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sabato 20 luglio 2024

La destra è dei poveri e dei perdenti (emarginati)

Si riduce (ma solo in Italia) l’ondata politica di destra - in Italia ormai cronica, da trent’anni - al fascismo. O agli analoghi: sovranismo, populismo, etc.. Mentre sondaggi e statistiche dicono il contrario: votano a destra i più poveri, se votano, e i “perdenti” (posto, reddito, funzione). In Italia come in Francia, il fenomeno è da tempo, involontariamente?, radicato. E ora anche in Gran Bretagna (il successo elettoralmente abortito dell’estrema destra fa da pendant, nei numeri dei suffragi se non dei posti in Parlamento, di quello vincente del laburismo), e in Olanda. Sulla traccia, anche qui come per ogni altro fenomeno sociale e politico, dell’America: si può dire Trump un tycoon, un riccastro, e un facinoroso nazionalista. Ma ha vinto, e potrebbe rivincere a novembre, col voto dei poveri e dei perdenti . In Francia un terzo della popolazione, dal Nord-Est al Sud-Ovest, Marsiglia compresa, si sente trascurato e anzi abbandonato - è la Francia che vota Le Pen.
Negli Stati Uniti il calcolo è semplice, stato per stato. Nelle elezioni presidenziali del Millennio,  comprese quelle obamiane, hanno votato democratico gli stati più ricchi (e più popolosi), la California, il New England, New York, Washington, Arizona e poco altro Sud, tre quarti o quattro quinti della Grande Prateria americana ha votato repubblicano. Popolazioni sparse, poco urbanizzate, poco coltivate. E risentite per più di un aspetto.
In Italia non si pone mente all’esito del voto del 2022, spettacolare nelle mappe colorate tanto è stato uniforme. All’infuori di ristrette aree tra Firenze e l’Emilia, il paese ha votato compattamente destra, eccetto che a Milano e a Torino.

Ma l’Europa non è dei fondatori

Usa dire – scrivere – “ma l’Italia è tra i Paesi fondatori dell’Europa unita”, come un titolo di potere  politico. Ma l’Europa non è più quella, ora, da trent’anni almeno: è germanocentrica – è quello che si vuole e si fa a Berlino.
Nell’Europa della fondazione la Germania era divisa, con l’Armata Rossa a Berlino, e dipendeva dall’Italia. Dalle truppe americane che gli Stati Uniti stazionavano in abbondanza nel Veneto, come in Baviera. La Francia era membro critico della Nato, solo l’Italia dava affidamento contro Mosca – la Germania di Bonn corteggiava perfino il Pci, il partito comunista italiano, come quello che avrebbe potuto mediare a Mosca in una crisi.  
Con l’accettazione Craxi-Cossiga degli euromissili l’Italia ha raggiunto l’acme di questo potere indiretto sulla Germania di Bonn. Tanto più che lo schieramento è stato seguito dal crollo dell’Urss, militare e quindi politico. Con la Germania unita è cambiato tutto. Mentre subito dopo cambiava anche l’Italia col terremoto di Mani Pulite.
La Germania fa sempre affidamento sulla protezione ultima (nucleare) degli Stati Uniti - e non della Francia. Ma è una protezione di ultima ratio, non ha più bisogno dell’“Italia volenterosa”, delle truppe e dei missili americani che vi stazionano. E l’Italia non è più la potenza Dc che era, che rincuorava e raffozava la Cdu-Csu, gli ora Popolari - lo scioglimento della Democrazia Cristiana, che era stata per quasi mezzo secolo la grande forza del Centro (Zentrum) in Europa, ha provocato nel semi-continente occidentale aggiustamenti non da perestrojka, ma comunque rilevanti.
La Germania unita è tutt’altro da quella di Bonn. Ha avuto ancora un occhio di riguardo per l’Italia negli anni di Kohl, che veniva dalla repubblica di Bonn, e rispettava l’allora potente Dc. Ma “non esiste”, si direbbe a Roma, con i successori, Schröder e Merkel - per non dire di Scholz, che in Italia non ci viene nemmeno in vacanza.
Schröder viene al caso anche per una sostituzione importantissima, della Germania invece dell’Italia quale partner privilegiato del gas russo – privilegi di quantità e di prezzo. Erano l’Eni e l’Italia i partner privilegiati di Gazprom per le esportazioni. Avevano consentito a Gazprom di avviarle, nel 1968, passando sopra a preclusioni ultimative dell’America, e a resistenze (socialiste) nello stesso governo ialiano, prima e dopo l’invasione russa di Praga. Diventando nella stampa filo-atlantica (Montanelli compreso) “il tubo di Mosca”. E nel 1974 raddoppiarono le forniture. A lungo partner quasi unici (a parte le repubbliche sovietiche, soprattutto la recalcitrante Ucraina, che ogni anno minacciava di tagliare il rifornimento all’Italia – Ucraina e Cecoslovacchia accusavano Gazprom nei loro giornali di praticare prezzi di favore all’Italia). Schröder ha finito per  diventare consulente di Gazprom, e “il lungo tubo” si è praticamente fermato in Germania.
 

Se Bartolini era Sigfrido

L’incisore, pittore e intellettuale pistoiese torna per una stagione in Versilia, dove passò un periodo fertile della sua formazione, giovane amico di Soffici, e quindi familiare di Carrà, Funi, Cicognani, Ugo Guidi, il cosiddetto Gruppo del Quarto Platano (ora defunto) del Forte dei Marmi. I quadri, pochi, della retrospettiva lo mostrano a oltranza: colori tenui, la pennellata lunga, soggetti muti.
La mostra è soprattutto provvida dei lavori di Bartolini incisore. Uno dei maggiori, se non il più significativo, incisore del Novecento. Con numerosissime tavole delle sue molteplici illustrazioni di “Pinocchio” - per un’edizione speciale lo provvide di ben 300 xilografie.
Artista irrequieto, dagli interessi molteplici, poco attento al mercato, Sigfrido Bartolini gode a Pistoia, la sua cttà, di una Casa-museo a lui specificamente dedicata. Che ne cura anche l’attività pubblicistica. E qui si vede perché il nome circola poco: S. Bartolini è un intellettuale molto presente, molto “impegnato”, nella seconda metà del Novecento, ma, pervicacemente, nell’area sbagliata. Nell’area culturale cosiddetta perdente, a partire dal “Borghese” di Longanesi, in rapporto privilegiato, testimoniato anche dai numerosi epistolari che ha curato, con Evola, Volpe, Gabriel Marcel, Vintila Horia, et al. Una posizione politica che si collega anche al rifiuto polemico dell’“arte moderna”, Sigfrido di nome e di fatto, che quindi lo ha a lungo escluso dalle gallerie e dal mercato.
Clara Mallegni-Simonetta Bartolini (a cura di), Sigfrido Bartolini. Una retrospettiva, Massa, “MUG2” (Museo Ugo Guidi 2)

venerdì 19 luglio 2024

Letture - 554

letterautore


Cattolicesimo
– Gli ultimi due Nobel norvegesi per la Letteratura, Sigrid Undset quasi un  secolo fa (1928) e Jon Fosse, sono due convertiti al cattolicesimo – hanno ottenuto il premio dopo la conversione.  Si parla di conversione opportunamente: in ambito luterano, spiega lo specialista di letteratura norvegese Giuliano D’Amico, il cattolicesimo implica un ambito spiritualistico, quasi metafisico – come se Lutero rianimasse Roma?
 
Denaro (moneta) – “Far girare gli affari è, quando tutto è stato detto e fatto, ciò per cui il denaro esiste” – Hjalmar Horace Greeley Schacht, “Confessions of «The Old Wizard»”, p.99.
 
Don Giovanni - Un comunicatore, un persuasore: il “dongiovannismo” prospetta come “la più sofisticata tecnica persuasiva” Nicoletta Polla Mattiot, “Il potere del silenzio”.
 
Gadda – Ma era gay? Si vuole (Arbasino, anche Parise) gay ma non si conosce una sola riga, o una sola affezione, in una vita pur variata e accidentata, in guerra, in Sud America, in Lombardia, a Roma, a Firenze, città dall’omosessualità già normalizzata, con i suoi riti e i sui locali, e di nuovo a Roma. Singolare l’ultimo scritto riaffiorato dalle carte, “Il calcio in costume”, pubblicato da “Robinson”. Singolare la freddezza della sua descrizione a fronte della carnalità dello spettacolo, che la rivista esibisce in fotografie. Uno scritto palesemente “alimentare”, per qualche rivista, per poche lire, svogliato. Nessun fremito per i corpi nudi, quale avrebbe esibito un Pasolini: i corpi maschi, atletici, nudi, avvinghiati, sudati e infangati, lo lasciano freddo. C’è da dubitare del gaysmo di Gadda, che è solo non interessato al sesso – capitava e capita in tutte le famiglie, anche se l’epoca sessuofoba-sessuomane, freudiana, non lo consente.   
 
Hebbel – Il narratore amato di Heidegger il banchiere Hjalmar Schacht ricorda nelle memorie (“Confessions of the «Old Wiazrd»”, pp. 51-52) in tempi grami – lo fa ricord are dal nonno: “Era  figlio di un muratore di Wesselburen, tra Büsum e Heide”, dove il nonno faceva un anno di praticantato da farmacista: “L’ho conosciuto quell’anno. Scriveva recite in chiesa (church plays), poverino. Aveva molta voglia d’imparare il latino, per poter leggere gli autori latini, e gliene ho dato lezioni per quasi un anno… Nessuno avrebbe creduto che avesse un futuro. Poverino, era ambizioso,  e pieno di strane espressioni artificiose. Ma intelligente – molto intelligente.”
Il rapporto è continuato anche quando il nonno di Schacht ha ripreso gli studi a Copenhagen. Testimoniato da un lungo rapporto epistolare. L’opinione del nonno, per quanto amichevole, non è molto positiva: “Più tardi Amalie Schoppe, la scrittrice di Amburgo, lo prese con sé, per dargli la possibilità di fare veri studi. E studiò, ma non penso che sia mai stato realmente felice. Era una di quelle persone che pensano di poter fare qualsiasi cosa. E non funziona così”. Qualche anno dopo, in memoria del nonno, Schacht pubblicò la sua corrispondenza, da studente laureando in Medicina, con Hebbel, su un’importante rivista, “Magazin für Literature” – le lettere di Hebbel poi sono confluite negli archivi Goethe-Schiller a Weimar.
 
Hemingway – “Un turista che sapeva scrivere”, Alicia Giménez-Bartlett lo fa dire dal suo personaggio Petra Delicado, in “Morti di carta”, 133.
 
Latino – Resterà in uso in Inghilterra e negli Stati Uniti, dopo la ripulsa del papa Francesco? In Inghilterra ha ancora un ruolo nella giurisprudenza, nella terminologia giuridica in genere, dal costituzionale “Habeas corpurs” in qua. Negli Stati Uniti ancora di più, e più frequentemente, nella pratica di polizia e di giustizia: subpoena duces tecum (comunemente subpoena), vi et armis, venire ….
 
Leggi razziali – “Verso agosto, non senza dolori burocratici, mia sorella ottenne di riprendere possesso del nostro alloggio, che era stato posto sotto sequestro durante le leggi razziali” (Primo Levi, “Il mitra sotto il tetto” - in “Racconti e saggi”). Agosto del 1945. Quattro mesi dopo la fine della guerra.
 
Elsa Morante – L’autrice de “La storia”, degli “ultimi”, non amava i poveri. Così la ricorda la nipote Laura, figlia del fratello, su “Robinson”: “Dai modi arroganti, dal disprezzo che nutriva per noi e per mia madre che era tutto il contrario di lei: dolce, paziente, ansiosa. La mamma amava gli ultimi, i perdenti. La zia no, e le si leggeva negli occhi”.
 
Resistenza – Nel racconto “Il mitra sotto il tetto” (ora in “Racconti e saggi”), Primo Levi ha i partigiani che sua sorella, 23 anni, “staffetta partigiana”, doveva ospitare, “feriti o, cosa frequente, «che non ne potevano più»”.
 
Slavo – È poi schiavo, nient’altro. Una verità semplice che Maurizio Maggiani richiama su “Robinson”: “Il destino degli slavi in un nome”. Che nasce attorno al Mille: “Perché gli slavi siano  divenuti gli schiavi va imputato a Ottone I detto il Grande”, Ottone di Sassonia – “sconfitti gli Slavi li tradusse in  massa nel suo regno perché fungessero da evoluti animali da lavoro a dispos izione del cronico deficit germanico di forza lavoro”. Cronico no, ma in certi frangenti sì.
Per i Romani c’era il servus, dice Maggiani, non lo sciavo. Ma un servo che modernamente si dice schiavo, comprato e venduto, come merce. La condizione servile degli slavi sconfitti era la novità, non la servitù, senza diritti.
In realtà la cosa è più complessa, anche per quanto concerne gli slavi, e anteriore e posteriore a Ottone I, come la ricostruiva un decennio fa il Matteo Zola, collaboratore dell’Ispi e dell’Osservatorio Balcani e Caucaso, su “Slavia”, una rubrica del suo quotidiano online estjournal.net: “Dopo un’espansione che li portò, tra il quinto e l’ottavo secolo, in Asia minore e in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico, gli slavi subirono la risposta dei franchi, dei tedeschi, dei danesi e dei bizantini che – dopo averne subito il «maremoto» – riguadagnano al loro controllo  ampie fette di territori slavizzati e ne assoggettano la popolazione ancora in larghissima parte pagana. In particolare fu notevole l’asservimento degli slavi settentrionali i quali, occupate le pianure di una Germania abbandonata a seguito delle migrazioni verso sud di longobardi, franchi, goti e vandali, videro il rapido riorganizzarsi dei gruppi rimasti in entità statali via via più organizzate. Bavari, sassoni e poi franchi, fino ai cavalieri teutonici, per circa due secoli gli slavi subirono la “riconquista” germanica. Tale “riconquista” fu così violenta che il poeta ceco Jan Kollar, nel XVIII° secolo, chiamò la Germania «cimitero degli slavi».
“La schiavitù degli slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché tutte le lingue europee, al termine «schiavo». Il vocabolo latino «sclavus» (schiavo, appunto) fece la sua comparsa nel XIII° secolo sostituendo il termine classico «mancipium» (da cui «emancipare», uscire da stato di asservimento). …
“Fu così che il nome di un popolo divenne un termine estensivo per una categoria di persone, tanto che oggi lo ritroviamo nell’italiano, nel francese (esclave), nel catalano (scrau), nel tedesco (sklave), nell’olandese (slaaf) e nell’inglese (calco perfetto, slave).
“Durante l’alto Medioevo carovane di slavi percorrevano l’Europa da una piazza all’altra, Venezia, Ratisbona, Lione erano i principali mercati per questa particolare “merce”. A Verdun si trovava il più importante mercato di eunuchi del continente. La riduzione in schiavitù delle genti slave fu moralmente possibile, ed anzi caldeggiata, proprio in virtù del loro paganesimo”.
 
Simone Weil – Una mistica in attesa – in politica. La ripubblicazione, con notevole cure editoriali, delle lettere di “Attesa di Dio” ne danno conferma palmare. Che però non  viene rilevata dal cardinale Ravasi nella sua pur apologetica recensione sul “Sole 24 Ore Domenica”. Spiega didattico per una colonna chi era e cosa faceva Simone Weil – di cui pure il settimanale si occupa spesso – come se fosse un personaggio emerso dal nulla. Ricordando, nella stessa cornice, per suffragarne l’interesse, che Cristina Campo la teneva in gran conto, e Elsa Morante ne ha fatto un ritrattino in versi (“Sorelluccia inviolata\ ultima colomba dei diluvi\  stroncata bellezza del Cantico dei Cantici\ camuffata in quei tuoi buffi\ occhiali da scolara miope”), e anche Franco Fortini – “come posso attestare direttamene nei miei dialoghi privati avuti con lui”. Nell’altra colonna spiega che le lettere a padre Perrin sono “un esercizio spirituale e mentale di altura”. Benché, fra le tante citazioni, privilegi quella che ne fa una mistica in vigile attesa.


letterautore@antiit.eu

Von der Leyen tornerà a Meloni – la Germania rincorre la destra

Cassese elenca oggi sul “Corriere della sera” ben sette ragioni, tutte di peso di confluenza tra von der Leyen e Meloni. E dunque: perché Meloni le ha votato contro? Con scapito dell’“interesse nazionale italiano”? La coerenza politica (partitica) non convince Cassese.
Lui stesso si obietta: Meloni si fa merito della coerenza politica, o rispetto del voto: ha vinto le Europee da destra, non può sibito dopo andare a votare la candidata della sinistra. E si risponde: ma ora perderà la partita nazionale dopo avere perso quella politica.
Cioè, curiosamente, Cassese, fine giurista, semplifica. L’europa si governa con i Consigli europei, dei capi di governo. E questi vanno a essere a maggioranza conseervatori. Di nmero e, fra un anno, doo il voto in Germania, di peso. Bruxelles è una burocrazia.
Resta sempre vero che quanto ha ottenuto Meloni con la sponda di von der Leyen in questi due anni e mezzo ha del prodigioso: sui bilanci, sui migranti, sul Pnrr, su Ita e altre pratiche, fino all’impegno per la famosa “politica mediterranea europea”. Per sorellanza di genere, viene fatto di pensare, vedendo le due donne così spesso insieme, piccole, esili e bionde. Ma più per una convergenza politica di fondo in questa fase, tanto evidente quanto, stranamente, sottaciuta in Italia.
In realtà “la candidata popolare  tedesca” - dice bene Cassese di von der Leyen - è lì a governare l’Europa, naturalmente, ma più per riguadagnare ai Popolari in Germania (alla Cdu-Csu) il voto tedesco che è slittato all’antieuropeismo per oltre il 20 per cento, dato allarmantissimo (ai voti di estrema destra dell’Afd bisogna sommare quelli dell’anti-europeismo, filorusso e anti-immigrazione, di sinistra, della “garibaldina” Sahra Wagenknecht). La Cdu-Csu governa a Berlino col socialista Scholz, che non puo’ soffrire, anche personalmente, Meloni. Ma da tempo ormai si fa sponda con la presidente del consiglio.

L’unità e la religione della libertà

Celebrandosi per i 165 anni di vita, col solito supplementone portemanteau (porta pubblicità), il giornale (ex) fiorentino esuma una celebrazione del giornale da parte del primo Spadolini, il giovane storico del secondo Ottocento che introdusse nella storiografia l’attenzione all’opinione, ai giornali. Dei primi numeri del quotidiano, fatto usciure a tamburo battente dal plebiscitario a oltranza Bettino Ricasoli in vista dei referendum (Cosimo Ciccuti ricorda “l’ordine di Bettino Ricasoli: «Voglio il giornale domattina»”), Spadolini nota la misura: mai una notizia o un fatto, anche il plebiscito, a più di una colonna. E l’obiettività: uguale rispetto per le opinioni avverse, per quanto debolissime, della “«Toscanina», allargata magari alle altre province dell’Italia centrale”, o dei “fantasmi bonapartisti del Regno d’Etruria” – per non dire del residuo partito filofrancese, pur dopo l’armistizio a tradimento di Villafranca.
L’“obiettività”, che naufragherà negli anni della Repubblica nei sarcasmi di Umberto Eco, Spadolini trova realizzata dal “Barone di ferro” Bettino Ricasoli, “fedele ad una linea di liberalismo consapevole e profondo – vero abito mentale, vera religione dell’anima”.  
“La Nazione”, 165 anni insieme. 1859-2024, pp. 128, gratuito col giornale

giovedì 18 luglio 2024

L’Europa di Monti, uno sfacelo

Non fosse firmato Mario Monti, europeista se ce ne sono, il fondo del “Corriere della sera” ieri, “Un ruolo per l’Italia”, si direbbe opera di Salvini, il massimo anti-europeista : un’Europa, la sua, o è franco-tedesca o non è. E non per potenza o intelligenza: per non si sa che cosa. Anche quando la leadership fosse “fortemente sbagliata, come fu il caso durante la prima fase della crisi finanziaria dell’eurozona”.
A questo punto Monti ha aperto un abisso doppio. La gestione franco-tedesca, Sarkozy-Merkel, della crisi post-2008 non è stata “fortemente sbagliata” nella prima fase della crisi, lo è stata sempre, e ha cancellato l’Europa dal rango delle grandi potenze economiche mondiali. Non solo, e non si sa se è peggio: ha ridotto l’Europa a un cumulo di macerie politiche, proteggendosi con una serie di ascari, dall’Olanda all’Austria, i “frugali” – mentre il mondo pompava le economie, i “frugali” chiudevano il rubinetto. Nel mentre, mirabile impresa, che aumentavano il loro e l’altrui  debito, quello della Francia soprattutto, ma anche della Germania. La “frugalità” è stato un capestro politico, del tipo mercantilistico, mors tua vita mea.
Monti distingue una prima da una seconda fase, intendendo per questa seconda fase quando al governo c’era lui e ci ha portati al tasso di massima fiscalità, diretta e indiretta (patrimoniale), nel mondo.
Ora l’Europa è quella che lui stesso dice, pur deprecandola. Non ce n’è un’altra. Non un’Europa federalista. E  nemmeno intelligente. Solo un’accozzaglia di debolezze, istituzionali e politiche. Oggi nemmeno più franco–tedesca ma, come lo stesso Monti dice, vuota: tra “la debolezza economica e identitaria della  Germania”, e “il totale stordimento politico” della Francia” - stordimento totale di Macron, e non della Francia di Sarkozy, di cui la Merkel si faceva beffe di notte, al bicchiere della staffa con i collaboratori?
Monti ha i limiti del tecnocrate. Non lo sfiora nemmeno l’evidenza politica, il tentativo post-elezioni europee di isolare l’Italia, perché ha un governo di destra, che ha vinto le elezioni. Che non è nemmeno un tentativo, non è una strategia: è un non saper che fare. Da parte di un governo socialdemocratico in declino netto, e di una destra macroniana comunque sconfitta dalla destra lepenista.
È un dato di fatto: il socialista perdente tedesco si fa forza col socialista spagnolo, e il Macron antirusso con l’antirusso polacco. Meloni (l’Italia) sta a destra, in uno schieramento all’offensiva in tutta Europa. I leader tedesco e francese si comportano di conseguenza: il socialista Scholz non riesce a parlare con Meloni, il liberale (destra) Macron ha provato a utilizzarla contro Le Pen, e poi l’ha rimessa nel fronte ostile.
La piccola ginnastica che Meloni secondo Monti dovrebbe fare per ingraziarsi Scholz e Macron, due leader peraltro mediocri oltre che perdenti, è tutta l’Europa che resta?

Le Grandi D del credito tedesco, defunte

Nelle memorie (non tradotte, benché romanzesche), piene di episodi di grande richiamo, “Confessions of «The Old Wizard»” in inglese, Hjalmar Schacht, il banchiere centrale che salvò la Germania dalla catastrofe monetaria negli anni 1920,  e poi una decade dopo, trova il suo primo lavoro fisso, dopo una lunga esperienza da giornalista economico, “in una delle grandi banche «D»”. Erano la Deutsche Bank, fondata e presieduta da George von Siemens, la Dresdner, la Darmstadt (che poi si fuse con la la Nationalbank prendendo il nome di Danat, per finire nel 1931 nella Dresdner), e la Diskonto.
Schacht veniva da una lunga collaborazione con  von Siemens, che non sapeva nulla di banca (carta e denaro per lui non facevano differenza), fino alla sua morte nell’ottobre 1901. Poi aveva ricevuto inviti da parte del principe Ernst Günther dello Schleswing-Holstein, fratello dell’imperatrice Auguste Viktorikia, quindi cognato dell’imperatore Guglielmo II, come amministratore dei suoi interessi. E da Emil Rathenau, della Aeg, la società elettrica. Scelse la Dresdner come la più vivace intellettualmente.
Tre delle quattro “grandi D” non esistono più. Ultima a scomparire è stata Dresdner, rilevata nel 2002 da Allianz, in forma di salvataggo. Poi incorporata, nel 2009, nella Commerzbank – una fusione per rianimare Commerzbank, che però non ne ha ricavato beneficio. Resiste solo Deutsche. Con la neo-costituita Dz-Bank, la centrale delle banche cooperative (oltre 900).
Oggi Unicredit è la quarta o quinta più grande banca tedesca per valore degli attivi (Bilanzsumme). La seconda di fatto, togliendo dalla classifica Kfw, la Cdp tedesca, e Dz-Bank. Mentre Commerzbank, classificata poco sopra Unicredit, è da un venticinquennio in crisi, secondo tutti i parametri Bce, e alla ricerca di un partner che ne assicuri la sopravvivenza (in questa veste si è parlato di Generali, e poi anche di Unicredit). Alla pari da qualche mese con JpMorgan Europe (specializzata nella collocazione dei più fallimentari fondi d’investimento….), e con la banca regionale del Baden-Württemberg.  

Kafka dall’analista, si processa

Kafka si processa e si condanna.  Sotto ogni aspetto colpevole. Di mancata resistenza – di mancanza di carattere, che culmina nella frase finale, la vera condanna del processato: “E fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”.
Uscito postumo, e letto come una sorta di testamento metafisico, sulla condizione umana, acquista alla rilettura un senso di saputo, di già visto, per chi dell’autore ha esplorato qualche aspetto personale, anche solo le corrispondenze pubblicate. Una specie di autoritratto in forma di autodiagnosi, come dall’analista.
Il personaggio, per quanto anonimo, è ben delineato. Ritratto sull’autore, su quello che di lui si è poi saputo, dalle lettere, a cominciare dal padre, e dai rapporti di lavoro, con le fidanzate, con gli amici. La colpa è ignota al “tribunale” stesso. Ma non all’autore. Il processato non è coerente, è anzi instabile, è debole, perso “in gelosie meschine, in falsi amori, in timidezze malate, in adempimenti statici e ossessivi” (Primo Levi, che ne è anche il traduttore). Che non era (probabilmente) Kafka, ma così si vedeva.
Franz Kafka, Il processo, Einaudi, pp. 268 € 10

mercoledì 17 luglio 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (565)

Giuseppe Leuzzi


Se il problema del Sud è l’Italia
La Repubblica di Venezia aveva ben un millennio di vita, prospera, estesa a buona parte delle Venezie di oggi, e della Lombardia. E quando ultimamente le terre veneziane di terraferma, come Milano e la Lombardia tutta, erano passate a Vienna, si mantenevano ugualmente prospere, e ben governate. Città-Stato marinare avevano prosperato a lungo nel Mediterraneo, Pisa, Genova, anche Amalfi. Città-Stato repubblicane avevano prosperato ovunque, attorno all’Appennino tosco-emiliano. Per poi trasformarsi in principati, un po’ dispotici ma ben locali, attenti cioè, e coltivati, in senso proprio, della vita nei campi, e figurato, della vita intellettuale e artistica. ll Piemonte bene o male si governava con una dinastia quasi millenaria. La signoria in Toscana faceva la storia d’Italia e di quella che sarà la cultura “occidentale”. Bologna e Ancona si governavano bene anche sotto il papa. E Roma, naturamente, che si privilegiava di tante ricche rendite ecclesiastiche – metteva in qualche modo a frutto le rendite.
L’unità si è fatta per empito rivoluzionario. Non si pone bene mente a questo: l’impresa di Garibaldi ha cancellato una differenza storica. Che un economista dello sviluppo direbbe abissale. Non di lingua e nemmeno di cultura, patrioti meridionali si trovavano a loro agio a Torino, o a Firenze. E a Torino e Firenze nessuno pensava a loro in termini di diversi. Ma il Sud era diverso, per storia  e per cultura. Materiale: per assetti sociali e produttivi. Per assetti istituzionali, con una corona che dopo cinque secoli di dominio, a partire dagli aragonesi, sapeva poco o nulla del suo regno, e non se ne curava.
Questa è la verità dell’unità: uno sviluppo rivoluzionario, volontaristico, che colmava una differenza abissale fra il Centro-Nord e il Sud – compresa la Sicilia, che, seppure autonoma di fatto da Napoli, si adagiava su una nobiltà putrefatta.
La differenza è rimasta, sotto forma di questione meridionale. Per la quale nessuna rivoluzione è stata risolutiva – ma di fatto nessuna rivoluzione è stata mai messa in atto, e nemmeno prospettata.  L’ultima “riforma”, la più generosa, la Cassa per il Mezzogiorno, è stata di fatto concepita (sic!) e realizzata più per la grande impresa (che in Italia, a parte le allora Montecatini e Fiat, era pubblica) che per i bisogni di integrazione del Mezzogiorno nel processo di sviluppo - nella storia dell’Italia, del maincurrent.
La Lega è intervenuta per risabilire le distanze – la Lega Lombardo-Veneta, è utile ricordarlo: ognuno per sé. Arguendo anche: ognuno per sé è meglio per tutti. L’unità “patriottica” – rivoluzionaria – si è, si era già, di fatto frantumata nelle piccole patrie. Con l’autonomia differenziata siamo al culmine di un processo di disintegrazione già lungo – a opera della destra politica come della sinistra, è bene essere precisi (le autonomie differenziate germinano dalla riforma del 2001 del titolo V della costituzione). Una disintegrazione che può andare anche, in ipotesi, a beneficio del Sud, se non altro perché lo mette di fronte a una mangiatoia vuota – lo era anche prima, poca roba, ora lo è per legge.
Né è illegittima l’osservazione che l’autonomia differenziata era già il privilegio di due regioni meridionali, la Sicilia e la Sardegna, dotata anche di fondi statali speciali. Ma non si può non rilevare che tutto questo avviene a compimento di quarant’anni di disprezzo non celato lombardo-veneto per l’Italia al di sotto dell’Appennino, come diceva il rappresentante più nobile del leghismo, il professor Miglio - il leghismo salviniano del 2018-2029, che furbescamente capitalizzò il vuoto di offerta politica agli italiani che da decenni disperatamente votano a destra, specie al Sud, non fa testo.
La realtà è questa: che l’autonomia differenziata può agire bene oppure male – non ci sono leggi migliori, in essere o in prospettiva. Ma è proposta da un partito (mediocremente) razzista. Nelle persone di un dentista milanese senza altra storia, che faceva il signorotto nella disprezzata Roma, con villino a due piani e giardino, grazie alle vituperate prebende parlamentari. E di un pr di discoteche.
È un’Italia ora un po’ povera, là dove era ricca. Nonché controrivoluzionaria - tignosa, rancorosa, là dove era entusiasta e coinvolgente. Era il tema di “Fuori l’Italia dal Sud” trent’anni fa, che pure ebbe un (modesto) successo di stima, e la cosa non è migliorata.
 
Dietro “Rosarno”
Dopo l’avventurata scoperta - su denuncia di parte e non degli Uffici del lavoro, su denuncia cioè di ditte concorrenti - del lavoro nero a ritmi schiavistici di immigrati non residenti e anzi “non esistenti” nella confezione dell’alta sartoria attorno a Milano, si “scopre” lavoro nero un po’ dappertutto ora al Nord. “la Repubblica” si scandalizza per “gli schiavi del Barolo pagati 5 euro l’ora” - con “bastonate se protestiamo” - alloggiati “a due passi dalla stazione  di Alba”, dove “uno stimato medico affitta un tugurio per 500 euro a brandina a 17 lavoratori stagionali”. A Verona si scoprono per caso 33 braccianti “ridotti in schiavitù”. A Sabaudia “gli schiavi sikh a due passi dal mare dei vip”, a 4 euro l’ora – siamo negli ambienti dove Satman Singh è morto un mese fa per un braccio mozzato nella fienagione, buttato in una cassetta della verdura, mentre veniva lasciato a dissanguarsi per strada. I caporali sikh si fano pagare 17 mila euro per un ingresso “clandestino”, che sono poi scontati sulla paghetta giornaliera. Eccetera.
Le scoperte si succedono. Senza dire che sono le ultime di una serie, ma non importa: il fatto è diffuso, e noto. Compreso il caporalato, locale e immigrato, anch’esso. Cosa cambia? Che il lavoro nero non è “Rosarno”, catapecchie comprese.
Si dice, si diceva, “Rosarno” per coprire il resto? Di fatto è così. Rosarno si è distinta perché gli “stagionali” erano sindacalizzati. E vittime, nel caso, di una coltura in disarmo, se non moribonda, dopo l’abbattimento di tre quarti degli agrumeti per il porto di Gioia Tauro e la contigua area di servizio, senza più quindi i collaterali per finanziare il rinnovo e il cambiamento delle specialità, in un mercato che premiava le produzioni anticipate e quelle ritardate - il che significa il rinnovo delle piantagioni, con cinque-sei anni di mancata produzione.
Il Sud è tropo spesso il cache-sex  di colpe e malaffare nazionali – mi assolvo col Sud è la chiave del perdutate successo leghista nel Veneto e in mezza Lombardia.   
 
Sudismi\sadismi: l’odio-di-sé meridionale
È mancata quest’anno la solita pagina del “Corriere della sera” contro i 100 alla maturità in Calabria. A firma Gian Antonio Stella.
Il motivo è che la maturità quest’anno è andata male nelle terre di Stella – e non a opera di commissari meridionali (le commissioni d’esame sono ora studiate per evitare i meridionali al Nord)? A Pordenone e dintorni, per esempio, il 77 per cento dei maturandi dei licei scientifici sono stati bocciati a Matematica, allo scritto obbligatorio. Ma no, non sarà questo - nella provincia di Udine i risultati magari saranno stati migliori (il “Corriere della sera a ogni buon conto ha evitato di dare la curiosa notizia di Pordenone e provincia). È che Stella scrive, solitamente contro Calabria e Sicilia, strana specializzazione, su input di informatori locali. Giornalisti o aspiranti. I quali sanno che Stella ne farà scempio. Lo fanno per odio-di-sé – solo in Calabria non si sa la matematica (ma no, vincono tutti i concorsi internazionali), o in Sicilia? Per “una buona parola”, la famosa raccomandazione. Si è rotto il relais?
 
L’uninominale di Sgarbi
L’uninominale secco, inglese, si fa finta che sia la democrazia integrale. Non va quindi bene con la concezione italiana della politica, trasformista (libertà di coscienza). Si è tentato di introdurre  l’uninominale ma è stato subito sabotato.
Anche perché è stato un uninominale per modo di dire. Non stagionato – un sistema elettorale ha bisogno di rodaggio. Con candidature non locali, legate alla circoscrizione (constituency, il termine inglese è più appropriato). Con percentuali di recupero raccogliticce, in sede regionale e nazionale. Non un uninominale secco. E senza un rapporto duraturo tra eletto e territorio, che invece è fertile.
E tuttavia è un sistema con molte virtù. Il deputato assenteista per antonomasia, Vittorio Sgarbi, eletto alla Camera nel collegio uninominale della Locride in Calabria nel 1994, con i voti che gli aveva procurato Franco Corbelli, di Gustizia Giusta, ci andava di rado, e per visite brevi, ma ha lasciato impronte durature. A Gerace, a Ardore, a Serra San Bruno. Perfino fuori della circoscrizione, a Mileto. Quando ci è tornato per la Europee dappertutto è stato salutato come se fosse di casa – non è poi andato a Strasburgo, ma per alchimie interne al suo ultimo partito, Fratelli d’Italia.
 
L’antimafia vira a destra
La Procura di Caltanissetta continua le indagini sul dossier “Mafia e appalti”, avviato attorno al 1990 da Giovanni Falcone, e incrimina uno dei più giovani sostituti procuratori (allora, oggi in pensione), Gioacchino Natoli. In concorso con un capitano, allora, della Guardia di Finanza, Stefano Screpanti, e con l’allora Procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco.
Giammanco, ora morto, è quasi universalmente ritenuto una sorta di capomafia a palazzo di Giustizia. Cosa non vera – non possibile – ma così è. Natoli è invece difeso dai falconiani, in particolare dalla sorella del magistrato, Maria – “ne conosco la rettitudine e l’amore per le istituzioni”.
La Procura di Caltanissetta non ha documenti né pentiti a sostegno. Si basa sull’inchiesta avviata nel 1991 dal procuratore di Massa Carrara Augusto Lama (poi attivo a Massa come giudice tributario e del lavoro, da qualche mese in pensione), con l’ausilio del maresciallo della Finanza Piero Franco Angeloni (che l’esperienza poi immortalò nel libro “Gli anni bui della Repubblica”, contro Claudio Martelli ministro della Giustizia), sulle infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo acquisite allora dalla Ferruzzi-Gardini. Inchiesta a cui Natoli a Palermo non avrebbe dato il dovuto seguito.
Natoli non ha risposto alle contestazioni della Procura di Caltanissetta, confluite a Carrara in massa – si è riservato di leggere gli atti d’accusa. Ma subito la sinistra lo ha difeso – Pd e 5 Stelle in Commissione antimafia. I parlamentari del centrodestra si attengono alla “ricerca legittima della verità”.
La giustizia, come si sa, è apolitica.


leuzzi@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo – democratiche (283)

In vista delle elezioni presidenziali a novembre solo il 19 per cento degli americani ritiene che la democrazia negli Stati Uniti è un buon esempio, da seguire, per altri paesi.
Il parere più diffuso, del 72 per cento degli americani, è che la democrazia negli Stati era un buon esempio ma non lo è più. Il restante 8 per cento è del parere che “non è mai stata” un buon esempio per altri paesi.
Nel resto del mondo, solo il 40 per cento, di una “mediana” di adulti in 34 altri paesi, ritiene che la democrazia americana è stata, e non è più, un buon esempio. Un 21 per cento la ritene un esempio tuttora valido. Il restante 22 per cento è contro – non è mai stata un buon esempio.
(Pew Research Center, dati elaborati su sondaggi realizzati ad aprile)

Cronache dell’altro mondo – saudite (282)

“Se si nazionalizzano gli investimenti finanziari e monetari russi in Occidente l’Arabia Saudita liquiderà i suoi investimenti in titoli di Stato occidentali”. L’avvertimento è venuto, informalmente, dopo la decisione, che sarebbe stata presa al vertice del G 7 in Puglia, sulla nazionalizzazione degli asset russi. Da emissari del principe ereditario saudita Mohammed ben Salman, il re de facto del reame.
Il principe ereditario saudita non è il solo. Gli Emirati (Abu Dhabi, Dubai) e il Qatar sono in allarme, tanto più per avere investimenti industriali e immobiliari in Europa, e non solo finanziari.
Il G 7 non è stato seguito da alcun atto specifico. Anche perché la questione è di diritto internazionale, sarebbe senza precedenti, e riguarda cifre enormi - gli attivi della sola Banca centrale russa, e solo in Europa, si aggirano sui 200 miliardi. Ma il rapporto americano con l’Arabia Saudita è comunque da alcuni mesi deteriorato. Una novità.
Il regno fu creato nel primo Novecento dalla dinastia saudita con ìl sostegno americano, contro l’influenza britannica preponderante in in Iraq e Emirati (Kuwait, Abu Dhabi, Qatar, etc.): posta il petrolio. I principati, arricchiti dallo shock petrolifero del 1973, hanno poi seguito politiche rigorosamente filo-occidentali. Ma da qualche anno non più. Il Qatar è intervenuto in Libia d’accordo con la Russia. L’Arabia Saudita segue da qualche tempo una politica filorussa sul petrolio, filocinese sul commercio estero, e di buon vicinato perfino con l’Iran, dopo la guerra by proxy nello Yemen.
Gli Stati Uniti hanno mantenuto un rapporto privilegiato con l’Arabia Saudita, fino alll’11 settembre 2001 incluso – senza far pesare le evidenti connessioni saudite degli attentatori, nazionalità, culto, visti, appoggi negli Usa. È nella penisola arabica che Trump ha avviato, e poi in molti casi portato a effetto, la politica di pacificazione dei potentati arabi con Israele – gli Accordi di Abramo.
Col nuovo corso saudita, con l’accesso al trono della seconda generazione dei principi, il legame già strettissimo si è allentato.

Del mago sociale, o la società dei consumi

“Colui che deve legare deve possedere una teoria universale delle cose, per essere in condizione d’incatenare l’uomo, che di tutte le cose è, per così dire, l’epilogo”. Un disegno del tardo Bruno, probabilmente degli anni dei lunghi processi prima della condanna, sul controllo dell’opinione pubblica o dei mercati, con terminologia odierna, che avrebbe potuto essere il pendant  di Machiavelli e del “Principe” per la configurazione e il controllo dei rapporti sociali, attraverso la psicologia, il condizionamento individuale.
“Le forze che legano in prospettiva universale sono il Dio, il Demone, l’Animo, l’Essere animato, la Natura, la Sorte e Fortuna, infine il Fato. Questo grande reticolo di vincoli, che copre l’universo e non può essere designato con unica denominazione, non lega sotto specie e senso di corpo: il corpo infatti non percuote il senso da sé, ma attraverso un genere di energia che nel corpo risiede e dal corpo procede. E questa energia che metaforicamente si designa come la mano che lega: e questa che, con varia preparazione, si piega ed orienta a gettare i suoi lacci”.
Un abbozzo di trattato – un testo di cui ci sono pervenute le prime 23 pagine (si fermano al § XXIII).
“La grazia dei vincoli”, così il trattatello è presentato in una riedizione moscovita, una riscoperta del 2019. Con l’ipotesi che sarebbe stata la vera causa della condanna di Bruno, non le tante addotte nel confuso processo che precedette la condanna – processo di cui in effetti mancano molti atti, come Luigi Firpo e gli atri “bruniani” hano dovuto constatare sconcertati. Un “mago sociale”, secondo questa nuova vulgata, Bruno ipotizza che conquisti l’umanità attraverso il “legamento”, cioè soddisfacendo i desideri. Il collegamento viene a questo punto ovvio con l’odierna società dei consumi, dei desideri coltivati o della persuasione occulta, che non è in effetti lontana dal timore-desiderio di Bruno. Come un amante opera una rete magica di gesti, parole, favori, doni, cosi il “mago sociale” può gettare la sua rete per conquistare la “preda umana” attraverso il “legamento”, cioè soddisfacendo  i suoi desideri – quelli che lui controlla, se non li ha creati.
Giordano Bruno, De vinculis in genere, free online

martedì 16 luglio 2024

Cronache dell’altro mondo – presidenziali (281)

La diffidenza sulla ricandidatura di Biden si collega nella memoria alla ricandidatura di  F.D.Roosevelt a fine 1944, quando le sue condizioni di salute erano peggiorate visibilmente – morirà alcune settimane dopo il voto.
Nessuno contestò all’epoca la quarta candidatura di F.D.Roosevelt, che resta nella memoria, anche degli storici, come il miglior presidente, con Lincoln (e con Washington). Ma era già criticato per  gli esiti della conferenza di Yalta, in Russia, dove furono decisi gli assetti postbellici dell’Europa, Germania e Italia incluse. E dove – si disse, ed era vero – il presidente aveva capitolato alla pretesa di Stalin di prendersi l’Est Europa.
Dubbi dello stesso tipo, non detti ma noti, circolano ora sugli impegni di Biden in Ucraina. Un paese che aveva favorito da vice-presidente. In una guera che l’America fino ad ora ha considerato minore e remota, ma che ora teme.
I dubbi sono connessi ai poteri che il presidente americano si è appropriato come comandante-in-capo militare, nel corso del Novecento, a partire dalla guerra alla Spagna per Cuba e le Filippine. Il presidente americano passa nell’opinione mondiale come un autocrate. Mentre i costituzionalisti ci spiegano essere poco più di un presidente del consiglio. Forse un primo ministro, ma senza il potere di sciogliere il Parlamento - e senza una maggioranza imbattibile in Parlamento con appena un terzo del voto elettorale (anzi sottoposto a maggioranze parlamentari mobili, è il Congresso che ha poteri pieni). Il suo potere deriva da quello che l’economista e diplomatico Galbraith, un Democratico, famosamente chiamò il complesso militare-industriale. La nomina governativa di Procuratori Speciali, per inciso, per casi giudiziari specifici, contestata ora dalla giudice della Florida che si occupa dei documenti riservati abbandonati da Trump in cantina, è stata recentemente condannata dalla Corte Suprema come autocratica.

Cronache dell’altro mondo – trumpiane ter (giustiziarie septies) (280)

Dunque, una giudice ha deciso all’indomani dell’attentato che almeno uno degli ottanta o cento processi che attendono Trump, non si farà: quello dei documenti classificati trovati incustoditi in una cantina. Per il motivo che la nomina del Procuratore Speciale Jack Smith, un Democratico, scelto dal ministro Democratico della Giustizia, è incostituzionale. La giudice, Aileen Cannon, di nascita colombiana, è stata nomnata cinque anni fa da Trump, ed è Repubblicana dichiarata. Ma è stata selezionata per il caso da un computer, in una rosa di cinque nomi.
Per giovedì 11, due giorni prima dell’attentato, il giudice Merchan a New York aveva promesso una pena esemplare per Trump, da lui fatto condannare due mesi fa per 34 capi d’accusa, ciascuno passibile fino a 4 anni di prigione. Se ne è dimenticato, evidentemente, oppure la Casa Bianca gli ha imposto di dimenticarsene – in America è possibile.
La giustizia americana è politica: procuratori e giudici sono eletti su linee di partito, e di nomina politica. Questo sito ne ha segnalato alcune peculiarità nella rubrica:
http://www.antiit.com/2024/01/cronache-dellaltro-mondo-giustiziarie.html
http://www.antiit.com/2024/01/cronache-dellaltro-mondo-giustiziarie_29.html
http://www.antiit.com/2024/02/cronache-dellaltro-mondo-giustiziarie.html
http://www.antiit.com/2024/03/cronache-dellaltro-mondo-giustiziarie.html
http://www.antiit.com/2024/03/cronache-dellaltro-mondo-giustiziarie_27.html
http://www.antiit.com/2024/04/cronache-dellaltro-mondo-giustiziarie.html
Il Gran Giurì è un nome importante per una pratica giudiziaria da commedia dell’arte – è in uso solo negli Stati Uniti, e in Liberia. È una compagnia da “amici miei” che decide se un querelante ha motivo di querelarsi. Senza sapere di diritto. Ed è pagata per questo. Un’occupazione, per quanto modesta, per chi non ha nulla da fare. Sono giurie numerose, fino a 23 membri, nominati per 18-24 mesi, a 50 dollari al giorno (40 a New York), 60 dopo i primi 45 giorni.
Il giudice Merchan del caso della pornostar Stormy Daniels che ha ricattato Trump, anche lui colombiano, che doveva comminargli l’11 luglio i 132 anni di carcere, ha fatto carriera, da procuratore e da giudice, col partito Democratico. Sua figlia lavora per il partito Democratico (è pagata come “consulente”). In giudizio si è difeso non spiegando i suoi rapporti col partito Democratico ma escludendo la questione dal “suo” tribunale, per quanto concerne la sua carriera, la sua famiglia, e il Procuratore del caso (pubblico accusatore) Alvin Bragg – ammirato per questo dal “New York Times”. Un altro tributo alla romanità, in aggiunta al Senato, alle aquile e ai campidogli: “La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto”?

Il giudice che ha assolto Biden per la stessa imputazione di Trump in Florida è quello famoso della improcessabilità del presidente perché ha vuoti di attenzione e di memoria.

Ecobusiness

Scienzainrete posta il quesito: “Capita di venire invitati a eventi pubblici sul clima che hanno sponsor controversi dal punto di vista ambientale”. Se ne sono accorti – l’anti-inquinamento, compreso l’Earth Day, nacque cinquanta e più anni fa, con la presidenza Nixon, come un ramo d’industria dei maggiori inquinatori, petroliferi e chimici. Come gli eventi salute, e perfino congressi medici, sponsorizzati dalle industrie farmaceutiche. E non molti scienziati, anche referee  di pubblicazioni scientifiche, dichiarano collaborazioni passate o presenti con l’industria. L’ecologia è bene un’industria.
Torna d’estate la crociata anti-plastica, bottiglie di plastica – ora contro i tappi di plastica, che si è inventato, mirabile dictu, di tenere avvinghiati alla bottiglietta, per non soffocare le balene…. Ma l’Italia ne è il maggior consumatore al mondo, per 252 litri pro capite in bottigliette e bottiglie nel 2022 – in Gran Bretagna, che pure non ha tante montagne e tante sorgenti di acqua sorgiva come l’Italia, e ha un reddito medio superiore, il consumo di acqua “minerale” è cinque volte inferiore. L’Italia è anche, secondo tutti gli studi di settore, il paese con la migliore acqua potabile.

Ironia (irlandese) sugli irlandesi

Una parodia. Ma fondata - “politicamente scorretta”. In Irlanda, nel 1916, durante l’insurrezione anti-britannica, i nazionalisti cattolici prendono in ostaggio una bella inglese. Che per salvarsi insidierà la virtù (cattolica?) dei ribelli.
I valenti guerriglieri rapiscono, alla Fantozzi, l’impiegata delle Poste Gertie. Che però è bellissima. E, tenuta prigioniera in isolamento, tanto almanacca (flusso di coscienza), che trova la chiave per sopravvivere:  portare alla débauche uno dopo l’altro i carcereri, in attesa dell’arrivano i nostri.
Riproposto come “lo sberleffo di Queneau a Joyce”, è uno dei due testi “leggeri” che Queneau pubblicò a firma “Sally Mara”, negli anni 1947-1948. Un divertimento – ma la vena buffonesca era già del primissimo Queneau, vicino a Jarry. Con tutta l’Irlanda possibile, di maniera, questo è vero. Compresa naturalmente l’ironia - non si riflette molto a questo aspetto irlandese, quando si parla di scrittori irlandesi. Con il flusso di coscienza alla Molly Bloom, quindi Joyce, con Yeats venerabile, e con l’allora popolare Flann O’Brian, “At
  Swim-Two Birds” (“Una pinta d’inchiostro irlandese”). Se ne è fatto un film nel 1971, definito franco-italiano dalla produzione ma di fatto tutto francese, sceneggiatore lo stesso Queneau, non divertente. 
Raymond Queneau, Troppo buono con le donne
, Einaudi, pp. 182 € 18

lunedì 15 luglio 2024

Cronache dell’altro mondo – trumpiane bis (279)

Non sono  belle le sostenitrici di Trump in preghiera davanti alla sua magione in Florida, dove riceve monarchi e il presidente cinese. In un’area di superricchi hanno anche un’paria lumpen. Sono pure nere.
Che America ci raccontano i tanti inviati? Tutti peraltro monocordi, fatti, sembrano, con lo stampino? Vedono qualcosa o devono dirci qualcosa? Sono messaggeri?
I messaggeri avevan un ruolo nobile, nell’Olimpo come nei Vangeli. Forse non c’è più il mito che li ispira. Ma avranno pure gli occhi, oppre no? Scrivono alla cieca, c’è una tasierra che scrive per loro, basta azionarla?

Cronache dell’altro mondo – trumpiane (278)

Trump non è simpatico. Ma non si può non ricordare che l’America per bene gioiva al processo in cui una prostituta, che lo ha ricattato nella precedente elezione e lo rifà in questo, è osannata. A New York, la città del cuore. Da un gran giurì, da un giudice federale, dalla stampa seria. Che una giornalista di pochi e oscuri articoli, sostenendo di essere stata violentata da Trump nel 1996, quando aveva 56 anni, nella cabina delle prove di un negozio di abbigliamento, ha ottenuto cinque anni fa 5 milioni di risarcimento, sempre a New York, sempre da una giuria popolare e un giudice Democratico, e cinque mesi fa 83,3 milioni (ne aveva chiesti 24) per diffamazione, perché Trump aveva negato il fatto. E che l’incuria di documenti riservati è un reato per lui ma non per Biden. Alcune delle migliaia di pagine riservate che tempestano ogni giorno il presidente americano, ritrovate, sia nel suo caso che in quello di Biden, abbandonate, in cantine, in garage.
Democrazia, de-che?

Il furto del rispamio

“Risparmio, solo il 16 per cento resta in Italia”.  Titolo a sorpresa del “Sole 24 Ore”, a seguito di un’inchiesta, molto dettagliata, di  Gianfranco Ursino.: “Su 546 mliardi affidati a gestori dalle femiglie solo 87,5 sono in in Btp o in azioni tricolori”. E: “Le risorse che vanno fuori dal notro Paese rientrano solo in quantità minima”.
Spaventoso.  Anche perché è una manomissione. Di collocatori tanto rinomati quanto ladri – non condannati, nemmeno indagati, ma all’evidenza. Con gestioni sempre in perdita. Perfino dei titoli obbligazionari – ma come è possibile? Anche emessi da banche primarie, Goldman Sachs, JPMorgan, Morgan Stanley, IMI. Soprattutto dello strumento più propagandato in Italia e quindi diffuso, i fondi d’investimento. Tutti, con una o due eccezioni, momentanee, sempre in perdita.
Un risparmio cioè prigioniero. E depauperato. Senza mai una nota di biasimo. Non degli specialisti, che comunque ci guadagnano. Non delle banche, contente dei pochi euro che guadagnano vendendo bidoni, e dalla custodia titoli.  

Il mercato dell’immigrazione

Sarà vero che i caporali sikh dell’agro pontino pretendono 17 mila euro per procurare un posto di lavoro,  a 4 euro l’ora, e si pagano trattenendo la (miserabile) paga?
Molta informazione sull’immigrazione è falsata. Dalla disattenzione. E dal modo d’essere e di esprimersi sotto il Sahara, per cui tutto è possibile, e il contrario di tutto – uno storytelling condiviso con la cultura indiana, compartecipativa pur tra le sue differenti articolazioni, religiose e etniche, a cui riesce ostico il principio baconiano che una cosa è oppure non è, ma non può essere una cosa e l’altra, il suo opposto.
Però i fatti ci sono. E il primo, mai spiegato, è la prostituzione  nigeriana in Italia, che prospera da cinquant’anni. Di un paese cioè non limitrofo, né raggiungibile in barchetta. Ma dove si arriva in aereo, e quindi con visto d’ingresso.
Quarant’anni fa, o cinquanta, quando le prostitute nigeriane viaggiavano a una certa ora  di sera in vagone riservato da Livorno, dove abitavano, in Versilia, dove lavoravano, ognuna con la sua postazione precisa. Oppure, trent’anni fa, gestite a Castelporziano, davanti alla tenuta presidenziale, da rigide maman. Nel lavoro quotidiano la mattina (cominciavano la mattina presto), come nelle feste, con estetista e abito di rito.

Il silenzio, grande comunicatore

“Dire e non dire, tacere e ascoltare, per conoscere sé e gli altri” è il tema – “potere” come facoltà personale, di autogestione, non di governo degli altri. Da applicare soprattutto alla comunicazione. Che non deve essere frastuono, non necessariamente, o invasione di campo. L’esempio per eccellenza? “È entrato nella storia della pubblicità l’headline «Silenzio, parla Agnesi»”, il pastificio: “Un’operazione retorica magistrale”. Lo stesso di Mondadori Multicenter. O di Ariston elettrodomestici bianchi.
Di questa e altre pratiche tratta la pubblicazione. Che “Il Sole” manda in edicola sull’onda dell’inaspettato successo della traccia del silenzio alla prova scritta dell’esame di maturità quest’anno (uno su otto l’ha scelta). E per la domenica che ha chiuso la sessione d’esame propone una parte del libro da cui la traccia è stata tratta. Ma c’è anche un po’ di più, non solo la servitù della pubblicità (comunicazione commerciale) invasiva. La difesa è anzi esplicita, dall’assalto del “mondo globale in perenne comunicazione”, per esempio nel “viaggio su un treno ad alta velocità”, senza riparo come si sa - un assalto da cui Bocelli, il grande tenore, si deve anche lui difendere, se chiama le celebrazioni dei suoi trenta anni di attività Teatro del Silenzio.
Uno dei saggi è “a che cosa serve il silenzio”. Ma di più, attraverso tutte le applicazioni cui Polla Mattiot si dedica, il silenzio si presenta come una forma flessibile e insieme significante di comunicazione. “Silenzio come sonorità emotiva, spazio per una comunicazione intuitiva, quasi proverbiale, comune alla più sofisticata tecnica persuasiva (il dongiovannismo) come al primo, genuino, innamoramento”. Al rapporto personale, amoroso, amichevole, familiare, come nella comunicazione di massa.
Polla Mattiot si può dire “la” specialista del silenzio. Forse non alle vette di Sollima, il musicista, ma di programma e con numerose pubblicazioni di approfondimento – di divulgazione                    
Nicoletta Polla Mattiot, Il potere del Silenzio, Il Sole 24 Ore, pp. 71 € 1

domenica 14 luglio 2024

La scoperta della destra

Francesco Merlo fa nella posta di “Repubblica” un elenco corposo, in poche righe, delle forze politiche di destra, qualcuna anche al govero, tutte ancora democratiche, ma minacciose di un certo modo di essere dell’Occidente: “Il capoccia è Trump. Poi c’è il mattoide argentino Milei. Un vero nazi, ma nascosto, è l’austriaco Herbert Kield. Incendiario è l’olandese Geert Wilders. Marine Le Pen è la patriota putiniana francese. In Germania l’ariana Alice Weidel, populista e razzista, sembra uscita dal Tingeltangel di Weimar. Una serpe in seno all’Europa è l’autocrate ungherese Orbàn. Inquietante  rimane l’ex premier polacco Jaroslaw Kaczynski. Tra il folklore e la violenza si muove il neofranchista spagnolo di Vox Santiago Abascal. Ci sono ancora il nazionalista svedese Jimmie Åkesson, erede dei neonazisti e capo del secondo partito, che appoggia il governo senza farne parte, e Andrej Babis, il “Babisconi” miliardario della Repubblica ceca”.
Confrontata con gli anni 1930, quando di destra erano una ventina di governi, non di partiti, solo in Europa, questa è una destra ancora contenuta. Ma anche oggi, come allora, le democrazie non si chiedono come mai queste derive – il sottinteso è che gli elettori siano bastardi, una nuisance. Mentre è, sarebbe, semplice: è il fallimento del mercato, col reddito in contrazione (lo ha scoperto perfino la Banca d’Italia), anzi con paghe minime, e non da ora, da trent’anni più o meno. Dopo la liquidazione in massa di un paio di milioni di lavoratori, prepensionati o semplicemente licenziati (questo la Banca d’Italia lo aveva calcolato, nel 1997, ma allora c’era Antonio Fazio, un disturbatore, presto cacciato con disonore).
A lungo questo non si è potuto dire. La sinistra, del mercato vessillifera (liberalizzazioni, privatizzazioni, grandi spazi, grandi interessi), si riteneva al potere per diritto divino, tramite il pianista Borrelli. Ma ora?
I Tingeltangel di Weimar sono, erano, locali bavaresi, un po’ fumosi, che Karl Valentin, cabarettista apprezzato da Brecht come da Hesse, animava – un’esperienza da cui Adelphi ha tratto un volumetto.  
Meloni non è inclusa nella lista: “È tra coloro che sono sospesi”. L’elenco è introdotto da una considerazione: “L’internazionale dell’estrema destra è davvero una combriccola di brutti e cattivi”.

Il piacere cì trova sottosviluppati

Elogio dell’alloro, corona di bellezza. Dell’alloro in tutte le sue ramificazioni, fioriture, sfumature, tonalità, significati. Elogio della bellezza. Dedicato ad Angelica Rasponi Dalle Teste, “dalla sua grata amica V.L.”, 1895-1908, la scrittrice quaranta-cinquantenne.
“Chapters on Art and Life” è il sottotitolo. “La bellezza, se non per un’applicazione metaforica della parola, non è per nulla la stessa cosa della bontà, non più della bellezza come (malgrado la famosa asserzione di Keats) la stessa cosa che la verità. Questi tre obiettivi della ricerca dell’anima hanno nature differenti, leggi differenti, e fondamentalmente origini differenti”.
Un saggio corposo, monotematico, e tuttavia godibile. Per i riferimenti, letterari e storici, classici e rinascimentali, molti italiani. E per l’argomentare, sottile ma non incerto.
Vernon Lee, nota autrice di racconti affascinanti della realtà misteriosa, fu un’italianista dai molti meriti. Ma questo saggio non è stato mai tradotto. Nata a Boulogne-sur-Mer come Violet Paget, prese lo pseudonimo in onore del fratellstro, il poeta Eugene Hamilton-Lee.
Nata nel 1856, risiedette a Roma tra il 1868 e il 1873. Fu quindi per tutta la vita a Firenze, dove strinse rapporti con avri personaggi delle lettere, Nencioni, Pascarella, Placci et al. Tenendo salotto nella  sua casa in campagna, la villa Il Palmerino. Scrisse del Settecento italiano, nel 1880, e nel 1884 dell’influenza dell’Antichità e del Medio Evo sul Rinascimento. Altri saggi nelle raccolte “Limbo and other Essays”, e “The Spirit of Rome, letters from a Diary”.
Curiosa la concezione restrittiva del piacere, più di quella, di quaranta o sessant’anni prima, e di un devoto anche se poco credente, Alessandro Manzoni. “Non è puritanesimo eccessivo dire che mentre in astratto il piacere è un grande, forse il più grande, bene, i nostri piaceri di fatto, in concreto, sono molto spesso male”. Non c’è una regola, o una misura: “Questo significa soltanto che tutti noi siamo ancora creature molto sottosviluppate; la maggioranza, tuttavia, meno sviluppata della minoranza”.
Vernon Lee, Laurus Nobilis, pp. 88 free online