sabato 10 agosto 2024
Il Dragone medaglia d'oro alla gara del pil
La Cina ha una quota maggiore del pil mondiale rispetto agli Stati Uniti, secondo il Fondo Monetario, se la si calcola a parità di potere d’acquisto (un dollaro internazionale ha lo stesso potere d’acquisto che ha un dollaro negli Stati Uniti). Nel 1990 la quota Usa del pil mondiale era del 21,5 per cento, quella cinese di appena il 4. Nel 2022 le quote si sono invertirtìte: quella americana è scesa al 15,6 per cento, quella cinese moltiplicata al 18,5.
Ma la Cina siamo (un po') noi
C’è poco da scherzare con la Cina, come i media italiani
hanno fatto per la visita di Meloni a Xi: la Cina ora siamo noi. Non propriamente,
siamo noi in veste di richiedenti. Meglio ancora: lo è la Germania, cui il
sistema produttivo italiano è legato a filo doppio. Se bisognerà staccarsene,
per le strategie americane, calcola un rapporto della Bundebank, sarà “un colpo
enorme”.
La (ex) banca centrale tedesca conta 756 gruppi tedeschi,
banche e industrie, “particolarmente esposti in Cina”. Le banche hanno crediti
in essere con le imprese tedesche che hanno investito in Cina per 220 miliardi.
Un’esposizione non criticabile, giacché, a fronte di un 6 per cento quale quota
cinese degli investimenti esteri tedeschi, dalla Cina si ricava il 15 per cento
degli utili complessivi. Tanta redditività è ora un rischio.
Il rapporto Bundesbank spiega anche, citando i dati Bri,
della banca dei regolamenti internazionali di Basilea, che la Gran Bretagna è
ancora più esposta, con 238 miliardi solo a Hong Kong.
La riscoperta di una grande operista italiana, a New York
Una riscoperta, in occasione della ripresa
dell’opera “Anna di Asburgo”, da parte del Teatro Nuovo (una compagnia
operistica americana creata cinque anni fa da Will Crutchfield), rappresentata
a New York all’Istituto Italiano d
Cultura, della compositrice Carolina Uccelli. Dopo 189 anni. L’opera era andata
in scena al Teatro del Fondo di Napoli (oggi Mercadante) nell’autunno del 1835,
quando la compositrice aveva 25 anni (ma altre cronache dicono nel 1832, appena
l’opera era stata scritta, quindi a 22 annii). Poi ripresa poco, “una mezza
dozzina di volte” (Crutchfield).
Una compositrice e un’opera che il critico musicale
della rivista trova “notevolmente inventiva”. Il personaggio di Anna dà “l’impressione
di una mente musicale estesa, che possiede coscienza storica e intelligenza innovativa
in eguale misura”. Un’opera e una compositrice lodata da Rossini – che nel 1830
aveva assistito al debutto a Firenze della compistirce, allora ventenne, al teatro
della Pergola, con l’opera “Saul”.
Alex Ross, Two Centuries later, a Female Composer
is rediscovered, “The New Yorker” 9 agosto 2024
venerdì 9 agosto 2024
Se scarseggia il lavoro
Il
lavoro merce scarsa, chi l’avrebbe detto. Fra breve, ha potuto scrivere Prodi, “comincerà
la concorrenza, non solo fra imprese, ma anche fra gli stessi paesi”, ad
attrarre forza-lavoro straniera. Con salari migliori, con condizioni di vita e
di lavoro attraenti.
Prodi
scriveva in contemporanea col governatore della Banca d’Italia Panetta nella
sua Relazione annuale. Che ha fatto il conto dei giovani italiani emigrati fra
il 2008 e il 2022: 525 mila. Solo un terzo dei quali è poi ritornato. Emigrati
intellettuali prevalentemente. Finiti all’estero per due motivi semplici, ha
detto Panetta: “Opportunità retributive e di carriera decisamente più
favorevoli”.
L’Italia
è sfavorita in questa gara dai bassi salari. Un fenomeno ormai trentennale, e non
contestato: fra il 1990 e il 2020 le retribuzioni reali (al netto dell’inflazione)
hanno perso il 2,9 per cento. L’unico caso fra tutti i paesi industrializzati che
fanno parte dell’Ocse (sono 38, tutto l’“Occidente”). Con un’accelerazione
negli ultimi anni: l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha calcolato
una perdita di valore reale rispetto al 2008 del 12 per cento.
L’occupazione
aumenta perché è poco remunerata. Ma è temporanea (precaria) e poco produttiva.
No solo i salari sono indietro col mondo, anche gli investimenti. Gli investimenti
deficitano perché si può ancora usare manodopera precaria – i due fatti sono interrelati,
in quello che si dice il deficit di produttività (il valore aggiunto per unità
di prodotto con cui si batte la concorrenza produttiva).
Chi mafioso non è
Incredibile
montagna di accuse, apparentemente fondate, dell’ex giudice palermitano Ingroia
contro Pignatone, l’ex Procuratore Capo di Reggio Calabria e Roma, poi giudice del
papa Francesco, e ora sotto accusa a Caltanissetta.
Che
il padre era in rapporti politici con Salvo Lima, e di affari immobiliari con la
mafia del dossier Mafia e appalti, e quindi il giudice non avrebbe dovuto avere
la delega per lo stesso dossier. Che era
in pessimi rapporti con Falcone e lo osteggiò. Che il pentito Brusca lo disse
in rapporti con la mafia, ma che il verbale della deposizione, inviato a
Caltanissetta, fu archiviato – Brusca era riconosciuto attendibile. Le carte inviate a Caltanissetta dettagliavano
gli appartamenti costruiti dai mafiosi e ceduti alla famiglia Pignatone a
prezzi minimi, “sostanzialmente regalati” (“tra questi c’era quello di cui
godeva il dottor Pignatone e dove credo abiti tuttora”).
Seguiranno
smentite e querele. Ma si capisce che l’antimafia non funzioni.
Olimpiade di bellezza
Non si può dire, è scorretto, ma che abisso tra
questa Olimpiade e la pacchianeria di Parigi! È l’Olimpiade di Berlino,
assegnata alla Germania di Weimar e poi celebrata da Hitler, che ne fece una
manifestazione di potere. Il confronto non si può fare ovviamente con Parigi,
questo film non è sulla cerimonia inaugurale, è costruito con molto lavoro, su
400 mila metri di pellicola, dopo l’evento, per due lunghi anni di selezione e
montaggio delle immagini. Ma l’Olimpiade celebra, in anni hitleriani, come
manifestazione non di forza, non solo, più ancora di bellezza. Diviso in due
parti, “Olympia - Festa di popoli” e “Olympia – Festa di bellezza”, si direbbe
un film perfino anti-hitleriano: non contano i pugni più duri delle braccia più
muscolose, ma la forza nell’armonia, la fatica nello stile.
All’epoca, quando uscì, nel 1938, due anni dopo l’evento,
meravigliò tutte le platee. Per l’uso delle tecniche cinematografiche più
nuove, affinate: primi piani naturalmente, nei momenti topici, il ralenti o slow motion, carrellate lughe. Ma soprattutto legato, vibrante, al
montaggio – che è poi dove di fatto si fa il film (si gira di tutto, e poi si racconta con i materiali migliori). Proposto
per lingue e culture diverse con tre (parzialmente) diversi montaggi, in inglese
e in francese, oltre che in tedesco.
Riefenstahl è stata poi processata dopo la guerra,
ma senza condanne. A lungo i suoi film tre film “politici” (“La vittoria della
fede” e “Il trionfo della volontà”, sui congressi del partito Nazista, più questo,
considerato anch’esso politico) invece sono stati “condannati”, non
riproducibili. Ma New York ha riabilitato Riefenstahl nel 1975 (mentre Susan
Suntag contestava la riabilitazione ma senza esserne convinta), Aveva debuttato
come regista nel 1932, con un film, “La bella maledetta”, presentato alla prima
edizione del Festival di Venezia.
Leni Riefenstahl, Olympia
giovedì 8 agosto 2024
Sinistrismo carcerario
Fa
due pagine il “Corriere della sera” (in aggiunta alla prima pagina) sul decreto carceri, convertito in legge anche
alla Camera, dopo il Senato. Ma bisogna saperlo. Il titolo in grande della prima pagina è allarmante, di un ennesimo scontro, questa volta sulle regole (di che?) .Tre quarti di pagina sono
sulle “proteste e liti alla Camera”. Altri tre quarti su un incontro
Nordio-Meloni, il ministro della Giustizia dal presidente del consiglio, ma non
si sa su che cosa – si sa solo che “manca l’accordo tra gli alleati”. Una mezza
pagina è dedicata a un ordine del giorno di un deputato, Costa, non si sa di
che partito - presumibilmente di Azione. Sul decreto, ora legge, solo cinque righe:
“Il testo prevede l’assunzione di mille agenti in due anni; procedure più
snelle per uscire dal carcere a chi ne ha diritto; più telefonate settimanali
ai detenuti; un albo di comunità in cui i condannati con residuo di pena basso
potranno terminare la condanna”.
L’informazione
esula dal giornalismo?
Si
vuole dire che la sinistra è più forte del governo? Improbabile, ma è lecito. Ma
la sinistra che obietta alle telefonate, alle comunità invece del carcere, e
alle uscite rapide? Sembra improbabile. È un sinistrismo amico del giaguaro? È possibile,
i giornali hanno ragioni che la ragione non conosce. E il lettore?
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Sinistra sinistra
Il mondo com'è (477)
astolfo
Napoleone – Era spietato.
Ecco perché, se ben accolto in Germania e nel Lombardo-Veneto, aree già
politicamente e amministrativamente strutturate, che si aspettavano da lui i
lumi della rivoluzione, non lo fu in Spagna, in Sud Italia, e poi all’Est –
nessuno dei popoli sudditi dell’impero
russo, gli stessi che oggi fanno la guerra alla Russia post-sovietica, si
sollevò al suo passaggio. Ovunque le sue armate avevano libertà di saccheggio e
di stupro per due giorni. Il fratello Giuseppe, che aveva nominato a Napoli,
riteneva e diceva un debole perché non usava le maniere forti: saccheggi, anche
in un regno che non si era granché opposto, comprese le violenze personali,
contro le donne e contro chiunque, e distruzioni. Era uno che occupava, e non
liberava.
In
“Cronache della Calabria in guerra” – contro i francesi – lo storico Atanasio
Mozzillo riporta un testo fin troppo chiaro delle modalità con cui si faceva la
“liberazione” napoleonica, redatto come promemoria storico della lunga
opposizione calabrese alla dominazione francese, sotto forma di verbale, dal
Consiglio Provinciale di Calabria Citra, filofrancese, a Cosenza: “Lo spoglio di particolari
e delle comuni, le esazioni di ogni genere anche inutili, che ogni subalterno
si permetteva; la insultante credulità con cui venivano trattati gli abitanti;
il dispregio, l’oltraggio, le insolenze usate contro degli amministratori delle
comuni, contro degli impiegati pubblici; il nessun conto tenuto delle opinioni,
de’ costumi, de’ pregiudizi del popolo; la intera licenza permessasi nello
interno delle famiglie stesse, che si portava a che niun pubblico edifizio,
nessun utile stabilimento, niuna casa, ancorché privata, lasciò illesa furono i
soli principij della condotta tenuta nella nostra provincia. Ecco come per tre
anni è stato quasi costantemente trattato il popolo calabrese, e come se la
milizia non fosse bastata a mettere la desolazione nel paese, chiamò in suo soccorso
folla di esteri avventurieri, che coprirono le cariche più luminose, portandovi
uno spirito tanto più raffinatamente rapace quando era frutto della speranza”.
Croati e corsi, e qualche generale spagnolo.
Guillaume
Postel
– Inventò l’Oriente – e per converso l’Occidente. C’è un Oriente creatura
dell’Occidente, fumoso – quello di Pessoa: “Cerco nell’oppio che consola\ un
Oriente a oriente dell’Oriente”, una via di fuga. Una cosa da turisti anche se
risale al Cinquecento, al Postel che per ultimo si eresse nel 1553 in difesa di
Serveto, il negatore della Trinità bruciato dai calvinisti, nel nome della fede
ragionata e avrebbe voluto essere gesuita.
Guillaume
Postel non era un fregnone, fu anzi uno studioso, dell’islam, le lingue
semitichle, l’impero turco, Atene all’era di Pericle, la unione delle fedi, il
dialogo tra monoteisti, cattolici, riformati, mussulmani, ebrei, ma aveva le visioni
e costrinse sant’Ignazio a denunciarlo all’Inquisizione, e il buon papa Paolo
IV a rinchiuderlo, dannandolo ad infamiam
amentiae, all’infamia della follia, e all’Indice. Il carcere gli fu aperto quando
il papa morì nel ‘59, ma Postel si isolò nel priorato di
Saint-Martin-des-Champs a Parigi, oggi sede del Conservatorio e del Museo arti
e mestieri, dove morì nel 1581.
Le visioni erano di una Madre Zuana o Giovanna, Vergine Veneziana, o Veronese, Mater
Mundi, Nuova Eva, Donna santissima, Messia femmina, che si voleva incarnazione
dello Spirito Santo: Postel scriveva per conto di lei, delle sue mistiche
unioni.
Il primo
orientalista, a lungo il migliore, filologo solido, debuttò a tredici anni come
maestro di scuola al suo paese in Normandia. Poi decise di continuare gli studi,
al collegio Santa Barba a Parigi dove entrò domestico. A ventotto anni era professore
al Collegio di Francia di ebraico, arabo e siriaco, nonché di greco e latino.
Nell’occasione pubblicò in latino una Introduzione
ai caratteri alfabetici di dodici differenti lingue – in essa decritta le
iscrizioni sulle monete della rivolta ebraica come ebraico scritto in caratteri
samaritani. A ventisei anni, nel 1536, era stato parte dell’ambasceria di
Francesco I a Costantinopoli, alla corte di Solimano il Magnifico, in veste d’interprete
e collettore di testi classici, greci, arabi, ebraici - il re cristianissimo cercava
un’alleanza con i turchi contro Carlo V, il protettore della cristianità.
Insegnò a Parigi, Vienna, Roma, Venezia e altrove. A Parigi, le sue lezioni al
collegio dei Lombardi richiamarono tale folla che dovette tenerne anche in
cortile, da una finestra. Nel 1575 dedicò le sue “Histoires orientales” a Francesco di Valois, che Caterina dei Medici avrebbe
voluto affidargli fanciullo.
Delle
opere riscattate in Oriente Postel editò gli astronomi arabi e la Cabala. Fu
traduttore in latino dello “Zohar”, del “Sefer Yezirah”, del “Sefer ha-Bahir”,
nonché illustratore dei significati cabalistici della menorah. Con aperture che avrebbero potuto eliminare alla radice le
derive maschiliste della cabalistica, ma gli valsero l’ostilità di sant’Ignazio.
L’inquisitore Archinto, cui il santo lo denunciò, lo assolse e l’ordinò prete,
“a titolo di purezza, come erano gli apostoli”. Ignazio lo sottopose allora a
una speciale commissione di tre giurati, i gesuiti Salmeron, Lhoost, Ugoletto,
che lo dichiararono “soggetto a illusioni manifeste del demonio”.
Postel
aveva conosciuto Ignazio di Loyola quando questi era a Parigi, al collegio dei
Lombardi. E aveva preso i voti di povertà, castità e obbedienza, quale novizio
gesuita, a Roma, ripetendo il giuramento nelle sette chiese. Degli astronomi
arabi fu preciso commentatore, facendo dubitare della conoscenza che si aveva di
Copernico allora in Europa, se non dello stesso Copernico.
Sagacia
analoga il Postello della Vergine Veneziana applicherà all’Egitto, ed è
l’inizio dell’orientalismo, di cui tanto Oriente, oltre che l’Occidente, è
vittima. La “fede ragionata” e la “ricomposizione di tutte le cose” nella fede
unita annegheranno nell’egittologia. Che sarà napoleonica per essere stata di
Postel, in quanto autore della “Chiave di tutte le cose”, ossia dei tarocchi –
l’Egitto del futuro imperatore era nelle carte.
Filologo
ineccepibile, Postel deriva tarocco dall’egiziano taro, strada reale, termine composto da tar, strada, e ros o rog, regale – da cui, forse, la Scala
Reale del poker. Lo studioso individua anche un nesso fra tarocchi e cabala,
tra i semi e gli elementi primordiali. Nello stesso anno, 1540, in cui si
creava a Rouen la prima società dei maestri cartai. Che nel 1581, l’anno in cui
Postel morì, diverrà arte riconosciuta all’interno della Corporazione arti e
mestieri di Parigi, quella che avrà poi sede al boulevard Saint-Martin, e
assoggettata a imposta di bollo. Ma semanticamente Postel collega gli Arcani
Maggiori ai geroglifici del “Libro di Toth”, il dio della medicina. Geroglifici
che ancora per secoli non saranno leggibili.
Nel
1549, illustrando “La vera descrizione del Cairo”, la mappa stampata a Venezia
da Matteo Pagano, Postel spiega, sempre correttamente, che la città è turca più
che araba, e che le Piramidi sono “mostri incoronati”, monumenti alla
tirannide, non i granai di Giuseppe che si dicevano. Ma nella “Chiave di tutte
le cose”, pubblicata lo stesso anno, apre la città ai misteri, Il Cairo
costituisce da sempre un problema aperto per l’orientalismo. L’origine di
questo Oriente è in Plutarco, che attribuisce a Iside l’istituzione dei
misteri, grandi e piccoli, o verità esoteriche riservate agli iniziati, nonché
in Erodoto, Platone, Apuleio e perfino in Aristotele. Una serie di finzioni ne
germinò, culminata in Orapollo, l’autore dei “Hyerogliphica” che in realtà non
sapeva nulla dei geroglifici. In epoca moderna l’origine è in Postel, che più
di ogni altro pure ha affidabilmente tracciato le radici orientali, semitiche,
di tanta cultura occidentale. E nell’Inquisizione, che processò Postel per le
opere sulla fede unica, la fede ragionata, e sulla concordia religiosa, la
natura cabalistica dell’Egitto, poi teosofica, lasciando invece incontestata. E
fu l’Oriente taroccato.
Palizzi – Giuseppe Palizzi, di Lanciano, pittore,è solo
ricordato a Parigi, dove ha vissuto e lavorato, ed è stato sepolto nel 1888,
fra le persone illustri del Père Lachaise. Esponente della scuola di Barbizon,
una colonia artistica, di paesaggisti, della località omonima, e della vicina
Grez-sur-Loing, nella foresta di Fontainebleau, nei pressi di Parigi. Una
colonia che Stevenson molto amava, e ha
illustrato nelle note di viaggio “Across the Plains”, 1884 (oggi meta
turistica, nel nome di Stevenson, un “sentiero”a lui dedicato, tra natura e
pittura).
Si era formato
a Napoli alla Accademia di Belle Arti, e a Napoli aveva esposto i primi lavori,
alla Biennale Borbonica, nel 1839 e nel 1841, come paesaggista romantico,
specializzato in soggetti animali. Nel 1844 si stabilisce a Parigi, dove entra
subito in contatto con Corot e Courbet. E già l’anno dopo espone al Salon. Tornerà
spesso a Napoli, per esporre e vendere, nel 1854, nel 1859 e ancora dopo l’unità,
nel 1866. Ma è a Parigi che si era integrato, nella “Scuola di Barbizon”, di
cui resta l’esponente forse più noto.
Aveva messo su
casa a Grez-sur-Long. Nello studio-opificio richiamando i suo tre fratelli, dei
quali però uno solo resterà a convivere con lui, Filippo – Francesco Paolo, il
minore, preferisce Napoli, e il terzo, Nicola, presto lo raggiungerà, scontento
di Barbizon. I due fratelli, Giuseppe e Filippo, diventano famosi come “i
pittori degli asini e delle capre”. Scambiandosi spesso le firme, perché
Giuseppe vendeva meglio in Francia e Filippo in Italia.
astolfo@antiit.eu
Come la giustizia politica sbiancò Andreotti
Era
il processo che prometteva di rivelare in Andreotti l’architrave delle mafie, e
dei misteri d’Italia, e invece finì “come e perché Andreotti è stato assolto”.
Jannuzzi, cronista implacabile malgrado l’età e la nuova carriera, era
senatore, si sorbettò le udienze del lungo processo. Fin da subito mostrando però
la debolezza dell’accusa. Il Procuratore Capo di Palermo Caselli e i suoi
collaboratori fecero un processo politico senza curarsi di trovare un appiglio
di prova, anche un solo testimone non falso (ne produssero cinque o sei di
falsi, andavano processati loro).
Le
corrispondenze di Jannuzzi erano in realtà la denuncia del tentativo
giudiziario, di cui Caselli era solo la punta di un iceberg sommerso molto vasto,
specialmente a Milano, di sovvertire la politica. Riuscendoci ma senza vincere
– anzi perdendo: hanno portato al governo la destra, per la prima volta in
Italia, e ininterrottamente, anche se alcuni governi si sono fatti poi con
maggioranze alternative. Di Andreotti non si sono in realtà curati.
Era
anche facile legare Andreotti alla mafia. Ma loro volevano processare la
storia. Processavano Andreotti perché era stato il leader politico più
influente e duraturo al potere, per ben sette governi, di destra, di sinistra,
di centro. Senza coglierne l’essenziale.
Andreotti
è stato potente da subito, dal 1947, sottosegretario alla presidenza del consiglio
di De Gasperi per sette anni, da quando ne aveva 27 ed era uno sconosciuto, se
non in Vaticano. Ma era un leader politico molto minoritario, di una corrente Dc del 2-5 per cento. Divenne leader nazionale nel 1974, sfidando Moro con spregiudicatezza
e asprezza, con una forte campagna di stampa. Al punto che Moro dovette cooptarlo
quale capo del governo monocolore che creò nel 1976 con il voto Pci – e per due
governi successivi, sempre col Pci. Andreotti governò la fermezza, quando Moro
prigioniero implorava di essere salvato. E al voto del 1979 portò il Pci alla prima
sconfitta elettorale in trent’anni, del 4 per cento.
Un
freddo. L’Andreotti del 5 per cento aveva qualche seguito a Roma, in Ciociaria,
e in Sicilia. Qui portato da Salvo Lima, un ex fanfaniano. Che, come l’altro
grande ex fanfaniano, Ciancimino, governava accordandosi con le mafie –
barcamenandosi. Andreotti sapeva? Poteva non sapere, ma questo non discolpa -
non è nemmeno un’attenuante. Caselli e la turba di sostituti che per trent’anni
poi s’illustreranno con sceneggiati variamente immaginari – sempre meglio che
lavorare – hanno riscritto, dicevano, la storia d’Italia, senza curarsi di fare
un vero processo, in Tribunale – Di Pietro, uno che la giustizia politica ha
saputo utilizzarla con grandi vantaggi, li prenderà per i fondelli in
un’intervista qualche anno fa sull’“Espresso”,
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/pietro-bum-nbsp-nbsp-39-39-se-raul-gardini-parlava-se-salvo-lima-403676.htm
Lino Jannuzzi, Il processo del secolo, Mondadori, pp. 277 € 4,90
mercoledì 7 agosto 2024
A Sud del Sud - il Sud viso da sotto (567)
Giuseppe Leuzzi
Pignatone come il Procuratore Capo Giammanco,
insabbiatore del dossier mafia-appalti, tra la Eccher di Raul Gardini e Salvo
Lima, referente politico della mafia? L’indagine di Caltanissetta arriva semmai
in ritardo, dopo il libro di Mori e De Donno, “La verità sul dossier
mafia-appalti”, e le rivelazioni di Di Pietro nell’intervista all’“Espresso”,
da semplice cittadino, testimone comunque da sentire, nel 2020,
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/pietro-bum-nbsp-nbsp-39-39-se-raul-gardini-parlava-se-salvo-lima-403676.htm
Difficile immaginare una qualche colpevolezza di
Pignatone e del suo sostituto Natoli. Ma una sudditanza verso il Procuratore
Capo Giammanco, nel comune sentire democristiano, sì. E non si sa quale colpa
sia maggiore, l’errore di trenta e passa anni fa o questo immarcescibile
democristianesimo – un colpo di qua, un colpo di là, tutto si aggiusta.
Ogni tanto, nella prime lettere della feconda
corrispondenza, Calvino indirizza a Sciascia, Racalmuto, talvolta Recalmuto
(Reggio Calabria). Si vede che, malgrado l’amicizia, la classificazione costante
di Sciascia come ipersiciliano, e un viaggio a Palermo per una “Settimana
Einaudi”, l’hic sunt leones valeva pure per Calvino,
Dopo le prime sviste Sciascia adotta una carte
intestata (prestampata):
Leonardo Sciascia
Racalmuto (Agrigento).
Però, Calabria non è Sicilia. Oppure è uguale?
“Il primo scritto che io lessi di lui”, di Sciascia, spiega Calvino in una
intervista con “L’Ora” il10 giugno 1975, “le sue ‘Memorie di un maestro’, era
uno scritto che si staccava, negli anni ’50, da tutta una letteratura
meridionalista, documentaria, sociale, che era ingente. Si staccava per la
terribile disperazione che comunicava, una disperazione che, come sempre le
rappresentazioni molto pessimistiche, non aveva un effetto schiacciante,
scoraggiante, ma, al contrario, comunicava grande forza”. Ai letterati
siciliani sì, ha aperto i portoni, ma all’isola? Si direbbe un’eccellenza in un
lago di pessimismo. Un lago di nuova avventurata formazione – di vittimismo,
roba da prefiche al caro estinto, il leghismo non c’entra: un lago atrofizzato,
di sabbie mobili.
Il potere
delle maschere
Della Sicilia so tutto, scriveva Calvino a Sciascia il
10 novembre 1965, dopo aver ricevuto in lettura il dattiloscritto del
“Consiglio d’Egitto”: “Da un po’ di tempo mi accorgo che ogni cosa nuova che
leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui ormai mi
sembra di sapere già tutto, assolutamente tutto. Questa Sicilia è la società
meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido, cristallino: le più
tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologia, pettegolezzi, delitti,
lucidezza, rassegnazione, non hanno più segreti, tutto è ormai classificato e
catalogato”
Che sembra un complimento ma non lo è: è la fissazione
di un cliché. È un complimento per
gli scrittori, che hanno saputo creare un mondo, ma non per la terra, non per
la sua gente. Calvino continua complimentoso, paragonando la Sicilia di
Sciascia a “una bella partita a scacchi”, al “piacere delle combinazioni di un
numero finito di pezzi a ognuno dei quali si presenta un numero finito di
possibilità”. Finito e definito, catalogato, fissato. “Un tema”, uno solo, sempre
lo stesso.
La Sicilia come macchietta, muta? Calvino voleva
ironizzare sul pirandellismo di cui molti siciliani si crogiolano? Ha lanciato
all’amico, cosi chiude la lettera, una “freccia del Parto”- una frecciata, una
provocazione.
“La Sicilia” è fissata. Come “la Toscana”, per dire,
all’altro estremo, della virtuosità: lindore, pulizia, radicamento, e cultura naturalmente,
rispetto, cura, valorizzazione, ben servita e ben curata, ottime strade, ottime scuole, ospedali efficienti.
In una parola: il Buongoverno. Cosa che non è, da molto tempo, si direbbe in
ogni aspetto, strade, scuole, medici, eccetera – compresa la cucina, che una
volta era saporita e schietta, e faceva aggio a Roma e Milano. Allo stesso modo
la Sicilia viene anch’essa mascherata, incrostata, “fissata”, solo dell’orrido.
Mattarella o della Sicilia in pace con se stessa
Il passo stabile, sicuro. In
situazioni politiche caotiche. Cottarelli, Conte, chi erano costoro? Alleanze
di opposti. Giovanotti e signorine di nessuna qualità tra cui scegliere i ministri. Venendo da una storia personale “estremamente siciliana”, di estremi
di ogni tipo, morali e politici, compreso l’assassinio del fratello maggiore. E
farsi personificazione di Equilibrio. Stabilità. Certezza, del diritto e della
politica. Riconosciuto e rispettato anche da “Milano” e ogni interesse costituito.
Dare stabilità alla XXIIIma
legislatura, sia pure a rischio, come ora appare, del fallimento della ditta, è
stato prodigioso. Tanto più per la misura dispiegata, dei tempi e dei modi. Senza
mai strafare. Senza interventi chiassosi, minacciosi, capricciosi, notabilari.
Con tatto e perfino con Garbo.
Mattarella è l’unico presidente
della Repubblica siciliano. Non per esclusione, cinque presidenti su otto sono stati
“sabaudi”, sardi e liguri cioè compresi. È così, è avvenuto così. Ma non è “siciliano”:
è al naturale, non si vede che sia in qualche modo artefatto, regolato da
consigliori, gestito da specialisti d’immagine, e non è “siciliano”. Quindi la
Sicilia non è come Calvino scriveva a Sciascia, “so tutto della Sicilia”.
Sudismi/sadismi
Il ministero dell’Istruzione
fa il conteggio della maturità, il “Corriere della sera” riferisce: “Emerge una
forbice Nord-Sud. Nel secondo caso sono molti di più, in percentuale, gli
studenti maturati con il massimo dei voti: in Lombardia,Trentino-Alto Adige,
Veneto i maturati con 100 e lode sono poco più dell’1 per cento, percentuali
più alte in Calabria (5,4%), Puglia (5,1%), Sicilia (4,1%)”.
Questa volta c’è solo il comunicato,
non c’è la contestazione che le commissioni dì esame sono al Sud degli “amici”,
o e le scuole raccomandate – la discrezionalità delle commissioni è minima, un
3 per cento. Ma la stizza sì, si vede dalla redazione fintamente neutrale del
comunicato, riscritto sempre in termini di opposizione.
Cronache
della differenza: Calabria
Matrice
della “rivoluzione italiana” la vuole lo storico napoletano Atanasio Mozzillo,
introducendo la sterminata ricerca “Cronache della Calabria in guerra”, contro i
francesi di Napoleone, al § “Realtà e mito calabrese”. Ispiratrice dei moti insurrezionali.
Sul
“Corriere della sera”, per la promozione “Un viaggio con le firme”, il capo
redattore Carmine Festa invita alla Calabria “terra dura”. Invece si direbbe
terra molle. Non solo per i terremoti e le frane. Per il vivere quotidiano, rassegnato. Attivo, anche intraprendente, fuori, a casa invece inerte.
C’è
un “iracondo calabrese” nel racconto di Pasternak “Il tratto di Apelle”, che
inscena Heinrich Heine in Italia, tra Firenze e Ferrara. Fa il cameriere
d’albergo, a Ferrara. Ma inverte i ruoli, rispetto al “calabrese” classico,
brigantesco: “Questo furfante”, dice di “un monello” incaricato di una speciale
missione dal poeta, “ha proferito
addirittura delle minacce”. E quando il ragazzino chiede a Heine cento soldi,
“senza convinzione e trasognato”, se ne ride: “Ridono tutti, ride spropositato
anche il cameriere, soprattutto il cameriere”. Cento soldi erano dieci lire,
quasi un capitale – dipende dai punti di vista (il poeta glieli dà).
Sui quattro allenatori
italiani di Nazionali straniere all’Europeo 2024 due erano calabresi, Tedesco
di Vibo Valentia e Calzona di Rossano. Curioso record. Calabria come emigrazione?
Nemo propheta in patria?
C’è molta Calabria nel memoir
di Antonio Franchini sulla madre, “Il fuoco che ti porti dentro”: i
fidanzatini di lei, uno bello, uno intelligente. Uno o due generi. La parte
jonica e quella tirrenica. Ci “sono ottanta chilometri, da Marina di Tortora a
Paola, invasi dai miei concittadini”, concede Franchini, napoletano, “per
garantirsi una vacanza a buon mercato”. Senza, i luoghi non sarebbero “brutti
per niente. Solo una striscia di costa di Calabria settentrionale è devastata”,
quella da Tortora a Paola.
L’appartamento a mare, nella
babele “napoletana” di Scalea. era un legame moderno della Calabria con Napoli,
c’era la possibilità di una connessione feconda, che in una generazione è svanita.
I “napoletani” in vacanza come ricorda Franchini hanno anzi segnato una rottura
definitiva.
Nella
caccia al voto per le Europee nella circoscrizione Sud Sgarbi ritorna a Sant’Andrea
Apostolo dello Jonio, e con l’ex sindaco Gerardo Frustaci ricorda, “nella
gloria della sua scelta calabrese, Anna Gastel, che ora non c’è più. Aveva
lasciato alle spalle la grande Milano per rifugiarsi qui, per avere i cieli e
il mare di questo paesaggi nel cuore”, un paesaggio in effetti straordinario,
“per ritrovarli in paradiso”. Anna Gastel è morta a gennaio, di settant’anni, a
Milano dove si curava. Nipote di Luchino Visconti, molto attiva nel mercato
dell’antiquariato (Christie’s), nell’ambientalismo (Fai), e nella musica
(MiTo), è stata celebrata a Milano con lunghe commemorazioni (obituaries).
Nessuna delle quali menziona Sant’Andrea Apostolo dello Jonio.
Ci
voleva lo stesso Sgarbi, nello steso articolo, la sua column sul
settimana femminile del “Corriere della sera”, “Io Donna”, poche righe, per
rivelare a Reggio e ai reggini il Palazzo della Cultura, l’Istituto Alfonso
Frangipane, “pieno di ceramiche e di mirabili tessuti prodotti nella tradizione
di quella scuola d’arte, e il Museo San Paolo, una eterogenea collezione di
dipinti antichi, sculture, oggetti d’arte, icone, argenti, pianete e piviali,
febbrilmente raccolti da un prete. «sacerdos et civis», Francesco Gangemi, per
salvarli dai mercatini che umiliavano la loro destinazione prevalentemente
religiosa”. Nessuno che ne sappia a Reggio, che si sappia.
Calvino
ha scritto il “Barone rampante”, di getto, a Praia a Mare, in vacanza, l’estate
del 1956, con Elsa De Giorgi, con la quale allora si accompagnava – dedicataria
originaria delle “Fiabe italiane”. Lo dice, e lo prova, De Giorgi in “Ho
visto partire il tuo treno”, il ricordo della sua storia con lo scrittore. Lei s’indentifica
nella Viola-Paloma del “Barone rampante”, 1957 – di cui la scrittura fu alacre
sulla spiaggia di una caletta a Praia a Mare, l’estate precedente: “La prima
copia di stampa del Barone rampante Calvino me la portò di
persona a Milano dove, al piccolo teatro con Strehler, recitavo Madame Roland
nei Giacobini. In stampa il libro era dedicato «A Viola» e a mano
«A Paloma, il barone»” - la prima copia “ci rese molto felici”.
L “caletta di Praia a mare” è nella “striscia di costa
della Calabria devastata” di Franchini, qualche anno più tardi.
Dice un carcerato, in cambio di una riduzione di pena,
che Chicco Forti, estradato dagli Stati Uniti come un atto di liberazione nazionale, con Giorgia Meloni ad aspettarlo in pompa a Fiumicino, benché in
catene, gli ha chiesto di fornirgli uno ‘ndranghetista per uccidere Selvaggia
Lucarelli e\o Travaglio. Perché uno di ‘ndrangheta, uno si chiederebbe. Perché
è la sola malavita da quando, trent’anni fa, o quaranta, i servizi segreti
salvarono l’annata d’ozio decretandola sic
et simpliciter la più grande organizzazione criminale del mondo. Come nascono
i miti, a volte è semplice.
L’Anas
rifà (ad agosto….) l’asfalto nelle strade con cui attraversa i piccoli Comuni,
senza scarificare il manto precedente. Si vedono così strade al livello ormai del
marciapiedi. Inevitabile, alle prime piogge, l’allagamento dei pianoterra. Poi
si dice l’abusivismo e l’incuria.
leuzzi@antiit.eu
Comuni (di destra) contro Giorgetti – lesina i fondi Pnrr
Comuni,
specialmente i sindaci di destra, furiosi contro Giorgetti e il Tesoro, che lesina
i fondi Pnrr, “cambiando ogni giorno le regole”.
Ogni giorno forse no, ma ogni pochi giorni sì: il tempo di adeguarsi ai
nuovi “moduli”, alla nuove richieste procedurali, e già tutto è cambiato - uno snervante gioco dell'oca.
La
vulgata è che il governo è bravissimo a fare le pratiche a Bruxelles e incassare
periodicamente i fondi Pnrr destinati
all’Itala – “siamo i primi in Europa”. Ma che i soldi non si spendono perché
gli enti locali non sono attrezzati per spenderli: non conoscono le procedure,
se le conoscono non le osservano, non definiscono i progetti, e così via.
La
verità, avendo osservato la cosa in un paio di piccoli Comuni, è diversa: il Tesoro
cambia le procedure online ogni pochi giorni. Per la ragione apparente di averne
a prova d’infrazione. In realtà per ritardare il passaggio dei fondi. Il Tesoro
incassa da Bruxelles, e per tre, sei mesi, anche di più, fa di tutto per non spenderli
nei progetti cui sono destinati. Soprattutto quando interlocutore è un ente
pubblico, i Comuni in prima fila.
Questo
è un fatto. La ragione può essere la politica della lesina con la quale
Giorgetti gestisce il Tesoro: qualche tassa qua e là (ne ha messe di fatto
parecchie, sulle sigarette, sulle bollette dell’energia, sui carburanti, sui
conti in banca, etc.), per accrescere gli incassi, e pagamenti col contagocce.
Non una politica economica, serve a tenere basso lo spread – le agenzie di rating,
i mercati.
Il suicidio assistito dell’Europa
Non c’è più religione. Non ci può essere più una
religione del Padre e del Figlio: “Non può sussistere una religione fondata
sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto
personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi
aborti”. In n’epoca di islamismo invadente, da un trentennio con
stragi a ripetizione.
Un pamphlet
violento, in forma di riflessione antropologica, che parte dal “politicamente
corretto” – con cui gli Stati Uniti “correggono” il mondo, argomentava l’illustre
antropologa dieci anni fa, poco prima di morire, novantunenne. “Il
«politicamente corretto» costituisce la forma pù radicale di «lavaggio del
cervello» che i governanti abbiano mai imposto ai propri sudditi”. Attraverrso
il cinema, che è l’opera degli americani, il loro melodramma.
“L’Era posteuropea, Era della Bruttezza”, la riflessione
forse più azzardata, ma anche convincente, è un saggio seminale
sull’imperialismo americano. Soprattutto ora che è in una delle sue pieghe più
conturbanti, l’insorgenza dell’Asia, che era già quindici anni fa nei numeri.
La critica radicale dell’America è piena di verità: dal western
all’imperialismo e allo stato di guerra permanente.
Un epicedio, vigoroso, polemico, sull’alitante
Occidente, specie in Europa. Che apre la strada a molte altre trattazioni in tema. E che l’antropologa rileva evidente: “Quasi tutti in
Occidente, e in particolar modo in Europa, percepsicono un disagio, un vuoto,
cui non sanno dare un nome: un vuoto che li esaspera spingendoli a consumare:
cibi, mode, parole, tempo, valori, droghe, sesso, vita”. Il segnale della
disgregazione è la “rinuncia” (67): “Rinuncia a estendere i propri valori, la
propria religione, la propria lingua, la propria cultura” – “un atteggiamento
che caratterizza le culture etnologiche”, moribonde o morte. L’Occidente come
una di quelle culture “vive da morte”, su cui l’antropologia si è crogiolata,
dei primitivi, gli isolati, i sopravvissuti. Col conforto a un certo punto di
Gottfried Benn: “Crisi espressive e attacchi d’erotismo: questo è l’uomo
d’oggi, l’interno di un vuoto” – ma Benn poetava un secolo, quasi, prima.
Compongono il volume una serie di discorsi come
vengono. Dell’Europa invasa, assorbita, asservita dai mussulmani: il “Corano,
essendo «sacro
, deve essere osservato integralmente”. O della
tabuizzazione del femminile: “la morte è donna, come tutti i popoli hanno
sempre «saputo»”. Anche la dannazione lo è: “Per i padri della Chiesa”,
sant’Agostino incluso, anzi soprattutto a partire da lui, “è «donna» anche la
dannazione,mors secuda”.
Violentissima contro “l’Antico Testamento, e di conseguenza il Corano”, che
obbligano i propri devoti a combattere e distruggere gli infedeli, i nemici di Dio” – e la Chiesa,
che ha tradito Cristo. alla lettera e impregnerà di sé l’ambiente europeo,
cacellando qualsiasi traccia del nostro”.
Vecchio Testamento e ebraismo sono letti
dall’interno, con esiti convincenti – “la Legge del sacro per gli ebrei è
l’unica valida”. Ma con derive spigolose. Specie contro l’omosessualtà,
l’argomentazione più spinosa. Anche se l’attacca non quale condizione di vita,
ma come ideologia. Finendo per imputarla a un imprecisato ebraismo. Partendo
dall’anamnesi del Vecchio Testamento, che pure conduce a lungo magistralmente,
contro le frasi fatte e i luoghi comuni: “C’è un’omosessualità implicita nella
cultura ebraica, quela vissuta mentalmente, affettivamente, simbolicamente con
la mascolinità di Dio”
Gesù “romano”, inziatore suggeritore della religione
da fondare a Roma, il capitolo più controvertible, è anche il meglio
argomentato. Partendo dalla rilettura radicale del Vangelo, e della figura di
Gesù, dai Vangeli, e dal contesto che i Vangeli non rappresentano ma è ben noto
storicamente. Dentro l’ebraismo che è invece religione dell’Attesa. L’approccio
non è persuasivo: “La presenza dei tratti culturali romani nelle parole e nel
comportamento di Gesù sono evidenti, così come è evidente che le scelte dei
primi discepoli sono tutte indirizzate alla conquista del mondo romano”. Le
parole, e i comportamenti, le ricostruzioni, sono di epoca successiva a Gesù,
di amanuensi comunque interni all’area romana, anche se scrittori in aramaico o
in greco. E tuttavia la tesi che sia stato lo stesso Gesù a indirizzare Pietro
a Roma è congruente – anche se non c’è traccia di Chiesa nei vangeli: “Le
decisioni che sono state prese dopo la morte di Gesù dovevano essere state per
forza ideate, programmate e spiegate ai discepoli da lui. Soltanto la sua
intelligenza ne poteva essere capace. Era un progetto geniale e grandioso”.
Gesù è un mistero, ma logico: chiude con l’ebraismo,
o religione dell’Attesa. E giù, di nuovo, con l’anti-ebraismo. Si è scavato
molto e non si è trovata traccia di Gesù. Ma come di nessun manufatto ebraico
di quell’epoca, sinagoghe, sinedri, e “il motivo è uno solo”: “Gli Ebrei non
fabbricavano nulla”. Anzi: “Gli Ebrei vivevano ancora nel I secolo d.C. in
forma primitiva: qualche mattone di argilla, qualche brocca per l’acqua,
qualche strumento o contenitore di legno, qualche pugnale o coltello, qualche
rete di corda per la pesca e poco altro”.
Da ultimo, preveggente?, il problema russo, “La
Russia riflesso d’Occidente”, l’ultima parte della raccolta: “La Russia fra
Oriente e Occidente” e “«La Russia non s’intende con il senno»” -.del poeta
Tjutcev. Con l’ovvia constatazione che i campi di concentramento e lo sterminio
Hitler li a presi da Stalin e non dai
rìturchi in Armenia. E tuttavia la Russia quasi come speranza, la Russia che
potrebbe essere la seconda Europa, quando la prima sarà “africanizzata” – che
per Magli è sinonimo di “islamizzata”, non un fatto di colorazione.
Magli ha applicato il metodo della ricerca sul campo
(i “primitivi”) alla cultura occidentale. Questo pamphlet si può dire un cascame del “Viaggio intorno all’uomo
bianco”, la sua ricerca più nota. Classificata a lungo cattolica, per aver
realizzato una lettura antropologica dei Vangeli. Ma ha anche individuato nell’
Antico Testamento e nella teologia le fonti precipue del lessico e le
figurazioni del maschilismo dominante, forme in uso anche tra i non credenti.
Qui,
nella sua ultima fase, più polemica, alterna argomenazioni di diverso spessore,
incline al complottismo. “Il terribile anno 2011, caratterizzato dall’azione
eversiva del Potere”, è quello del governo Monti. In una con la nomma di Draghi
alla Banca centale europea, “il primo atto dell’attacco finale alla nazione
Itala da parte dell’Europa per
eliminarla come Stato, lasciandone soltanto le apparenze”. Per non dire di
Berlusconi, che “è riuscito a firmare tutti i trattati europei più impegnativi per
la perdita della sovranità e dell’indipendenza dello Stato italiano”. “«Aprirai
un conto corrente» è l’undicesimo comandamento” – questo è vero. Con punte
anche blasfeme: “Lo stesso Dio in cui ha creduto un uomo dolce come Francesco
pare essere diventato un Dio stupido, malvagio, miserabile, perverso, che
tradisce, inganna, calpesta i poveri, i piccoli, i «figli»”. E il ricorso ai
“tramontisti”: Spengler, Musil, Hans Carossa, HermannBorch, Yvan Goll, Celan,
perfino Jaspers.
Ida Magli, Dopo l’Occidente, Bur, pp. 240 €
11
martedì 6 agosto 2024
La guerra, è facile
Se vuoi la pace prepara la guerra è antica massima. È
quello cui assistiamo, la preparazione di una
guerra. Ma non per avere una pace, se non con l’annientamento
dell’avversario.
Si prepara la guerra come si fa oggi, con le “operazioni mirate” –
la guerra si vuole “chirurgica”, igienica, non nel senso di Marinetti e il
futurismo, quasi ecologica, pacifica.
Una
volta c’erano i trattati e la guerra si dichiarava, per un motivo specifico. Oggi come si fa la guerra? Si prepara, per un qualsiasi evento. Con la preparazione
militare naturalmente, ma senza stare lì a dichiararla. Si moltiplicano gli “incidenti”.
Si moltiplicano gli aiuti per l’annientamento dell’avversario agli alleati “minacciati”
– e chi non è minacciato. Magari chiedendo agli alleati di astenersi dall’usare
gli aiuti – cosa costa? Se si è in campagna elettorale si fa finta di volere la
pace, “assolutamente”. Sennò, nemmeno quello. E non si sta a “menarla”: non si negozia con nessuno, sono tutti più o meno nemici – se non per passare il tempo,
preparare la preparazione. Putin, più la guerra si allarga, meglio sta.
Cronache dell’altro mondo – saudite (287)
Il ministro della Difesa Lloyd Austin ha sconfessato
la giudice delegata al caso degli attentatori dell’11 settembre alle Torri Gemelle nella prigione
speciale di Guantànamo, Susan K. Escallier, generale di brigata in pensione, per nessun motivo
ufficiale. “La responsabilità della decisione deve ricadere su di me”, ha detto il ministro. Come se a
Eskallier fosse stata demandata l’istruttoria e il dibattito, e la sentenza spettasse al governo. Non è così.
Il governo peraltro ha solo tre mesi restanti di
attività, mentre il “processo” agli attentatori va avanti da anni. Escallier è la nona o decima giudice militare
a occuparsi del caso. La cosa si trascina dal 2019, quando
Khaled Sheikh Mohammed, ex capo propaganda di Al Qaeda, si è confessato mente dell’operazione e organizzatore, in numerosi viaggi
negli Stati Uniti, e si è impegnato ad aiutare le famiglie delle vittime dell’attentato nella causa da
loro intentata contro l’Arabia Saudita, denunciando le complicità di quel Paese
nell’attentato, se il governo americano rinuncerà alla condanna alla pena di morte.
Si susseguono così le istruttorie, ormai da una
ventina d’anni, senza prendere una decisione. Mentre l’Arabia Saudita, già appendice economica, politica
e militare degli Stati Uniti, persegue una politica decisa di differenziazione. Con aperture
alla Russia, sul petrolio e le politiche generali, dal 2019. Con l’Iran, per un’intesa regionale, dal 2022.
E con la Cina, sul piano commerciale e su quello tecnologico.
Il Sud di Dante è in Italia
Non Dante a pranzo, è “Il Regno di Sicilia nella Commedia”. Compito arduo, poiché Dante
non c’è mai stato, né a Napoli né altrove, a differenza di Petrarca, per dire, di
Boccaccio, che entrambi furono perlomeno a Napoli. Che lo storico si è assunto
nel quadro delle celebrazioni dantesche avviate prima del covid per il 2021, per il settimo
centenario della morte. Nel quadro di una divisione dei compiti con i colleghi
dell’università della Basilicata in tema di Dante. E che porta a compimento con
grazia, seppure con carniere quasi vuoto. Se non per il passaggio travolgente
di Dante dall’opposizione al ghibellinismo, per esempio nella persona di
Roberto d’Angiò, allora duca di Calabria, a Firenze nel 1305, al ghibellinismo
più devoto, per Federico II e per suo figlio Manfredi. E per la constatazione che il percorso del volgare, nel trattato omonimo, fa partire dalla Sicilia.
Roberto I d’Angiò re di Napoli offre anche l’unico
spunto narrativo. Subirà un memorabile declassamento nella “Commedia “ a “re da
sermone”, un chiacchierone. Ma era quello che laureerà poeta Petrarca a Roma
nel 1341, dopo un accurato “esame” di tre giorni a Napoli, di fronte a una commissione
da lui presieduta.
C’è poco Mezzogiorno anche nelle opere minori di Dante,
rilette con acribia. Il grande lavoro di Panarelli, storico di professione, riguarda
le dinastie meridionali nella storia d’Itala come Dante la vedeva. Tre fasi,
che Panarelli può ricostruire in tre capitoli, a decisa caratura: “Inferno
svevo”, seppure tra apprezzamenti , meraviglie e compassioni, “Purgatorio
angioino”, e “Il paradiso degli Altavilla”. Un’anamnesi politica di Dante e
dei suoi anni, in cui c’entra il Sud ma come parte del gioco italiano.
Francesco Panarelli, Dante a Mezzogiorno,
Carocci, pp. 111 € 14
lunedì 5 agosto 2024
Totò e Peppino a Parigi
L’Olimpiade parigina è quasi
finita e solo ora veniamo a sapere, incidentalmente, dalla foto di un atleta
che dorme sul prato, che gli alloggi erano, a Parigi, ad agosto, senza aria condizionata.
Dalle baruffe belghe, e solo così, veniamo a sapere che l’acqua della Senna è
pericolosa a bere, anche a gocce. Solo all’ultimo sappiamo della sportività
francese, che vorrebbe far vincere l’avversario pur di non incontrare, al
prossimo turno, una certa squadra – l’Italia. Silenzio totale sul medagliere
addomesticato, con record fulminei e poco possibili, e giudici che debbono
fa vincere questo o quello\a – questo,
per la verità, senza colpa degli organizzatori, sono equilibri Cio, “olimpici”.
Ogni giorno ci riempiono di pagine
di due pugilatrici mezze maschio di cui non frega nulla a nessuno – riducendole
peraltro, poverette, a baraccone da fiera. Forse per lo stesso cattivo gusto, o
maleducazione, che ha portato i nostri grandi inviati in deliquio per la sceneggiata
iniziale, roba da luna park di periferia.
Bisognerebbe che qualcuno ci raccontasse
i giornalisti italiani a Parigi. Un “Totò e Peppino a Parigi” non c’è, ma ci sarebbe, senza i
gloriosi comici si riderebbe ugualmente.
La violenza è idilliaca in guerra
Un giovane universitario passa il tempo sull’isola
di Saipan, appena liberata. Legge “The Pocket Book of Verse”, appena può, di nascosto.
Gironzola sforzandosi di non pensare a dove si trova, guardando indifferente il
passaggio di soldati feriti. S’immalinconisce nella natura rigogliosa dell’isola,
perdendosi in visioni di lune di miele tra gli alberi di ibisco.
Il tempo libero di un giovane universitario in armi
nel Pacifico. Dopo le vittorie “orrendamente sanguinose” di Iwo Jima e Saipam.
In attesa dell’ordine d’invasione del Giappone – operazione poi esclusa dal
bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, questa settimana di 79 anni fa.
Styron era allora sottotenente arruolato nei Marines, sbarcato a Saipam, in attesa
dell’operazione di sbarco.
In “Rat Bach” la rivista pubblicava nel 2009 una parte
dei ricordi di guerra di Styron.
“Guardavamo in alto gli aerei, come si alzavano sopra la spiaggia, intuivano le
loro pance gonfie, pregnanti di bombe. Il rumore era brutale, ma gli aerei si
sollevavano con sincrona grazia, e quando volavano oltre la luna, allora perfettamente
marginati, mi ricordavo allora del compito malvagio e della orribile
moltitudine di morti in quelle città di carta e bambù. Ma la cosa non mi
preoccupava molto… Comunque, ero pronto”.
William Styron, An Invasion that didn’t happen,
“The New Yorker”
domenica 4 agosto 2024
Ombre - 731
Non perde colpo Israele
in Iran, uccide chi vuole quando vuole. L’Iran di Khomeiny è il paese col più
alto numero di cittadini ebrei (all’infuori degli Stati Uniti), forse 35 mila,
sicuramente 25 mila. Con un deputato per Costituzione al Parlamento, E numerose
sinagoghe attive, specie a Teheran, una dozzina, alcune con scuole di ebraico. Questa
guerra è speciale anche perché il fronte è frastagliato.
“Liquidato Hanyeh, il
capo di Hamas”, annuncia il Tg1. Liquidato, come usava con Hitler e Stalin. C’è
una continuità con la democrazia cristiana che sempre governa, un po’ da destra
e un po’ da sinistra, la Rai e il Tg1 (governa in base alla famosa Riforma Rai,
1974): i regimi vogliono continuità.
L’incredibile Trump non
si smentisce nella reincarnazione. In effetti, è stato un presidente, ed è un
candidato presidente. Ma non è una novità, è uno dei tanti improbabili eletti
alla presidenza degli Stati Uniti. Soprattutto nell’Ottocento. È anche vero che
gli Stati Uniti hanno avuto una cinquantina di presidenti (45, pare, per
l’esattezza). Sceglierne uno presentabile ogni quattro anni è così difficile?
L’Arera, l’Agenzia per la
Regolazione delle fonti di energia, dà finalmente i numeri degli “oneri generali
di sistema”: Negli ultimi tredici anni abbiamo pagato 162 miliardi, dei quali
142 a copertura degli incentivi attualmente operativi per le rinnovabili”. 142
miliardi di prelievo forzoso in bolletta,
sul gas e la luce, che ogni cittadino, il vero “privato”, deve pagare a favore
delle industrie. Ma fa notizia sul “Sole 24 Ore” solo perché forse qualche
mafioso è tra i beneficiari – mafioso giudiziariamente. Il “privato” che
finanzia per 4 e 500 euro l’anno un’industria di cui nulla si sa è l’epitome
del “mercato”: il furto al potere.
Meloni ha perso la bacchetta
magica sugli affari esteri? Su cui si era costruita un’immagine solida, perfino
in Italia. Fino al G 7 di Puglia, col papa. In pochi giorni, tra la polemica contro
von der Leyen per un dossier sicuramente infamante senza motivo, il no ai giornalisti
italiani alla conferenza stampa in Cina, l’attivismo a Parigi contro la pugile
algerina, sembra come impaziente di perdere. Ha smarrito la bussola? O ha
cambiato consigliori su esteri e immagine?
C’è in Italia una speciale
categoria socio-politica, il parente delle vittime. Di chi fa cioè merce, per
lo più politica, del sacrificio di un congiunto. Da Emanuela Orlandi alla
strage di Bologna all’eccidio Borsellino – a fronte qui, p. es., della compostezza
di Maria Falcone, o di Alfredo Morvillo, il fratello della bellissima
Francesca.
Si direbbe una forma di sciacallaggio,
ma non bisogna esagerare, gli assassinii, gli eccidi ci sono stati. Tanto più,
però, si capisce perché Liliana Segre, o altri sopravvissuti all’Olocausto,
sono amabili a tutti, per la compostezza.
Difficile appassionarsi a
Imane Khelif, come ora alla pugile taiwanese, che vincono perché sono più alte
di dieci centimetri e hanno braccia lunghe il doppio delle avversarie – la loro
boxe sembra un teatro comico: non c’è tecnica, non c’è atletismo, non c’è
niente, si aspetta la fine. Picchiano anche duro: il testosterone si sente - certo non fa la differenza, al tiro al piattello. Ma i giornali ci dedicano quattro e sei pagine e
non si possono saltare: le trattano da mostri, col dovuto rispetto s’intende.
Ciò che più colpisce è
che quando è il loro turno gli stadi sono esauriti. Non solo per l’algerina,
che fa il pieno di franco-algerini. Gli antichi romani non erano poi tanto
crudeli?
Ma, dice Bonarrigo sul
“Corriere della sera”, per la gigantessa taiwanese lo stadio era soprattutto
“affollato di cronisti”. Per dovere di cronaca? Il giornalista certo deve
essere un po’ voyeurista.
Dice bene Angela Carini,
che a 25 anni, dopo dieci o dodici anni di sacrifici, vede sfiorire il suo
sogno in pochi secondi. Anche pensando alla delusione del padre. “Fa male”, ha
detto dell’avversaria, l’algerina che la sovrastava – stesso peso? – dai
muscoli possenti. Una storia un po’ “Forrest
Gump”, ma lo sport è crudele, altro che fair play: uno vince e uno
perde.
Sono solo di cinesi le vittorie contestate o sospettate
di questa Olimpiade. La Cina paga? Non necessariamente, sudcoreani e giapponesi
non ne hanno bisogno. Ma è influente. E vuole vincere. Nel 2016, per escludere Schwazer
dall’Olimpiade di Rio lo fece condannare per droga con un prelievo e un’analisi
farlocchi. Pagò? Siccome l’affare fu gestito da tedeschi e inglesi è facile che
sì. Ma intanto aveva preso come allenatori della marcia i fratelli Damilano,
che avevano vinto molto.
La Cina “prepara” i vincitori, come la vecchia Urss. Oggi è in cima al medagliere dell’Olimpiade parigina perché ha 16 ori, contro i 14 Usa. Ma ha solo 37 atleti medagliati, contro i 61 americani.
Si pubblicano pagine di
scrittori israeliani sulla guerra, a Gerusalemme o Tel Aviv. La lettura è invariabilmente
centrata sul quotidiano, i piccoli problemi, le ansie, l’incertezza. Non c’è il
perché di una guerra. Non c’è una speranza, un’idea, un progetto di futuro. Di
un futuro stabile. Una sola soluzione c’è, la vittoria ovviamente. O nessuna
soluzione?
“Chi adesso mi scrive ha
un’età media tra gli ottanta e i cento anni”, spiega Natalia Aspesi,
festeggiata dal “Venerdì di Repubblica” per i 95 anni, a Marco Cicala: “È gente
che è diventata vecchia con Repubblica…. Sono gli stessi di qualche
decennio fa, ma sono invecchiati e non ce ne sono di nuovi”. Anche nelle lettere
al giornale ricorrono spesso vecchi nomi, qualcuno degli anni 1980.
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Ombre
Vite da cani spassose – sotto la Bomba
Tre romanzi sul mondo dopo
la Bomba: “Il superstite”, “Ferragosto di morte” e “Il mondo senza nessuno”. Il
superstite, del romanzo più lungo e strutturato, è Lucky, un cane. Veramente lo
è il suo padrone, persona molto impegnato sul sociale, contro la Bomba, ma è
uno che non ha spessore, Lucky invece riflette molto, è perfino spinozista, si
appassiona, intristisce, tenta sempre di giocare ma a volte non ci riesce.
Insomma, fa una vita da cani. Mai altrettanto brillante e spiritosa come col suo
“padrone” Cassola. Un gioiello per i cinofili, un divertimento, pur nella
tragedia, per i non fedeli.
“Ferragosto di morte” è
il romanzo di Ferruccio, il “padrone” di Lucky. Degli ultimi suoi giorni di
vita, colpito dalle radiazioni. Che gli consentono di riviverla in vari momenti,
gradevoli e non.
“Il vento era la sola
cosa viva rimasta” è l’incipit del terzo romanzo, “Il mondo senza nessuno”. Un saggio
in realtà, in forma di discussione, con interlocutori invisibili, sul tema “che
il mondo debba avere un senso”. E che “l’arte un fine se lo propone sempre”. Se
lo dichiara, come il pacifismo, e se non lo dichiara. E ancora: “So bene che,
quando non ci saranno più gli uomini (cioè molto presto), non ci sarà più
nemmeno la bellezza”. È un memoriale, monte Voltrajo, le Colline Metallifere,
Volterra, una natura che è stata, si è trasformata, e forse non sarà. O una
divagazione, al modo di Sterne, di cose vissute, viste, ascoltate, lette,
contestate, meditate, riviste – un dialogo a più voci in forma di monologo.
Un regalo. Per i lettori: tre romanzi – racconti lunghi per la verità - in
uno. Ma sotto un titolo infelice. Messi assieme sì per la materia ma nell’intento
di vendere ancora qualche copia. Senza una nota, una presentazione, un cenno biografico,
critico.
È l’ennesimo monumento allo scrittore buono e bravo, sì, ma solitario, e
quindi trascurato. “Non in linea”, si diceva una volta, quando la “linea” era
politica, e quindi a su tempo snobbato dalla critica. Ma oggi che sarebbe più
che in linea – più green di Cassola, specie nel terzo saggio-racconto,
ma anche nel primo, e nel secondo? Anche non curato nella memoria - dagli
aventi diritto, dagli editori, dai letterati.
“Il superstite”, e di più “Il mondo senza nessuno”, accennano all’isolamento
che il Gruppo 63, cioè Eco, Arbasino et al., decretò nei suoi confronti.
Ma anche di Bassani avevano decretato al fine, che invece è ampiamente
recuperato, dall’editoria, dai lettori, dalla critica. Cassola si può dire l’unico
grande scomparso.
Carlo Cassola, Trilogia atomica, Oscar, pp. 389 € 15
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