martedì 2 luglio 2024
Se la destra dilagante in Europa è fascismo
Fronte Popolare e Grande Capitale uniti in Francia contro il Popolo, detto spregiativamente fascista. Non è una novità, non in Francia: è il modulo per cui da quarant’anni si elegge il presidente - che in Francia ha tutti i poteri, molti di più che nel presidenzialismo per eccellenza, quello americano. Ma fa speciale impressione oggi.
Un voto, quello francese, di contraddizioni. Una destra che si fa sinistra, contro una destra concorrente, eccetera. La Francia ci ha fatto l’abitudine – ci vive, di contraddizioni. Il problema è che questa destra ora è europea (perfino inglese), e altrove non ci sono “fronti repubblicani” da crearle astutamente contro – senza considerare l’opportunità, e la democraticità, di questi schieramenti artefatti.
Un monumento a Roma monumentale
Morte è vita. Passione è corruzione. Senza prevenzioni,
neanche etiche. Di soldi, di sentimenti. Ma senza filosofie, non dette.
Greenway ha voluto, nella maturità, 1987, ricreare
le sensazioni di ebrietà, stordimento, del suo primo soggiorno a Roma, a 17
anni. “Ero studente d’arte, e studiavo la pittura del Rinascimento”, ha
spiegato, ma Roma, dove passò tre-quattro mesi, lo stordì con l’architettura –
le architetture, di fatto, lungo 2.500 anni.
La meraviglia qui impersona in un architetto, americano,
che arriva a Roma, con la moglie incinta, per organizzarvi una mostra dei
progetti di Boullée, l’architetto neoclassico francese del Settecento, che pensava
e disegnava “romano”, monumentale. Salvo scoprirvisi affetto da tumore al pancreas,
incurabile – l’abbaglio di Roma è irriproducibile, irripetibile.
Una trama come un’altra per raccontare le sensazioni
della prima visita. Della monumentalità, plurimillenaria, ineguagliata.
Qualcosa, intende Greenway, sempre sorprendente.
Un racconto di immagini, monumentali, più
massicce che ieratiche.
Peter Greenway, Il ventre dell’architetto, rassegne
varie
lunedì 1 luglio 2024
Secondi pensieri - 539
zeulig
Anarchia – È individualista, tanto quanto (forse di più che) socialista. Oggi, dismesse
le bombe e le fiamme, si copre dei “diritti”. Troppo spesso involuti e
artefatti – specie quelli linguistici.
Siamo anarchici, poiché, Arendt l’ha
intuito, “il peggior nemico dell’autorità è il disprezzo”. Contro l’ipocrisia
più che contro lo sfruttamento. Siamo cioè paretiani, contro la
pluto-demo-crazia, la forma mista di dominio dei “produttori”, accorta
impostura, la plutocrazia dei ricchi e la democrazia dei lavoratori alleate
contro la rivoluzione. E per questo, se la libertà è snobismo, stupidi, a meno
di continui penosi correttivi: il tipo radical tory, tra Sorel e
Pareto, socialista e perfino marxista reazionario.
Carpe Diem – Cioè il miracolo: il giorno, il momento, il tempo non tempo. Confligge
con la realtà ma esiste, è con noi, passa con noi. Non si sa come né perché, ma
ci siamo, momento per momento.
Hegel - Si può dire di Hegel, il Sistemista, che fu nitido teorico del
fascismo – del fasciocomunismo: il Partito Interprete della Storia,
l’Intellettuale Collettivo, il buon Funzionario. Che è anche il Funzionario del
Partito di Togliatti, l’interprete collettivo, del partito Bolscevico.
Non era Zdanov, cioè Stalin, che liquidava
Hegel quale ideologo della reazione feudale contro la Rivoluzione?
Intellettuali – Minosse e
Solone facevano le leggi. Oggi le fanno i negozianti, gli industriali, i
banchieri, i coldiretti, e le influencer. Le masse cioè. Echi distratti di
conversazioni e letture si affastellano a confondere la riflessione mai
realizzata sul proprio ruolo nel mondo. Nell’impeto del momento, che vuole
l’intellettuale integrato, parte di altri insiemi, men-tre rifiuta ogni
integrazione, il lavoro, il partito, l’epoca.
Il tradimento degli intellettuali, ha
scritto Popper al Times letterario,
“consiste nel loro tentativo romantico di essere più intelligenti della ragione
stessa e di elevare il romanticismo da filosofia della nostalgia a filosofia
del potere”. E gli intellettuali che non tradiscono? “Vive là un amico delle
lampade e delle civette”, così lo scrittore Landolfi ne fa l’apologo: “Vivono,
essi, per carpire una nota a un frusciare di foglie o un segreto a una rupe
rugosa; soffrono e sperano nascostamente tutto il loro tempo per una tenue,
piccola idea senza importanza, un’idea fissa; arrossiscono come fanciulle e un nulla
li appanna....”. Celebre pezzo di un ignoto ai più, dopo aver faticato la vita
su una parola, una virgola, erudito, poeta, poliglotta, narratore, sospetto per
l’origine ciociara e l’amore del casinò.
Non ha ragione l’intellettuale se non
romantica. Oscuramente, per il rifiuto che gratifica più dell’intelligenza, il
rifiuto dello sfruttamento e della guerra, anzi del mondo, per l’entusiasmo,
per l’odio. È così che l’amore di sé e dell’umanità si trasforma in disegno di
potere. Che è duro. Anche se è, nell’immediato, il partito. Ha il sapore aspro,
malgrado le cautele retoriche, della violenza. E comporta la perdita dei fini. L’intellettuale non può che essere
contro, l’intellettuale onesto. Impaziente, assoluto. Come la verità, più di
Dio.
A lungo l’intellettuale non ha avuto radici, un vagabondo, di casa
mutevole dove curiosità e speranza lo spingevano. Viaggiavano i filosofi
antichi, e quelli cristiani, e i poeti: Lullo, Dante, lo stesso pantofolaio Petrarca.
È il qalendar persiano, di cui l’Iran ha perduto la memoria,
W.
Ivanov ci ha lavorato quarant’anni per darne
una spiegazione, variamente tradotto outlandish, scholar-gipsy,
uccello migratore, benché viva nella sua poesia, insiste Henri Corbin, “libero
come il vento”, uno che “non dorme due notti nello stesso posto”.
L’intellettuale ha ora invece
l’intelligenza del sentimento - il rivoluzionario è intellettuale, diceva
Hobsbawm, storico compagno. Ma se organico al partito doveva essere politico,
prudente. Si evince da Gramsci, e l’opinione è consolidata in Occidente a
partire dalla Riforma protestante, conclusa dalla Riforma cattolica a Trento,
che fu concilio di storici e letterati, con alcuni teologi.
L’intellettuale
è solo. Nel Manoscritto trovato a Saragozza,
libro pieno di donne ardite, si dava centocinquant’anni fa la scansione temporale
dell’OPERA dell’uomo, perfetta, compiuta, in ore lavorate, giorni, settimane,
mesi, anni e abitudini. A conclusione dell’OPERA c’era l’isolamento.
L’insoddisfazione di tutto, e di sé.
“Non
ci lasciano spostare un sasso”, lo constatava già Machiavelli.
Mito – Un’altra realtà. In realtà è una fuga, un exemplum, una cartina di tornasole.
Una bene, un male: si vive di miti perché si è scontenti
del reale.
Il mito è un rifugio. Ma il mito depaupera, diminuisce,
involgarisce il reale - non crea scontentezza più che ridurla, ammansirla, rivoltarla?
Realtà - L’epoca va vista forse riflessa, per speculum, ma per
quello che è – non sempre si può essere fuori della storia. L’uomo
einsteiniano, il cui mondo muta per un battito di ciglia, vive al modo che nel
cinema si dice in soggettiva, spostandosi con la realtà che si sposta. Ogni
traccia, tradizione o resistenza sopravvive residuale, l’inconscio, il
Super-Io, l’in-natismo, vittime neonate della dinamica permanente, la Forma o
Figura totale dei gestaltisti e dei conservatori rivoluzionari, salvandosi
morfologicamente, quale figurazione di un insieme precario. Italo Calvino
l’insta-bilità figura in un’ottica catastrofista, del mondo che si vede
“precipitando dalla tromba delle scale”. Ma questa attitudine, che è ovviamente
vi-sione e programma di vita, una debolezza comporta: vivere l’effimero del
sistema disordinato in modo ancillare. Instancabilmente aderire di volta in
volta a ogni fenomeno, per curiosità inesausta, per inclinazione sponta-nea,
quasi lascito di altra vita, all’ignota filosofia bramanica che da sem-pre
recepisce, rovesciata, l’ottica einsteiniana, della coincidenza di ogni cosa.
Che non è indifferenza, certo, ma partecipazione operosa.
Verità - La ragione – la coscienza? - è uno strumento e non un fatto. Ti
può dire di andare da qui a lì, ma non come, e in realtà nemmeno dove. È uno
strumento a disposizione di chiunque, per qualsiasi turpitudine.
zeulig@antiit.eu
La verità sull’Ucraina non si può dire
Carlo
Rovelli, opinionista insigne al “Corriere della sera”, è duramente declassato
oggi: niente prima, confinato alla p.43, e taglio basso, sotto un titolone sul
festival “Passaggi” (“Assaggi”), una di quelle pagine che si “saltano” - buone per
tenere su la pubblicità. Perché? Per due motivi, anzi per uno. In una riga dice
che “le grandi potenze non tollerano missili nucleari troppo vicini”. E in un’altra
che dice che “la cosiddetta rivoluzione di Maidan” in Ucraina nel 2014, è “giudicata
diversamente da parti diverse”. Che sono cose che si sanno, ma non si devono
dire? Per un motivo? Per un ordine? Di chi? Di che?
L’insigne
fisico vuole dire che la guerra in Ucraina ha dei precedenti e dei motivi. E che
la fine della guerra passa per l’Ucraina stessa, che l’ha cominciata.
E
si è dimenticato il terzo punto – o l’articolo è stato tagliato, “per motivi di
spazio”? Che l’Ucraina a un certo punto, sempre nel 2014, ha sconfessato gli Accordi
di Minsk che aveva appena firmato, per l’intermediazione del presidente francese
Hollande e della cancelliera Merkel, sull’autonomia “di tipo Alto Adige” per le
regioni orientali (Donbass), a larga presenza russa.
Il democristianesimo zavorra d’Italia
Bisogna dare ragione a Feltri, questo sito argomentava qualche giorno fa. Bisogna dargliela ancora una volta, quando sberleffa il ruolo insulso di Tajani, vice-presidente del consiglio, ministro degli Esteri e capo di Forza Italia, la forza italiana dei Popolari europei, nella decisione brutale dei suoi “amici” tedeschi, olandesi, austriaci, etc., che hanno escluso l’Italia dopo il voto europeo da tutto. Del resto Feltri dice a Tajani quello che Mattarella aveva già detto, seppure non nominativamente.
Meloni in questa stagione politica di
destra era simpatica per questo – lei non lo sa ma è così: aveva cominciato a dire le cose come stanno,
il famoso apologo del “re è nudo”. Senza più melassa. Ma subito ora Tajani
impone la linea: accontentiamoci, qualcosa ci daranno. Questioni di metodo? Saggezza
politica? Procedure occulte e irresponsabili? No, siamo tutti amici.
Questo “europeismo” dell’Italia è tra le
cose rendono l’Europa antipatica. Basta darle uno strapuntino, essendosi
dimenticati di invitarla a pranzo, si accontenta facile. E obbedisce – abbozza,
come si dice a Roma. Politiche, progetti, strategia? Ma de che – sempre a Roma?
Una melassa tanto più insidiosa perché
ambivalente, di destra e di sinistra: va bene per tutti gli abiti che l’Italia
indossa – che poi sarebbe uno solo, quello democristiano, ora “popolare”. Per
Prodi e per Berlusconi, ora Tajani.
E così, alla fine, in pochi è vero, abbiamo
votato per dare un posto a un amico di Tajani. Anche a un amico-nemico, per
esempio Enrico Letta. Purché della stessa famiglia e mentalità.
Un altro Putin
Un libro-intervista americano di quasi 25 anni fa,
2000, quando Putin era la “speranza” della Russia e non il Nemico – l’anno
prima a sorpresa capo del governo e ora addirittura presidente della Repubblica.
La ricostruzione di una vita e di una carriera fino ad allora – fino alla sua
scelta nel 1999 da parte di Yeltsin per il governo - insignificante, si
direbbe. Se non per la singolarità del personaggio, che veniva dal nulla. Tra
le difficoltà estreme del padre-soldato, fino all’invalidità, e della madre
sola durante l’assedio di Leningrado, senza protezione dalle bombe e senza cibo
– la madre fu anche data per morta. E una vita grama dopo: a trent’anni,
funzionario del Kgb, sposato, con una figlia, conviveva con i genitori, in 27
mq., balcone compreso – ma senza finestre, solo due prese di luce alte sui
muri. L’adolescenza col mito del Kgb, neanche lui sa spiegarsi il perché, tutto
è burocrazia, e la pratica dello judo, di cui fu anche campione regionale – il
judo e non il karate, precisa, sport per signorine.
Le testimonianze della maestra, della moglie, di un
paio di amici non illuminano questa esistenza grigia. La scelta di Yeltsin,
inspiegata, nasce forse dal fatto che da collaboratore stretto e vice del sindaco
riformista di San Pietroburgo Sobchak non aveva rubato e aveva combattuto le
mafie. Yeltsin era del resto imprevedibile - temendo Sobchak come concorrente politico, di successo, ne aveva scelto la controfigura.
Un’intervista modesta, scolastica. Di poco aiuto per
capire il Putin al potere – un’esperienza successiva. Se non per un paio di
osservazioni che oggi sembrano strane. Critica aspro la pratica del Kgb, quando
i dissidenti organizzavano una manifestazione, di anticiparli con una
contromanifestazione, per ingannare i giornalisti e i diplomatici allertati dai
dissidenti. La persecuzione di Sakharov dice crude, brutale. I cinque anni, 1985-1990, passati nella Germania
Democratica rivisti come un incubo, “uno Stato totalitario”, cioè stalinista,
assetto che “la Russia aveva accantonato da trent’anni” – il quinquennio è
anche quello della perestrojka , della
liberalizzazione in patria. E la
considerazione è ripetuta che le guerre vanno combattute ma non risolvono. Un altro
Putin, che l’Occidente ha sbagliato a inimicarsi – di Clinton ha solo
apprezzamenti, di Bush jr. allora al potere rispetto. Importante come immagine che Putin proiettava di se stesso per il pubblico americano. Pragmatico, non ideologico, nemmeno nazionalista: si direbbe senza progetto, salvo salvare la Russia dalla dissoluzione del post-sovietismo, tra le miriadi di piccoli nazionalismi e di mafie. Un realista? La pagina del colloquio con Kissinger, a San Pietroburgo per la Fondazione da lui creata con Sobchak per favorire gli investimenti, è da antologia.
Con molte foto della famiglia di origine, e della
propria.
Vladimir Putin, First Person, Public Affairs, pp. 207 €12,60
domenica 30 giugno 2024
Letture - 553
letterautore
Antologie – Francesco Ambrosoli, milanese, classicista, professore, cattolico, che
aveva stroncato la “Crestomazia” di Leopardi perché non aveva tenuto conto di un
certo Perticari e invece aveva dato spazio ad Alessandro Verri, pubblicò a sua
volta, nel 1831, un suo proprio “Manuale di letteratura italiana”. Che Giulio
Bollati, “L’invenzione dell’italiano moderno”, dice” pregevole lavoro”, archetipo
delle “odierne antologie per i licei” - ma Bollati scriveva nel 1968.
Blurb – “Simenon mette in
scena, alla sua maniera, il rapporto complesso tra un assassino in fuga e il suo
segretario” – la casa editrice Adelphi si adorna di questo blurb , a firma Maurizio Cucchi, sul “Robinson”. Cioè, dovremmo comprarlo?
Dante – Ma,
poi, dopo il tanto parlare di Maometto e i suoi viaggi (Asìn Palacios, Maria
Corti et al.), resta che Dante ben
conosce Ulisse, anche senza aver potuto
leggere l’“Odissea”. E quindi, perché no, la “Nekyia”, la lunga scena al canto
XI del poema omerico in cui Ulise va nella terra dei morti e vi incontra le
vittime dei trapassati. Sui quali Omero esercita, anche lui, il suo giudizio –
Minosse è miglior legislatore, eccetera.
I poemi omerici non erano disponibili, ma di Ulisse c’è
molto in Ovidio, Cicerone, Seneca, Orazio, e nei romanzi medievali.
Un tessitore e un colorista. E un anarcoide. Per il
su maggior lettore russo, Osip Mandel’stam, “Conversazione su Dante”: “Il
linguaggio poetico è il tessuto di un tappeto con molteplici orditi che si
distinguono l’uno dall’altro soltanto nella
coloritura dell’esecuzione…. Molto prima dell’alfabeto dei colori di Rimbaud, Dante
ha coniugato il colore con la pienezza fonica del discorso articolato. Ma lui è
un tintore, un tessitore. Il suo, di alfabeto, è quello dei tessuti fluttuanti,
tinti con polveri colorate, pigmenti vegetali. Il manufatto tessile in Dante è
la massima tensione della natura materiale
in quanto sostanza definita dalla sua colorazione. E quello della
tessitura è il lavoro più vicino alla pregevolezza, alla qualità”.
Dante è anche contro ogni determinismo,
meccanicismo, sia pure solo il segmento causa-effetto: Dante “provava ribrezzo
per il principio di causalità”.
Donna mussulmana – Prospetta ancora reazioni analoghe a quelle registrate novant’anni fa,
ottobre 1933, a Mosca dal poeta Osip Mandel’stam nella “ottava” n. 3 – nella
traduzione di Serena Vitale: “Farfalla, donna musulmana,\ avvolta in un lacero
sudario,\ creatura di vita e di morte,\
così grande – tu, vera!\ Enormi baffi mordieri\ e capo nascosto nel burnus.\
Sudario svolto come vessillo,\ ripiega le ali, ho paura!”.
Fallaci – Sfacciata,
nuda, la vuole Ljuba Rizzoli, vispa novantenne, in un’intervista senza veli con
Cazzullo sul “Corriere della sera”: “Era sfacciatissima”. Invitata dai Rizzoli
a Cap Ferrat, corteggiava il marito: “Faceva
il bagno in piscina nuda, abbracciava Andrea, andava in giro con lui mano nella
mano… Una sera eravamo a cena al Pirate, e notai che Oriana puntava un ragazzo,
Samir. «Guarda che quello lo devi pagare», la avvertii. Ma la Fallaci s’impuntò
e lo ebbe, gratis”.
Goethe – “Che cosa gli dava tanta gioia in Italia? La popolarità e il carattere
contagioso dell’arte, la vicinanza dell’artista alla folla” - Osip Mandel’stam,
“Giovinezza di Goethe”.
Gomorra – “Fu portato da
Helena Janeczek”, spiega di Saviano Francesco Anzelmo, ora direttore generale
Mondadori, a Paolo Di Stefano sul “Corriere della sera”: “All’inizio fu
presentato a Edoardo Brugnatelli e a me, che seguivamo la collana ‘Strade blu’
(una collana di “autori originali e
innovativi”, n.d.r.). Arrivò Saviano con una borsa piena di giornali locali
della provincia di Napoli e ci illustrò il funzionamento della criminalità
organizzata, i sistemi di comunicazione interna eccetera”. “Il libro era già
scritto”, chiede Di Stefano. “Non ancora. Si decise poi che doveva essere un
libro di narrativa non fiction e quindi se ne occupò Franchini”, responsabile per
la narrativa italiana.
Italiano – “Un deserto di parole vane” agli albori dell’Italia? Troppo complicato
s’intendeva nel primo Ottocento, dopo essere stato lingua franca (per dotti e per
gente comune) fino al Cinquecento – lambiccato. Nella famosa lettera a Gino
Capponi del Capodanno 1825 Igino Giordani lamenta “quel detto ingiusto di molti
stranieri ed italiani, che per imparare la nostra lingua bisogna in un deserto di parole vane perdere assai
tempo”.
Kafka – (Fellini) “considerava Kafka
molto chapliniano” - Sergio Rubini intervistato da Antonio Gnoli sul
“Robinson”. Rubini aveva recitato per Fellini in “Intervista”, dove una troupe giapponese arrivava a intervistare
il grande regista mentre sul set dirigeva “America” di Kafka, che naturalmente
non stava facendo. “Qualunque cosa
volesse dire”, commenta Rubini della messinscena, “mi pare colga un punto
importante: la comicità di Kafka è l’altro lato del tragico”.
Malaparte – Ljuba Rizzoli
nell’intervista con Cazzullo sul “Corriere della sera” il 27 giugno ricorda di
averlo incontrato con Arturo Tofanelli, all’epoca suo fidanzato, il direttore
di “Tempo Illustrato”, per il quale Malaparte teneva la rubrica famosa dei “Battibecchi”:
“Curzio Malaparte non mi piaceva. Andammo nella sua famosa villa di Capri. Era agitato,
nervoso, violento. Si chiedeva: Dio sarà così stupido da farmi morire morire?”.
Malaparte era malato e morirà di cancro.
Non notizie –Sono
affliggenti, ma non si schiodano, nessuno può. Gamberale racconta su “7” di Dagospia
che al festival “Procida racconta” racconta della premiata Paola Turci che ha
lasciato la sposa Pascale per per un nuovo flirt, “un’attrice di vent’anni”, spiega la scrittrice, “di cui
(oltre all’età e alla professione) sbagliano anche il cognome”. Che è invece una
signora quarantenne, che Gamberale conosce personalmente, “impiegata di banca”,
nonché “responsabile dei social” della scuola di scrittura dove Gamberale insegna,
che si è trovata per caso su quel palco, frastornata, dopo avere partecipato
alla festa in piazza “con il suo amorevole fidanzato”.
Olocausto - “Il film di Liliana
Cavani fu un trauma”, Charlotte Rampling ricorda con Valerio Cappelli sul
“Corriere della sera”, a proposito del “Portiere di notte”, 1974: “A lungo non
seppi nulla dell’Olocausto, se ne cominciò a parlare solo negli anni Settanta”.
Calvino
parlava di Primo Levi nel 1962, scrivendo alla fidanzata, come di “un outsider”,
“un chimico”, che ha scritto un libro sulla sua esperienza di guerra.
Presentazioni – Paolo Giordano introduce Jon Fosse a Milano, al Teatro, al festival La Milanesiana,
per l’ennesima presentazione del nuovo libro del Nobel, “Un bagliore”, e per il
conferimento della Pergamena della Città di Milano. E si dice particolarmente
colpito dall’espressione: “E cadde il silenzio”. L’“evento” – la presentazione
– era intitolata tra settimane fa, in onore dell’ospite?, “Il Bagliore della Timidezza”.
Ma Fosse, discreto italianista, capito l’apprezzamento, si schermisce in inglese:
“Il merito dev’essere del traduttore. Non uso un linguaggio fiorito”, cioè figurativo,
proverbiale. E
il silenzio cadde sull’assemblea – il Piccolo di Milano è piccolo per modo di
dire, ha un migliaio di posti (è forse la sala più grande in Italia, più dell’Argentina
di Roma).
Fosse, dice lo specialista di letteratura norvegese Giuliano D’Amico, “combatte con la scrittura”.
Russia – Hermann Hesse
nasce in Germania, nel Württemberg, di madre nata in India, figlia di missionario
pietista, e di padre russo, Johannes Hesse.
Tebaide – C’è una
letteratura della tebaide, dei monaci nel deserto, in cui H. Hesse si cimenta, nota
Cusatelli nella prefazione a “L’uomo con molti libri”, a proposito del acconto
“Hannes”. Una “reviviscenza”: “C’era già stata”, nell’Ottocento positivista,
“tutta una letteratura di Tebaidi, con gli esempi francesi di Flaubert e di
Anatole France” – “la disposizione primitivistica e l’abrogazione dei parametri
spazio-temporali”. In quello, si può aggiungere, che sarà chiamato
“decadentismo”, in opposizione allo scientismo dominante.
letterautore@antiit.eu