
Da una parte Marine Le Pen e il suo candidato
primo ministro Bardella prendono le distanze dalla Russia, di cui finora hanno
sostenuto le ragioni nella guerra all’Ucraina: “La proposta che abbiamo sempre
sostenuto non teneva conto dell’andamento della guerra”. In linea col disimpegno
altero dalle cause altrui che era il segno del gollismo.
Gli analisti sottolineano ora che le zone
di radicamento del Rassemblent (che, va aggiunto, evoca il nome voluto per il
suo movimento da De Gaulle nel 1947, Rassemblement du Peuple Français, per
opporsi alla deriva partitocratica della Quarta Repubblica appena nata), cioè il
Nord e l’Est della francia, col Sud-Est, l’asse Marsiglia-Nizza, era a suo
tempo gollista in larga misura. E del Rassemblement l’elettorato in genere
apprezzerebbe il compromesso, molto gollista, di Stato forte e libertà di mercato,
dalle pensioni agli immigrati.
I treni dei bambini, salvati da Hitler
Nel 1938, quando Hitler occupò i Sudeti, in realtà metà della
Cecoslovacchia, un broker britannico, Nicholas “Nicky” Winton, che operava con alcune
società umanitarie, organizzò a Praga, aiutato a Londra dalla madre, una serie
di “treni di bambini”, figli di ebrei o altri cittadini cecoslovacchi che si
sentivano minacciati, per preservarli dall’occupazione imminente – l’ultimo treno
fu bloccato per una questione di minuti il primo settembre 1939, con l’invasione
congiunta tedesco-sovietica della Polonia e la guerra totale.
Con visti britannici, quindi intoccabili, i bambini venivano fatti attraversare
in treno la Germania, e in Gran Bretagna trovavano famiglie affidatarie già in ordine
con le carte pronte ad accoglierli, ogni bambino una famiglia. Anni dopo un
Winton invecchiato, vedovo, confusionario, disordinato, provando a rimettere in
ordine la casa, ritrova le vecchie foto dei bambini. Una studiosa francese
decide di approfondire la questione. La Bbc s’impadronisce della storia, al modo
di “C’è posta per te” di Maria De Filippi, ne fa un caso che commuove l’Inghilterra.
E a Winton fa rintracciare i “vecchi” bambini – 669 furono salvati dalla sicura
deportazione.
Una storia semplice, molto ben recitata, all’inglese, senza divismi. Da Anthony
Hopkins, Winton vecchio, da sua madre giovane, Helena Bonham Carter, e dai
tanti caratteristi che costellano la vicenda.
I “treni di bambini” sono evocati da Sebald nella sua ultima narrativa, 2001,
“Austerlitz”, di cui anzi costituiscono l’ossatura, sotto le tante digressioni.
La Bbc aveva riscoperto la vicenda nella trasmissione popolare “That’s Life!”,
nel1988.
James Owes, One Life, Sky Cinema
lunedì 17 giugno 2024
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (563)
Giuseppe Leuzzi
L’autonomia differenziata
in effetti non ha a che vedere con il Sud. Quale Asl, quale Regione, avendo diecimila,
ventimila, centomila in un anno interventi chirurgici da provvedere non si
butterebbe nel business, meglio se in ospedali propri cioè, un business
eccellente, tutto in autonomia già da molti anni alle Regioni. Invece il Sud ne
fa volentieri a meno, Campania, Calabria e Sicilia soprattutto, felice di
regalare il tesoretto al Nord – il buon ospedale è da Roma in su.
Malaguti,
direttore della “Stampa”, il giornale di Torino e degli Agnelli, commenta il G
7 con: “L’euro-Meloni e l’inutile spettacolo di Borgo Egnazia”. Sarebbe stato
“inutile” lo “spettacolo” se si fosse tenuto nelle Langhe – “inutile” non può
essere un G 7, non lo è stato?
Dell’odio-di-sé – o dell’inglese
Nella
corvée quotidiana anti-Meloni, “la Repubblica” propone la lamentazione
di una lettrice che legge anche il “New York Times” e vi ha trovato la
definizione di Borgo Egnazia in Puglia, dove Meloni ha tenuto il G 7, come di
un “villaggio Potiomkin”, cioè di cartapesta. Il rubrichista Francesco Merlo,
che è di Catania, ci costruisce su l’estetica del falso, e conclude: questo
Borgo Egnazia “è l’Italia falsa di Giorgia Meloni”.
Una
teoria di cui Dagospia ha fatto un lancio a tutta pagina. Sotto vignette da
“scompisciarsi dal ridere”. E il titolo: “Il ‘New York Times' stronca Meloni per
la scelta del resort come sede del G 7”.
È curioso: se il resort è
in Toscana o in Umbria, anche nel Veneto (ce ne sono di ricchissimi, anche con
doppio campo da golf), va bene, se è in Sardegna o in Puglia è speculazione (in
Sicilia e Calabria mafia, che altro). L’odio-di-sé c’è, non l’hanno inventato
Theodor Lessing e Roger Scruton, e quello meridionale è fortissimo.
Si può capire l’anti-melonismo – è parte della politica. Ma non
bisognerebbe anche chiedersi se la lettrice non è una “provocatrice” – come si
diceva ai tempi del Partito. Cioè, riscontrare la cosa sul quotidiano newyorkese, che è pubblico,
perfino online. Che dice il contrario, di Meloni fa l’elogio: “Il primo
ministro italiano è stata uno dei pochi leader rafforzati dal voto per il
Parlamento Europeo. Questa settimana ha la possibilità di mostrare il suo peso
su un palco anche più ampio”. O il lettore non va rispettato?
Certo, bisogna sapere l’inglese. Si può capire
Dagospia, D’Agostino non sa l’inglese, ma al giornale ex di Scalfari – lui non
lo sapeva, ma i successori?
La koinèe mediterranea
di Calvino
“Molta gente ha la
stessa faccia, non dico degli italiani meridionali, ma dei liguri: la koiné
mediterranea è un po’ tutta lo stesso minestrone”, Calvino a Tripoli, ottobre
del 1963, annota girando per il suk. Era arrivato preoccupato: “Cara Chichita”,
scriveva alla fidanzata a Parigi subito dopo lo sbarco, “un paese in cui non si
vedono donne prende subito un’aria sinistra”.
Invitato dall’Istituto
Italiano per tenere delle conferenze, Calvino resta spaesato per qualche
giorno. Preda, scrive alla fidanzata, dell’ambasciatore per i pasti, che essendo
solo, e uno del vecchio genere diplomatico, della conversazione vacua, se lo
tiene stretto e lo deprime. Poi va a Sabratha, vede Leptis Magna, un po’ si
riconcilia con la città. E ne scopre perfino la storia – di cui fa alla
fidazata una sintesi ancora utile.
Al mercato,
scrive, “ho cominciato a capire un po’ questo mondo, a entrarci, a non sentirlo più tanto estraneo”. Per le facce. E anche
per la storia: “Tripoli per molti secoli è stato il porto dei pirati che venivano
a saccheggiare le nostre coste; la popolazione è mescolata, per via degli
schiavi (di cui Tripoli era un grande mercato)” – allora come oggi, si direbbe –
“e vanno dai negri dell’Africa nera ai veneziani e ai genovesi, di cui sopravvivono
i nomi e la tradizione in famiglie arabe originariamente di schiavi portati
qui. Nella vecchia Tripoli (che doveva essere molto bella quando era una
mescolanza di popoli e l’Italia fascista la teneva come una colonia di lusso
puramente rappresentativa spendendoci miliardi) sono scomparsi il quartiere dei
marinai (greci, maltesi, ciprioti etc.) e il vicino quartiere ebreo, perché
tutti se ne sono andati, e gli arabi si sono stabiliti informemente
dappertutto. Ma questa rivincita araba è anche la loro decadenza (nonostante
che ora abbiano il petrolio e pure che ci sia meno miseria) perché si chiudono sempre
di più in se stessi”.
Severo il giudice di padre
calabrese
Samuel
Alito, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, non è meridionale, è nato a Trenton, New Jersey, ha studiato a Princeton, è stato
avvocato dello Stato federale americano, poi consulente del ministro della
Giustizia, etc. etc, tutto molto americano, fino alla nomina alla Corte Suprema
nel 2008. Dove è diventato il giudice più controverso. Non tanto per la
giurisprudenza. È conservatore, ma dalle decisioni inattaccabili – erede, si
dice, di un altro giudice supremo italo-americano di tendenza conservatrice, molto
rispettato, Antonin Scalia. Per i modi spicciativi. È il tipo del vaffa. Per
esempio, da ultimo, sull’alzabandiera a casa sua a rovescio – “lo ha fatto mia
moglie, mia moglie è libera di avere delle opinioni” (erano i giorni della
Befana del 2020, quando Trump si agitava per la “vittoria rubata”). Per il carattere.
Di cui l’America, perbenista, deve scandalizzarsi. E quando una giornalista ha diffuso
l’audio di conversazioni registrate di nascosto fingendosi amica di sua moglie, che sognava una bandiera
con su scritto “vergogna”, in italiano, in risposta alle bandiere LGBTQ+, e l’America
si è scandalizzata, non della registratrice occulta ma della moglie, non ha
mosso ciglio.
Cose
americane, perché parlarne? Questo Alito, per quanto sconosciuto, sembra un
personaggio noto. E il motivo viene fuori subito, su wikipedia: è di padre
calabrese, di Roccella Ionica (la madre era italo-americana, di genitori provenienti
dalla provincia di Potenza, Palazzo San Gervasio). E questo lui è, sembra il
calco di un genitore calabrese, e come lui decide: tace,
riflette, e decide, senza arretrare di fronte alle critiche. Mai quando si
tratta della famiglia: risoluto. La madre era maestra, il padre professore di
liceo e poi, presto, direttore a vita del New Jersey Office of Legislative
Services, un’istituzione statale.
Non è tutto. L’imprevedibilità
il giudice Alito spinge anche sugli orientamenti. Nei curricula fa larga parte
agli studi del costituzionalismo italiano. La sua laurea magistrale nel 1972 è
stata uno studio della Corte Costituzionale italiana, “An Introduction to the Italian Constitutional Court”. Con
ringraziamenti a Giuseppe Di Federico e Antonio La pergola, due giuristi di sinistra,
all’epoca socialisti.
Cronache
della differenza: Napoli
Pasolini,
che amava Napoli, non ne apprezzava il tifo calcistico: Il tifoso (“Il mio
calcio”) diceva “illuminato”,
come le facce della pubblicità.: “Il tifoso di tipo, diciamo, napoletano, è un
poco così: sa, è
illuminato, beato lui, da una specie di grazia. A nulla valgono i
ragionamenti…. Egli ha una porzione
di cervello (la principale) staccata dal resto, e capace, sotto quell’illuminazione carismatica,
di un solo, fisso, immutabile pensiero”. La fissità, “la maschera, la
«macchietta»”, non gli
piacevano: “Umilia l’uomo. Io ho pena quando vedo i tifosi, appunto, in
maschera, con ciucciarielli,
ecc. Nulla è più angoscioso dell’aspirazione «panem et circenses»: pensate a Lauro…”.
Non
ha, non ha mai avuto, vocazione imperiale. Non sapeva nulla della Sicilia
quando la governava – e non ne traeva nemmeno nulla, solo la malgovernava. O
della Calabria, della Puglia. Le studiava – le faceva studiare – e poi non
faceva nulla, di pratico – una strada, una fontana.
C’è molta Calabria nel memoir di Antonio
Franchini sulla madre, “Il fuoco che ti porti dentro”. I fidanzatini di lei,
uno bello, uno intelligente. I generi. L’appartamento a mare, a preferenza di
Formia, nella babele “napoletana” da Praia a Mare a Paola, che si è creata
negli anni 1970, con l’autostrada oggi del Mediterraneo, gratuita. C’era la
possibilità di un ritorno della Calabria a Napoli, da tempo abandonata per Roma.
Che subito è svanita: Napoli rumorosa e invadente ha creato più risentimenti che
legami – risentimenti vissuti con disprezzo.
Ha
fatto nel click day del “decreto flussi” immigrazione 2024, più domande
di nulla osta di tutta la Lombardia. Nel 2023, ha spiegato la presidente del
consiglio Meloni alla Procura Antimafia, su 282 mila domande di nulla osta per
lavoro stagionale in agricoltura o nell’accoglienza, 157 mila sono arrivate dalla
Campania. Con l’industriosità che mette nelle attività dubbie, la copia, il
lavoto à façon, e ora i nulla osta immigranti, non farebbe faville nel grande
capitale?
Vico nel
1725 mandò ai dotti della sua città “La scienza nuova”. Ignorato da tutti – “né
pure un riscontro
di averla ricevuta”, lamenta col padre Giacchi (“L’Autobiografia”, lettera del
25 novembre 1725) - come,
dice, se l’avesse “mandata al diserto”
leuzzi@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo – sovraniste (276)
“Mai sfondato nel mercato in lingua
anglosassone”, lamenta Sveva Casati Modigliani sul “Corriere della sera”,
intervistata da Roberta Scorranese per la serie “L’ultimo libro”, sul futuro
del libro e della scrittura - per “anglosassone” intendendo evidentemente il
mercato di lingua inglese.
“Secondo il mio editore”, spiega, “cioè
Sperling, il mercato americano tutela i suoi scrittori di best-seller. E cosi
oggi noi, per esempio, possiamo leggere la bravissima Danielle Steel tradotta
in italiano, ma non permettono a un’autrice italiana da milioni di copie di sbarcare
da loro”.
Un sovranismo letterario? “Lo chiami
come vuole. Io so che, prima di morire, uno storico capo della Sperling aveva
in progetto di aprire un ufficio a New York e pubblicare direttamente lì i miei
libri”.
Quello
che hanno fatto Sandro Ferri e Sandra Ossola (e/o) per “Elena Ferrante”. Che in
effetti è stata per due anni la dominatrice delle classifiche Usa.
La scoperta dell’Olocausto, in bella copia - colpa dell'Europa
Sotto le spoglie di Austerlitz, una conoscenza occasionale che ritoma nelle
pieghe della narrazione per alimentarla, biblico, storico, un po’ ingegnere, un
po’ filosofo, uno studioso di architetture, dello “stile architettonico dell’era
capitalistica”, nel fisico, nell’eloquio e nelle abitudini modellato su Wittgenstein,
ma soprattutto narratore, a partire dalle grandi stazioni, di Anversa, di Londra,
e dalle fortificazioni. Il nome gli viene dato dal direttore del liceo, perché
quello della famiglia di adozione non è valido, non essendo stata l’adozione formalizzata
giuridicamente. Ed è il nome vero, secondo Austerlitz, di Fred Astaire. Ma
ricorre anche in un raccontino di Kafk, ricorda sempre Austerlitz, e nelle
cronache - “il 28 giugno 1966 una certa Laura Austerlitz” rilascia “una
testimonianza davanti a un giudice istruttore italiano circa i crimini perpetrati
nel 1944 nella risiera di San Saba presso Trieste”. E forse è solo mediato dalla
stazione della metro parigina nel quartiere della Salpétrière, l’ex manicmoio.
Sebald si fa narrare alcune curiosità. Ma soprattutto ricostruisce. Partendo
dall’infanzia di bambino inviato in Gran Bretagna nel 1938 su un “treno dei
bambini” che si organizzarono da Praga dopo l’occupazione tedesca. Mandato dai
genitori, preoccupati da Hitler, e cresciuto nel Galles. Molto Austerlitz
racconta dell’adozione e della famiglia adottiva, quindi dell’Inghilterra, nel
lunghissimo dopoguerra. Nella seconda parte Austerlitz si collega all’Olocausto,
raccontando la visita a Praga alla ricerca delle radici. Gli racconta tutto la vecchia
bambinaia, amica della mamma: della mamma deportata, e del padre politico che
nel 1938, quando la Cecoslovacchia fu invasa da Hitler, per evitare la prigione
emigrò a Parigi (dove, Austerlitz ipotizza, fu rinchiuso in prigione come alieno
allo scoppio della guerra, e poi deportato nei campi di sterminio in Europa
orientale)
La scoperta si fa per gradi, e come occasionale. Il primo segno si manifesta
al forte Breendonk, nelle pagine iniziali sulle fortificazioni, dove l’autore
scoprirà poi che Jean Améry fu torturato, allo stesso modo di “un certo Gastone
Novelli”, la cui storia è raccontata da Claude Simon in “Le jardin des plantes” – dove emigra in Sud
America, scrive il dizionario di una lingua che è tutta A, ritorna in patria, e
dipinge furiosamente anche qui tutte A, “come un grido prolungato” – seguono tre
righe di A in stampatello.
Una scrittura “tedesca”, assicurano i traduttori, puntigliosa, precisa, ma
per una narrativa “all’inglese”, si direbbe – un viaggio alla Sterne: divagazioni,
visioni, fantasmi, curiosità, aneddoti, e storie di quartieri, villaggi, epoche,
scuole, eventi atmosferici, personaggi incontrati e memorie improvvise. Si
divaga senza sosta. Con i viaggi degli uccelli migratori. In volo col Cessna
sull’estuario del Tamigi, le luci di Canvey Island e Southend-on-Sea, la
Piccardia, e al ritorno, visibili, il Cigno, Cassiopea, le Pleiadi - le costellazioni. La difficoltà di scrivere. Le passeggiate notturne nel West End
(londinese). L’ospedale di Bedlam (manicomio). Il Nord-Est di Londra nel
secondo Ottocento, rivoltato per costruire. E le stazioni naturalmente, le Grandi
Stazioni, per la architetture, e per i vuoti. Londra quando si pattinava sul
ghiaccio – non sul Tamigi, V. Woolf sbaglia in “Orlando”, ma sugli acquitrini del N-E,
che “formavano un’unica lastra di ghiaccio per mesi e mesi”. La Nuova Biblioteca
Nazionale di Parigi voluta da Mitterrand, per molte pagine.
Austerlitz è ubiquo come l’ebreo errante. Dopo il Galles è andato in
Francia, poi in Inghilterra, dove ha comprato casa per 950 sterline, soltanto,
e insegnato per trent’anni, e poi ad Anversa, dove l’autore ne fa la
conoscenza, a Praga, a Parigi di nuovo, sulle orme del padre, e altrove – Dux
(Casanova vecchio), e soprattutto Marienbad. Qui con un’avventura muliebre, una
studiosa francese, Marie du Verneuil - ma sopaattuto si fa la storia delle terme.
Alla fine Austerlitz rilegge Balzac, “Il colonnelo Jabert”, che dopo anni
riemerge con la memoria nitid della lunga quasi morte che ha vissuto,
prigioniero in Germania. E ricorda di essersi formato, nell’inverno del 1959,
sui sei volumi di Maxime du Camp, l’amico fraterno di Flaubert e suo compagno
di viaggio in Oriente, “Paris, ses organes, ses fonctions, et sa vie dans la
seconde moitié du XIXme siècle”. E qui tutto si lega: “Su quel terreno desolato
fra l’area di smistamento della Gare d’Austerlitz e il Pont Tolbiac, su cui
oggi sorge questa biblioteca (la nuova Biblioteca Nazionale, n.d.r.), c’era fra
l’altro sino alla fine della guerra un grande deposito nel quale i Tedeschi
ammassavano i beni sottratti nelle case degli Ebrei di Parigi”. Una memoria che
svanisce? La Nuova Nazionale, “per il suo intero impianto nonché per un
regolamento interno ai limiti dell’assurdo, tende a escludere il lettore, quasi
un potenziale nemico”, personificazione
del bisogno sempre più pressante di farla finita con la memoria. La Nuova
Biblioteca finisce come le altre fortezze, inutili, se non come luoghi di
torture e assassinii di massa.
Un periodare disteso, lungo, da mezza a una pagina – qui una frase è
particolarmente distesa, dalla p. 252 per altre nove, sette e mezza di testo non
contando le illustrazioni. Non è un flusso di memoria, sono ricostruzioni episodiche,
scandite dagli incontri occasionali dell’autore con Austerlitz, ma scritte come
un unico, anche interminato, flusso narrativo. Con l’ortografia ma senza
scansione: niente accapo, niente capitoli, frasi lunghe, alla Thomas Bernhard, ma sempre scandite in
maniera leggibile da una scrittura compatta, come da blocco solido, per quasi
quattrocento pagine. Una forma lieve, quasi ironica, di fa rivivere la persecuzione,
a uno sbandato, un senza nome che va acquisendo identità a mano a mano che l’autore
gliela crea, cresciuto gallese ma senza legami effettivi, che poi si scopre
vittima della tragedia e non ne fa una tragedia.
Sebald – questo si sa poco di lui ma ne è il trademark - non
apprezzava il corso della letteratura tedesca post-bellica, Grass e Böll, della
Colpa, della ricostruzione ex nihilo. Più propenso, come in modo più volgare
aveva fatto il drammaturgo Hochhuth con “Il vicario”, a vedere anche le colpe
d’altri, dell’epoca, di una certa modernità – della “tecnica” direbbe Heidegger- e della storia europea.
In una conferenza molto citata, “Auf ungehörige dunnem Eis”, sul filo sconveniente
del rasoio (questo è il titolo che l’editore ha voluto per la raccolta postuma
dei suoi saggi, 1971-2001, pubblicata nel 2011), spiega: “Vedo la catastrofe
causata dai Tedeschi, per quanto terribile, per nulla come un evento singolare –
si è sviluppata con una certa logica dalla storia europea. Per lo stesso
motivo, si è consumata nella storia europea” Qui se lo fa dire da Austerlitz: il
popolo di Hitler fu “mosso dall’entusiasmo per il riscatto nazionale”, dopo la
lunga fame.
L’Olocausto
di Sebald è parte della modernità crudele, che s’inventa forme nuove di guerra
e persecuzione. Senza speciale colpa dei tedeschi – o allora dei tedeschi con i
francesi (la morte del padre di Austerlitz) e con i cechi (l’internamento della
madre). Pubblicato nel 2001, subito dopo la morte (e poco dopo in traduzione da Adelphi),
il racconto è ampiamente visto dalla critica tedesca come un omaggio di Sebald
a Thomas Bernhard – come un coming out, dice un critico, di “allievo letterario”
di Bernhard: anche lui contestatore universale, malgrado la bonomia.
Il
campo che Austerlitz nella sua ricerca visita e descrive non è del tipo Auschwitz.
È Terezín, o Theresienstadt, a un’ora da Praga. Creato per ebrei facoltosi (“proprietari
di industrie e manifatture, avvocati e medici, rabbini e professori
universitari, cantanti e compositori, direttori di banca, commercianti,
stenotipiste casalinghe, agricoltori, operai e milionari”), nei primi anni in attesa
di espatrio, una cittadina ghetto, non un campo di lavoro, senza forni crematori,
con case invece di baracche, nel 1944 rivestita da città-giardino, per una
visita della Croce Rossa, due funzionari danesi e uno svizzero, fatta immortalare
in un documentario, montato con una colonna sonora di motivi ebraici, e siamo
già a marzo del 1945 – ma non c’è segno di follia teutonica.
Con molte foto come spesso nei libri di Sebald. Qui specialmente “narrative”,
evocative – impaginate anche accuratamente, legate al testo.
Un tour de force, per l’autore che ne esce vittorioso, ma anche per
il lettore.
W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, pp. 315 € 13
domenica 16 giugno 2024
Ombre - 724
Non male l'esercito israeliano che si ammutina. Di un ammutinamento particolare, perché la “pausa tattica” nei combattimenti, per lasciar transitare gli aiuti umanitari, è stata decisa dal comando. Ma contro il governo. Che obietta: “Dovremmo essere un Paese con un esercito, non un esercito con un Paese”. Sarà l'esercito a salvare Israele dalla sicura condanna della Corte Penale Internazionale?
Aldo Grasso sanziona le
volgarità dei politici – tutti di destra, ma non importa. Tra esse sanziona
“l’uso disinvolto della parola «stronza» da parte di De Luca e della premier”.
No, da parte di De Luca. Ironia? Di sinistra? O un plauso a Meloni, surrettizio
certo? Poi dice che si creano i miti.
La “psico-nana” di Grillo e Travaglio che
sberleffa il battutista De Luca, basito, muto, è grossa gag – è Sansone
e i filistei.