sabato 10 agosto 2024
Il Dragone medaglia d'oro alla gara del pil
La Cina ha una quota maggiore del pil mondiale rispetto agli Stati Uniti, secondo il Fondo Monetario, se la si calcola a parità di potere d’acquisto (un dollaro internazionale ha lo stesso potere d’acquisto che ha un dollaro negli Stati Uniti). Nel 1990 la quota Usa del pil mondiale era del 21,5 per cento, quella cinese di appena il 4. Nel 2022 le quote si sono invertirtìte: quella americana è scesa al 15,6 per cento, quella cinese moltiplicata al 18,5.
Ma la Cina siamo (un po') noi
C’è poco da scherzare con la Cina, come i media italiani
hanno fatto per la visita di Meloni a Xi: la Cina ora siamo noi. Non propriamente,
siamo noi in veste di richiedenti. Meglio ancora: lo è la Germania, cui il
sistema produttivo italiano è legato a filo doppio. Se bisognerà staccarsene,
per le strategie americane, calcola un rapporto della Bundebank, sarà “un colpo
enorme”.
La (ex) banca centrale tedesca conta 756 gruppi tedeschi,
banche e industrie, “particolarmente esposti in Cina”. Le banche hanno crediti
in essere con le imprese tedesche che hanno investito in Cina per 220 miliardi.
Un’esposizione non criticabile, giacché, a fronte di un 6 per cento quale quota
cinese degli investimenti esteri tedeschi, dalla Cina si ricava il 15 per cento
degli utili complessivi. Tanta redditività è ora un rischio.
Il rapporto Bundesbank spiega anche, citando i dati Bri,
della banca dei regolamenti internazionali di Basilea, che la Gran Bretagna è
ancora più esposta, con 238 miliardi solo a Hong Kong.
La riscoperta di una grande operista italiana, a New York
Una riscoperta, in occasione della ripresa
dell’opera “Anna di Asburgo”, da parte del Teatro Nuovo (una compagnia
operistica americana creata cinque anni fa da Will Crutchfield), rappresentata
a New York all’Istituto Italiano d
Cultura, della compositrice Carolina Uccelli. Dopo 189 anni. L’opera era andata
in scena al Teatro del Fondo di Napoli (oggi Mercadante) nell’autunno del 1835,
quando la compositrice aveva 25 anni (ma altre cronache dicono nel 1832, appena
l’opera era stata scritta, quindi a 22 annii). Poi ripresa poco, “una mezza
dozzina di volte” (Crutchfield).
Una compositrice e un’opera che il critico musicale
della rivista trova “notevolmente inventiva”. Il personaggio di Anna dà “l’impressione
di una mente musicale estesa, che possiede coscienza storica e intelligenza innovativa
in eguale misura”. Un’opera e una compositrice lodata da Rossini – che nel 1830
aveva assistito al debutto a Firenze della compistirce, allora ventenne, al teatro
della Pergola, con l’opera “Saul”.
Alex Ross, Two Centuries later, a Female Composer
is rediscovered, “The New Yorker” 9 agosto 2024
venerdì 9 agosto 2024
Se scarseggia il lavoro
Il
lavoro merce scarsa, chi l’avrebbe detto. Fra breve, ha potuto scrivere Prodi, “comincerà
la concorrenza, non solo fra imprese, ma anche fra gli stessi paesi”, ad
attrarre forza-lavoro straniera. Con salari migliori, con condizioni di vita e
di lavoro attraenti.
Prodi
scriveva in contemporanea col governatore della Banca d’Italia Panetta nella
sua Relazione annuale. Che ha fatto il conto dei giovani italiani emigrati fra
il 2008 e il 2022: 525 mila. Solo un terzo dei quali è poi ritornato. Emigrati
intellettuali prevalentemente. Finiti all’estero per due motivi semplici, ha
detto Panetta: “Opportunità retributive e di carriera decisamente più
favorevoli”.
L’Italia
è sfavorita in questa gara dai bassi salari. Un fenomeno ormai trentennale, e non
contestato: fra il 1990 e il 2020 le retribuzioni reali (al netto dell’inflazione)
hanno perso il 2,9 per cento. L’unico caso fra tutti i paesi industrializzati che
fanno parte dell’Ocse (sono 38, tutto l’“Occidente”). Con un’accelerazione
negli ultimi anni: l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha calcolato
una perdita di valore reale rispetto al 2008 del 12 per cento.
L’occupazione
aumenta perché è poco remunerata. Ma è temporanea (precaria) e poco produttiva.
No solo i salari sono indietro col mondo, anche gli investimenti. Gli investimenti
deficitano perché si può ancora usare manodopera precaria – i due fatti sono interrelati,
in quello che si dice il deficit di produttività (il valore aggiunto per unità
di prodotto con cui si batte la concorrenza produttiva).
Chi mafioso non è
Incredibile
montagna di accuse, apparentemente fondate, dell’ex giudice palermitano Ingroia
contro Pignatone, l’ex Procuratore Capo di Reggio Calabria e Roma, poi giudice del
papa Francesco, e ora sotto accusa a Caltanissetta.
Che
il padre era in rapporti politici con Salvo Lima, e di affari immobiliari con la
mafia del dossier Mafia e appalti, e quindi il giudice non avrebbe dovuto avere
la delega per lo stesso dossier. Che era
in pessimi rapporti con Falcone e lo osteggiò. Che il pentito Brusca lo disse
in rapporti con la mafia, ma che il verbale della deposizione, inviato a
Caltanissetta, fu archiviato – Brusca era riconosciuto attendibile. Le carte inviate a Caltanissetta dettagliavano
gli appartamenti costruiti dai mafiosi e ceduti alla famiglia Pignatone a
prezzi minimi, “sostanzialmente regalati” (“tra questi c’era quello di cui
godeva il dottor Pignatone e dove credo abiti tuttora”).
Seguiranno
smentite e querele. Ma si capisce che l’antimafia non funzioni.
Olimpiade di bellezza
Non si può dire, è scorretto, ma che abisso tra
questa Olimpiade e la pacchianeria di Parigi! È l’Olimpiade di Berlino,
assegnata alla Germania di Weimar e poi celebrata da Hitler, che ne fece una
manifestazione di potere. Il confronto non si può fare ovviamente con Parigi,
questo film non è sulla cerimonia inaugurale, è costruito con molto lavoro, su
400 mila metri di pellicola, dopo l’evento, per due lunghi anni di selezione e
montaggio delle immagini. Ma l’Olimpiade celebra, in anni hitleriani, come
manifestazione non di forza, non solo, più ancora di bellezza. Diviso in due
parti, “Olympia - Festa di popoli” e “Olympia – Festa di bellezza”, si direbbe
un film perfino anti-hitleriano: non contano i pugni più duri delle braccia più
muscolose, ma la forza nell’armonia, la fatica nello stile.
All’epoca, quando uscì, nel 1938, due anni dopo l’evento,
meravigliò tutte le platee. Per l’uso delle tecniche cinematografiche più
nuove, affinate: primi piani naturalmente, nei momenti topici, il ralenti o slow motion, carrellate lughe. Ma soprattutto legato, vibrante, al
montaggio – che è poi dove di fatto si fa il film (si gira di tutto, e poi si racconta con i materiali migliori). Proposto
per lingue e culture diverse con tre (parzialmente) diversi montaggi, in inglese
e in francese, oltre che in tedesco.
Riefenstahl è stata poi processata dopo la guerra,
ma senza condanne. A lungo i suoi film tre film “politici” (“La vittoria della
fede” e “Il trionfo della volontà”, sui congressi del partito Nazista, più questo,
considerato anch’esso politico) invece sono stati “condannati”, non
riproducibili. Ma New York ha riabilitato Riefenstahl nel 1975 (mentre Susan
Suntag contestava la riabilitazione ma senza esserne convinta), Aveva debuttato
come regista nel 1932, con un film, “La bella maledetta”, presentato alla prima
edizione del Festival di Venezia.
Leni Riefenstahl, Olympia
giovedì 8 agosto 2024
Sinistrismo carcerario
Fa
due pagine il “Corriere della sera” (in aggiunta alla prima pagina) sul decreto carceri, convertito in legge anche
alla Camera, dopo il Senato. Ma bisogna saperlo. Il titolo in grande della prima pagina è allarmante, di un ennesimo scontro, questa volta sulle regole (di che?) .Tre quarti di pagina sono
sulle “proteste e liti alla Camera”. Altri tre quarti su un incontro
Nordio-Meloni, il ministro della Giustizia dal presidente del consiglio, ma non
si sa su che cosa – si sa solo che “manca l’accordo tra gli alleati”. Una mezza
pagina è dedicata a un ordine del giorno di un deputato, Costa, non si sa di
che partito - presumibilmente di Azione. Sul decreto, ora legge, solo cinque righe:
“Il testo prevede l’assunzione di mille agenti in due anni; procedure più
snelle per uscire dal carcere a chi ne ha diritto; più telefonate settimanali
ai detenuti; un albo di comunità in cui i condannati con residuo di pena basso
potranno terminare la condanna”.
L’informazione
esula dal giornalismo?
Si
vuole dire che la sinistra è più forte del governo? Improbabile, ma è lecito. Ma
la sinistra che obietta alle telefonate, alle comunità invece del carcere, e
alle uscite rapide? Sembra improbabile. È un sinistrismo amico del giaguaro? È possibile,
i giornali hanno ragioni che la ragione non conosce. E il lettore?
Il mondo com'è (477)
astolfo
Napoleone – Era spietato.
Ecco perché, se ben accolto in Germania e nel Lombardo-Veneto, aree già
politicamente e amministrativamente strutturate, che si aspettavano da lui i
lumi della rivoluzione, non lo fu in Spagna, in Sud Italia, e poi all’Est –
nessuno dei popoli sudditi dell’impero
russo, gli stessi che oggi fanno la guerra alla Russia post-sovietica, si
sollevò al suo passaggio. Ovunque le sue armate avevano libertà di saccheggio e
di stupro per due giorni. Il fratello Giuseppe, che aveva nominato a Napoli,
riteneva e diceva un debole perché non usava le maniere forti: saccheggi, anche
in un regno che non si era granché opposto, comprese le violenze personali,
contro le donne e contro chiunque, e distruzioni. Era uno che occupava, e non
liberava.
In
“Cronache della Calabria in guerra” – contro i francesi – lo storico Atanasio
Mozzillo riporta un testo fin troppo chiaro delle modalità con cui si faceva la
“liberazione” napoleonica, redatto come promemoria storico della lunga
opposizione calabrese alla dominazione francese, sotto forma di verbale, dal
Consiglio Provinciale di Calabria Citra, filofrancese, a Cosenza: “Lo spoglio di particolari
e delle comuni, le esazioni di ogni genere anche inutili, che ogni subalterno
si permetteva; la insultante credulità con cui venivano trattati gli abitanti;
il dispregio, l’oltraggio, le insolenze usate contro degli amministratori delle
comuni, contro degli impiegati pubblici; il nessun conto tenuto delle opinioni,
de’ costumi, de’ pregiudizi del popolo; la intera licenza permessasi nello
interno delle famiglie stesse, che si portava a che niun pubblico edifizio,
nessun utile stabilimento, niuna casa, ancorché privata, lasciò illesa furono i
soli principij della condotta tenuta nella nostra provincia. Ecco come per tre
anni è stato quasi costantemente trattato il popolo calabrese, e come se la
milizia non fosse bastata a mettere la desolazione nel paese, chiamò in suo soccorso
folla di esteri avventurieri, che coprirono le cariche più luminose, portandovi
uno spirito tanto più raffinatamente rapace quando era frutto della speranza”.
Croati e corsi, e qualche generale spagnolo.
Guillaume
Postel
– Inventò l’Oriente – e per converso l’Occidente. C’è un Oriente creatura
dell’Occidente, fumoso – quello di Pessoa: “Cerco nell’oppio che consola\ un
Oriente a oriente dell’Oriente”, una via di fuga. Una cosa da turisti anche se
risale al Cinquecento, al Postel che per ultimo si eresse nel 1553 in difesa di
Serveto, il negatore della Trinità bruciato dai calvinisti, nel nome della fede
ragionata e avrebbe voluto essere gesuita.
Guillaume
Postel non era un fregnone, fu anzi uno studioso, dell’islam, le lingue
semitichle, l’impero turco, Atene all’era di Pericle, la unione delle fedi, il
dialogo tra monoteisti, cattolici, riformati, mussulmani, ebrei, ma aveva le visioni
e costrinse sant’Ignazio a denunciarlo all’Inquisizione, e il buon papa Paolo
IV a rinchiuderlo, dannandolo ad infamiam
amentiae, all’infamia della follia, e all’Indice. Il carcere gli fu aperto quando
il papa morì nel ‘59, ma Postel si isolò nel priorato di
Saint-Martin-des-Champs a Parigi, oggi sede del Conservatorio e del Museo arti
e mestieri, dove morì nel 1581.
Le visioni erano di una Madre Zuana o Giovanna, Vergine Veneziana, o Veronese, Mater
Mundi, Nuova Eva, Donna santissima, Messia femmina, che si voleva incarnazione
dello Spirito Santo: Postel scriveva per conto di lei, delle sue mistiche
unioni.
Il primo
orientalista, a lungo il migliore, filologo solido, debuttò a tredici anni come
maestro di scuola al suo paese in Normandia. Poi decise di continuare gli studi,
al collegio Santa Barba a Parigi dove entrò domestico. A ventotto anni era professore
al Collegio di Francia di ebraico, arabo e siriaco, nonché di greco e latino.
Nell’occasione pubblicò in latino una Introduzione
ai caratteri alfabetici di dodici differenti lingue – in essa decritta le
iscrizioni sulle monete della rivolta ebraica come ebraico scritto in caratteri
samaritani. A ventisei anni, nel 1536, era stato parte dell’ambasceria di
Francesco I a Costantinopoli, alla corte di Solimano il Magnifico, in veste d’interprete
e collettore di testi classici, greci, arabi, ebraici - il re cristianissimo cercava
un’alleanza con i turchi contro Carlo V, il protettore della cristianità.
Insegnò a Parigi, Vienna, Roma, Venezia e altrove. A Parigi, le sue lezioni al
collegio dei Lombardi richiamarono tale folla che dovette tenerne anche in
cortile, da una finestra. Nel 1575 dedicò le sue “Histoires orientales” a Francesco di Valois, che Caterina dei Medici avrebbe
voluto affidargli fanciullo.
Delle
opere riscattate in Oriente Postel editò gli astronomi arabi e la Cabala. Fu
traduttore in latino dello “Zohar”, del “Sefer Yezirah”, del “Sefer ha-Bahir”,
nonché illustratore dei significati cabalistici della menorah. Con aperture che avrebbero potuto eliminare alla radice le
derive maschiliste della cabalistica, ma gli valsero l’ostilità di sant’Ignazio.
L’inquisitore Archinto, cui il santo lo denunciò, lo assolse e l’ordinò prete,
“a titolo di purezza, come erano gli apostoli”. Ignazio lo sottopose allora a
una speciale commissione di tre giurati, i gesuiti Salmeron, Lhoost, Ugoletto,
che lo dichiararono “soggetto a illusioni manifeste del demonio”.
Postel
aveva conosciuto Ignazio di Loyola quando questi era a Parigi, al collegio dei
Lombardi. E aveva preso i voti di povertà, castità e obbedienza, quale novizio
gesuita, a Roma, ripetendo il giuramento nelle sette chiese. Degli astronomi
arabi fu preciso commentatore, facendo dubitare della conoscenza che si aveva di
Copernico allora in Europa, se non dello stesso Copernico.
Sagacia
analoga il Postello della Vergine Veneziana applicherà all’Egitto, ed è
l’inizio dell’orientalismo, di cui tanto Oriente, oltre che l’Occidente, è
vittima. La “fede ragionata” e la “ricomposizione di tutte le cose” nella fede
unita annegheranno nell’egittologia. Che sarà napoleonica per essere stata di
Postel, in quanto autore della “Chiave di tutte le cose”, ossia dei tarocchi –
l’Egitto del futuro imperatore era nelle carte.
Filologo
ineccepibile, Postel deriva tarocco dall’egiziano taro, strada reale, termine composto da tar, strada, e ros o rog, regale – da cui, forse, la Scala
Reale del poker. Lo studioso individua anche un nesso fra tarocchi e cabala,
tra i semi e gli elementi primordiali. Nello stesso anno, 1540, in cui si
creava a Rouen la prima società dei maestri cartai. Che nel 1581, l’anno in cui
Postel morì, diverrà arte riconosciuta all’interno della Corporazione arti e
mestieri di Parigi, quella che avrà poi sede al boulevard Saint-Martin, e
assoggettata a imposta di bollo. Ma semanticamente Postel collega gli Arcani
Maggiori ai geroglifici del “Libro di Toth”, il dio della medicina. Geroglifici
che ancora per secoli non saranno leggibili.
Nel
1549, illustrando “La vera descrizione del Cairo”, la mappa stampata a Venezia
da Matteo Pagano, Postel spiega, sempre correttamente, che la città è turca più
che araba, e che le Piramidi sono “mostri incoronati”, monumenti alla
tirannide, non i granai di Giuseppe che si dicevano. Ma nella “Chiave di tutte
le cose”, pubblicata lo stesso anno, apre la città ai misteri, Il Cairo
costituisce da sempre un problema aperto per l’orientalismo. L’origine di
questo Oriente è in Plutarco, che attribuisce a Iside l’istituzione dei
misteri, grandi e piccoli, o verità esoteriche riservate agli iniziati, nonché
in Erodoto, Platone, Apuleio e perfino in Aristotele. Una serie di finzioni ne
germinò, culminata in Orapollo, l’autore dei “Hyerogliphica” che in realtà non
sapeva nulla dei geroglifici. In epoca moderna l’origine è in Postel, che più
di ogni altro pure ha affidabilmente tracciato le radici orientali, semitiche,
di tanta cultura occidentale. E nell’Inquisizione, che processò Postel per le
opere sulla fede unica, la fede ragionata, e sulla concordia religiosa, la
natura cabalistica dell’Egitto, poi teosofica, lasciando invece incontestata. E
fu l’Oriente taroccato.
Palizzi – Giuseppe Palizzi, di Lanciano, pittore,è solo
ricordato a Parigi, dove ha vissuto e lavorato, ed è stato sepolto nel 1888,
fra le persone illustri del Père Lachaise. Esponente della scuola di Barbizon,
una colonia artistica, di paesaggisti, della località omonima, e della vicina
Grez-sur-Loing, nella foresta di Fontainebleau, nei pressi di Parigi. Una
colonia che Stevenson molto amava, e ha
illustrato nelle note di viaggio “Across the Plains”, 1884 (oggi meta
turistica, nel nome di Stevenson, un “sentiero”a lui dedicato, tra natura e
pittura).
Si era formato
a Napoli alla Accademia di Belle Arti, e a Napoli aveva esposto i primi lavori,
alla Biennale Borbonica, nel 1839 e nel 1841, come paesaggista romantico,
specializzato in soggetti animali. Nel 1844 si stabilisce a Parigi, dove entra
subito in contatto con Corot e Courbet. E già l’anno dopo espone al Salon. Tornerà
spesso a Napoli, per esporre e vendere, nel 1854, nel 1859 e ancora dopo l’unità,
nel 1866. Ma è a Parigi che si era integrato, nella “Scuola di Barbizon”, di
cui resta l’esponente forse più noto.
Aveva messo su
casa a Grez-sur-Long. Nello studio-opificio richiamando i suo tre fratelli, dei
quali però uno solo resterà a convivere con lui, Filippo – Francesco Paolo, il
minore, preferisce Napoli, e il terzo, Nicola, presto lo raggiungerà, scontento
di Barbizon. I due fratelli, Giuseppe e Filippo, diventano famosi come “i
pittori degli asini e delle capre”. Scambiandosi spesso le firme, perché
Giuseppe vendeva meglio in Francia e Filippo in Italia.
astolfo@antiit.eu
Come la giustizia politica sbiancò Andreotti
Era
il processo che prometteva di rivelare in Andreotti l’architrave delle mafie, e
dei misteri d’Italia, e invece finì “come e perché Andreotti è stato assolto”.
Jannuzzi, cronista implacabile malgrado l’età e la nuova carriera, era
senatore, si sorbettò le udienze del lungo processo. Fin da subito mostrando però
la debolezza dell’accusa. Il Procuratore Capo di Palermo Caselli e i suoi
collaboratori fecero un processo politico senza curarsi di trovare un appiglio
di prova, anche un solo testimone non falso (ne produssero cinque o sei di
falsi, andavano processati loro).
Le
corrispondenze di Jannuzzi erano in realtà la denuncia del tentativo
giudiziario, di cui Caselli era solo la punta di un iceberg sommerso molto vasto,
specialmente a Milano, di sovvertire la politica. Riuscendoci ma senza vincere
– anzi perdendo: hanno portato al governo la destra, per la prima volta in
Italia, e ininterrottamente, anche se alcuni governi si sono fatti poi con
maggioranze alternative. Di Andreotti non si sono in realtà curati.
Era
anche facile legare Andreotti alla mafia. Ma loro volevano processare la
storia. Processavano Andreotti perché era stato il leader politico più
influente e duraturo al potere, per ben sette governi, di destra, di sinistra,
di centro. Senza coglierne l’essenziale.
Andreotti
è stato potente da subito, dal 1947, sottosegretario alla presidenza del consiglio
di De Gasperi per sette anni, da quando ne aveva 27 ed era uno sconosciuto, se
non in Vaticano. Ma era un leader politico molto minoritario, di una corrente Dc del 2-5 per cento. Divenne leader nazionale nel 1974, sfidando Moro con spregiudicatezza
e asprezza, con una forte campagna di stampa. Al punto che Moro dovette cooptarlo
quale capo del governo monocolore che creò nel 1976 con il voto Pci – e per due
governi successivi, sempre col Pci. Andreotti governò la fermezza, quando Moro
prigioniero implorava di essere salvato. E al voto del 1979 portò il Pci alla prima
sconfitta elettorale in trent’anni, del 4 per cento.
Un
freddo. L’Andreotti del 5 per cento aveva qualche seguito a Roma, in Ciociaria,
e in Sicilia. Qui portato da Salvo Lima, un ex fanfaniano. Che, come l’altro
grande ex fanfaniano, Ciancimino, governava accordandosi con le mafie –
barcamenandosi. Andreotti sapeva? Poteva non sapere, ma questo non discolpa -
non è nemmeno un’attenuante. Caselli e la turba di sostituti che per trent’anni
poi s’illustreranno con sceneggiati variamente immaginari – sempre meglio che
lavorare – hanno riscritto, dicevano, la storia d’Italia, senza curarsi di fare
un vero processo, in Tribunale – Di Pietro, uno che la giustizia politica ha
saputo utilizzarla con grandi vantaggi, li prenderà per i fondelli in
un’intervista qualche anno fa sull’“Espresso”,
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/pietro-bum-nbsp-nbsp-39-39-se-raul-gardini-parlava-se-salvo-lima-403676.htm
Lino Jannuzzi, Il processo del secolo, Mondadori, pp. 277 € 4,90
mercoledì 7 agosto 2024
A Sud del Sud - il Sud viso da sotto (567)
Giuseppe Leuzzi
Pignatone come il Procuratore Capo Giammanco,
insabbiatore del dossier mafia-appalti, tra la Eccher di Raul Gardini e Salvo
Lima, referente politico della mafia? L’indagine di Caltanissetta arriva semmai
in ritardo, dopo il libro di Mori e De Donno, “La verità sul dossier
mafia-appalti”, e le rivelazioni di Di Pietro nell’intervista all’“Espresso”,
da semplice cittadino, testimone comunque da sentire, nel 2020,
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/pietro-bum-nbsp-nbsp-39-39-se-raul-gardini-parlava-se-salvo-lima-403676.htm
Difficile immaginare una qualche colpevolezza di
Pignatone e del suo sostituto Natoli. Ma una sudditanza verso il Procuratore
Capo Giammanco, nel comune sentire democristiano, sì. E non si sa quale colpa
sia maggiore, l’errore di trenta e passa anni fa o questo immarcescibile
democristianesimo – un colpo di qua, un colpo di là, tutto si aggiusta.
Ogni tanto, nella prime lettere della feconda
corrispondenza, Calvino indirizza a Sciascia, Racalmuto, talvolta Recalmuto
(Reggio Calabria). Si vede che, malgrado l’amicizia, la classificazione costante
di Sciascia come ipersiciliano, e un viaggio a Palermo per una “Settimana
Einaudi”, l’hic sunt leones valeva pure per Calvino,
Dopo le prime sviste Sciascia adotta una carte
intestata (prestampata):
Leonardo Sciascia
Racalmuto (Agrigento).
Però, Calabria non è Sicilia. Oppure è uguale?
“Il primo scritto che io lessi di lui”, di Sciascia, spiega Calvino in una
intervista con “L’Ora” il10 giugno 1975, “le sue ‘Memorie di un maestro’, era
uno scritto che si staccava, negli anni ’50, da tutta una letteratura
meridionalista, documentaria, sociale, che era ingente. Si staccava per la
terribile disperazione che comunicava, una disperazione che, come sempre le
rappresentazioni molto pessimistiche, non aveva un effetto schiacciante,
scoraggiante, ma, al contrario, comunicava grande forza”. Ai letterati
siciliani sì, ha aperto i portoni, ma all’isola? Si direbbe un’eccellenza in un
lago di pessimismo. Un lago di nuova avventurata formazione – di vittimismo,
roba da prefiche al caro estinto, il leghismo non c’entra: un lago atrofizzato,
di sabbie mobili.
Il potere
delle maschere
Della Sicilia so tutto, scriveva Calvino a Sciascia il
10 novembre 1965, dopo aver ricevuto in lettura il dattiloscritto del
“Consiglio d’Egitto”: “Da un po’ di tempo mi accorgo che ogni cosa nuova che
leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui ormai mi
sembra di sapere già tutto, assolutamente tutto. Questa Sicilia è la società
meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido, cristallino: le più
tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologia, pettegolezzi, delitti,
lucidezza, rassegnazione, non hanno più segreti, tutto è ormai classificato e
catalogato”
Che sembra un complimento ma non lo è: è la fissazione
di un cliché. È un complimento per
gli scrittori, che hanno saputo creare un mondo, ma non per la terra, non per
la sua gente. Calvino continua complimentoso, paragonando la Sicilia di
Sciascia a “una bella partita a scacchi”, al “piacere delle combinazioni di un
numero finito di pezzi a ognuno dei quali si presenta un numero finito di
possibilità”. Finito e definito, catalogato, fissato. “Un tema”, uno solo, sempre
lo stesso.
La Sicilia come macchietta, muta? Calvino voleva
ironizzare sul pirandellismo di cui molti siciliani si crogiolano? Ha lanciato
all’amico, cosi chiude la lettera, una “freccia del Parto”- una frecciata, una
provocazione.
“La Sicilia” è fissata. Come “la Toscana”, per dire,
all’altro estremo, della virtuosità: lindore, pulizia, radicamento, e cultura naturalmente,
rispetto, cura, valorizzazione, ben servita e ben curata, ottime strade, ottime scuole, ospedali efficienti.
In una parola: il Buongoverno. Cosa che non è, da molto tempo, si direbbe in
ogni aspetto, strade, scuole, medici, eccetera – compresa la cucina, che una
volta era saporita e schietta, e faceva aggio a Roma e Milano. Allo stesso modo
la Sicilia viene anch’essa mascherata, incrostata, “fissata”, solo dell’orrido.
Mattarella o della Sicilia in pace con se stessa
Il passo stabile, sicuro. In
situazioni politiche caotiche. Cottarelli, Conte, chi erano costoro? Alleanze
di opposti. Giovanotti e signorine di nessuna qualità tra cui scegliere i ministri. Venendo da una storia personale “estremamente siciliana”, di estremi
di ogni tipo, morali e politici, compreso l’assassinio del fratello maggiore. E
farsi personificazione di Equilibrio. Stabilità. Certezza, del diritto e della
politica. Riconosciuto e rispettato anche da “Milano” e ogni interesse costituito.
Dare stabilità alla XXIIIma
legislatura, sia pure a rischio, come ora appare, del fallimento della ditta, è
stato prodigioso. Tanto più per la misura dispiegata, dei tempi e dei modi. Senza
mai strafare. Senza interventi chiassosi, minacciosi, capricciosi, notabilari.
Con tatto e perfino con Garbo.
Mattarella è l’unico presidente
della Repubblica siciliano. Non per esclusione, cinque presidenti su otto sono stati
“sabaudi”, sardi e liguri cioè compresi. È così, è avvenuto così. Ma non è “siciliano”:
è al naturale, non si vede che sia in qualche modo artefatto, regolato da
consigliori, gestito da specialisti d’immagine, e non è “siciliano”. Quindi la
Sicilia non è come Calvino scriveva a Sciascia, “so tutto della Sicilia”.
Sudismi/sadismi
Il ministero dell’Istruzione
fa il conteggio della maturità, il “Corriere della sera” riferisce: “Emerge una
forbice Nord-Sud. Nel secondo caso sono molti di più, in percentuale, gli
studenti maturati con il massimo dei voti: in Lombardia,Trentino-Alto Adige,
Veneto i maturati con 100 e lode sono poco più dell’1 per cento, percentuali
più alte in Calabria (5,4%), Puglia (5,1%), Sicilia (4,1%)”.
Questa volta c’è solo il comunicato,
non c’è la contestazione che le commissioni dì esame sono al Sud degli “amici”,
o e le scuole raccomandate – la discrezionalità delle commissioni è minima, un
3 per cento. Ma la stizza sì, si vede dalla redazione fintamente neutrale del
comunicato, riscritto sempre in termini di opposizione.
Cronache
della differenza: Calabria
Matrice
della “rivoluzione italiana” la vuole lo storico napoletano Atanasio Mozzillo,
introducendo la sterminata ricerca “Cronache della Calabria in guerra”, contro i
francesi di Napoleone, al § “Realtà e mito calabrese”. Ispiratrice dei moti insurrezionali.
Sul
“Corriere della sera”, per la promozione “Un viaggio con le firme”, il capo
redattore Carmine Festa invita alla Calabria “terra dura”. Invece si direbbe
terra molle. Non solo per i terremoti e le frane. Per il vivere quotidiano, rassegnato. Attivo, anche intraprendente, fuori, a casa invece inerte.
C’è
un “iracondo calabrese” nel racconto di Pasternak “Il tratto di Apelle”, che
inscena Heinrich Heine in Italia, tra Firenze e Ferrara. Fa il cameriere
d’albergo, a Ferrara. Ma inverte i ruoli, rispetto al “calabrese” classico,
brigantesco: “Questo furfante”, dice di “un monello” incaricato di una speciale
missione dal poeta, “ha proferito
addirittura delle minacce”. E quando il ragazzino chiede a Heine cento soldi,
“senza convinzione e trasognato”, se ne ride: “Ridono tutti, ride spropositato
anche il cameriere, soprattutto il cameriere”. Cento soldi erano dieci lire,
quasi un capitale – dipende dai punti di vista (il poeta glieli dà).
Sui quattro allenatori
italiani di Nazionali straniere all’Europeo 2024 due erano calabresi, Tedesco
di Vibo Valentia e Calzona di Rossano. Curioso record. Calabria come emigrazione?
Nemo propheta in patria?
C’è molta Calabria nel memoir
di Antonio Franchini sulla madre, “Il fuoco che ti porti dentro”: i
fidanzatini di lei, uno bello, uno intelligente. Uno o due generi. La parte
jonica e quella tirrenica. Ci “sono ottanta chilometri, da Marina di Tortora a
Paola, invasi dai miei concittadini”, concede Franchini, napoletano, “per
garantirsi una vacanza a buon mercato”. Senza, i luoghi non sarebbero “brutti
per niente. Solo una striscia di costa di Calabria settentrionale è devastata”,
quella da Tortora a Paola.
L’appartamento a mare, nella
babele “napoletana” di Scalea. era un legame moderno della Calabria con Napoli,
c’era la possibilità di una connessione feconda, che in una generazione è svanita.
I “napoletani” in vacanza come ricorda Franchini hanno anzi segnato una rottura
definitiva.
Nella
caccia al voto per le Europee nella circoscrizione Sud Sgarbi ritorna a Sant’Andrea
Apostolo dello Jonio, e con l’ex sindaco Gerardo Frustaci ricorda, “nella
gloria della sua scelta calabrese, Anna Gastel, che ora non c’è più. Aveva
lasciato alle spalle la grande Milano per rifugiarsi qui, per avere i cieli e
il mare di questo paesaggi nel cuore”, un paesaggio in effetti straordinario,
“per ritrovarli in paradiso”. Anna Gastel è morta a gennaio, di settant’anni, a
Milano dove si curava. Nipote di Luchino Visconti, molto attiva nel mercato
dell’antiquariato (Christie’s), nell’ambientalismo (Fai), e nella musica
(MiTo), è stata celebrata a Milano con lunghe commemorazioni (obituaries).
Nessuna delle quali menziona Sant’Andrea Apostolo dello Jonio.
Ci
voleva lo stesso Sgarbi, nello steso articolo, la sua column sul
settimana femminile del “Corriere della sera”, “Io Donna”, poche righe, per
rivelare a Reggio e ai reggini il Palazzo della Cultura, l’Istituto Alfonso
Frangipane, “pieno di ceramiche e di mirabili tessuti prodotti nella tradizione
di quella scuola d’arte, e il Museo San Paolo, una eterogenea collezione di
dipinti antichi, sculture, oggetti d’arte, icone, argenti, pianete e piviali,
febbrilmente raccolti da un prete. «sacerdos et civis», Francesco Gangemi, per
salvarli dai mercatini che umiliavano la loro destinazione prevalentemente
religiosa”. Nessuno che ne sappia a Reggio, che si sappia.
Calvino
ha scritto il “Barone rampante”, di getto, a Praia a Mare, in vacanza, l’estate
del 1956, con Elsa De Giorgi, con la quale allora si accompagnava – dedicataria
originaria delle “Fiabe italiane”. Lo dice, e lo prova, De Giorgi in “Ho
visto partire il tuo treno”, il ricordo della sua storia con lo scrittore. Lei s’indentifica
nella Viola-Paloma del “Barone rampante”, 1957 – di cui la scrittura fu alacre
sulla spiaggia di una caletta a Praia a Mare, l’estate precedente: “La prima
copia di stampa del Barone rampante Calvino me la portò di
persona a Milano dove, al piccolo teatro con Strehler, recitavo Madame Roland
nei Giacobini. In stampa il libro era dedicato «A Viola» e a mano
«A Paloma, il barone»” - la prima copia “ci rese molto felici”.
L “caletta di Praia a mare” è nella “striscia di costa
della Calabria devastata” di Franchini, qualche anno più tardi.
Dice un carcerato, in cambio di una riduzione di pena,
che Chicco Forti, estradato dagli Stati Uniti come un atto di liberazione nazionale, con Giorgia Meloni ad aspettarlo in pompa a Fiumicino, benché in
catene, gli ha chiesto di fornirgli uno ‘ndranghetista per uccidere Selvaggia
Lucarelli e\o Travaglio. Perché uno di ‘ndrangheta, uno si chiederebbe. Perché
è la sola malavita da quando, trent’anni fa, o quaranta, i servizi segreti
salvarono l’annata d’ozio decretandola sic
et simpliciter la più grande organizzazione criminale del mondo. Come nascono
i miti, a volte è semplice.
L’Anas
rifà (ad agosto….) l’asfalto nelle strade con cui attraversa i piccoli Comuni,
senza scarificare il manto precedente. Si vedono così strade al livello ormai del
marciapiedi. Inevitabile, alle prime piogge, l’allagamento dei pianoterra. Poi
si dice l’abusivismo e l’incuria.
leuzzi@antiit.eu