sabato 24 agosto 2024
Il debito, andava sanato prima
Si rinnovano quest’anno, come ogni anno, i “moniti” della Banca d’Italia sul debito. La scoperta dell’acqua calda. Ma senza mai ricordare che fu la Banca d’Italia a infilare l’Italia nell’euro senza prima consolidare il debito – come la Bundesbank insisteva (l’allora presidente della Bundesbank, Tietmeyer, lo diceva anche pubblicamente). Dopo avere forzosamente rinforzato la lira sul marco. Un bluff che fece la fortuna del grasso Soros, e tanta pena per gli italiani.
Prove di Grande Coalizione
Lo
jus scholae è un bella invenzione,
piace infatti a tutti. Anche se è una scoperta recente, per il successo di
Egonu&co all’Olimpiade: una palla alzata per capitalizzare il relativo
successo di Forza Italia alle Europee. Ma come non pensarci prima?
È
anche un bella invenzione politica: consentirebbe infatti la Grande Coalizione,
il sogno di Berlusconi: una grande Dc di nuovo riunita sotto un unito tetto, di
governo se non di voto, tra Forza Italia e Pd - come ricordava Marina, o era
Piersilvio?
È
anche un bella idea elettorale, anche se non si dovesse arrivare al voto
anticipato.
Anticipare
le elezioni però non porta buono. Forza Italia cavalca l’onda del voto europeo,
provando a recuperare i residui voti perduti a Salvini nel 2018 e nel 2019.
Quando si pensava – questo non va dimenticato - che il capo della Lega potesse
raccogliere il testimone di Berlusconi, prima che derapasse nell’oltranzismo,
lui stesso non sa bene di che cosa (in una lunga e ponderata intervista per il
voto del 1992, quando Berlsuconi politico era in mente Dei, nel volume “Elezioni. Istruzioni per l’uso”) Bossi
spiegava che il suo progetto era di occupare il Centro, di sostuire la Dc,
soprattuto in Lombardia e nel Veneto, dove la tradizione popolare era radicata
e produttiva). Lasciando Salvini a Vanancci, peraltro ingovernabile – o a se
stesso. Ma fino a che punto?
La musica reggae è viva, Marley meno
È un biopic,
anche molto sceneggiato, di Bob Marley. Che parte dall’osservazione del primo
produttore discografico dei caraibici: “Erano nessuno”. Bob Marley, Peter Tosh
e Bunny Livingston, quando capitarono nei suoi uffici a Londra - come dire:
devono tutto a me. Ma i tre furono presto un nome – a lungo cantarono in
trio, per una decina di album. Inquieti come tutti i “gruppi”, ma per un motivo:
il produttore che li ha accompagnò per i primi tour nei piccoli locali li ricorda
in eterna discussione, ma non sui ruoli, o sulle ragazze, o sui diritti,
discutevano di scrittura, di versi e di musica.
Il gruppo
poi si divise, e il film è su Bob Marley. Un po’ giulebboso, ma per una
ragione: Robert Nesta Marley è ritratto come un “onesto broker”, risolutore di
problemi, di ognuno. Compositore d’istinto, di versi e musica, insieme acuto e
semplice. Anche diretto, perfino brutale, ma senza intaccare il suo personale
fascino, di umiltà. Pur essendo un mezzosangue, che nella Giamaica degli anni
1940 pesava. Figlio di una nera e di un bianco, svanito già alla sua nascita,
non era di una comunità e non era dell’altra. In qualche modo, paradossalmente,
si radicò nell’ascendenza “rasta”, rastafariana. Di una comunità che iniziava le cerimonie con l’inno: “Morte all’uomo bianco e ai suoi
alleati mulatti”. Si fece allora nero per scelta. Radicandosi nel mondo degli
ex schiavi.
Il film
scarta presto Tosh e Livingston, centrandosi su Marley. E non gli fa un favore –
scade nell’agiografia Ma la memoria vale sicuramente il racconto che ne fa. Di
una musica reggae sempre viva, pur
avendo perduto dopo quarant’anni le asperità “rastafariane” con le quali il
trio si era emancipato, nella decina d’anni che lavorarono assieme,
dall’adolescenza ai venticinque-ventisei anni, con i Wailin’ Wailer, poi
Wailers.
Reinaldo
Marcus Green, One Love, Paramount +
venerdì 23 agosto 2024
L’africano è come noi
Fa senso leggere o vedere, per esempio in “Fratelli
Cabonai”, l’africano presentato, con le migliori intenzioni, umanitarie,
progressiste, perfino rivoluzionarie, come lo zio Tom. Magari giovane, ma sempre
“bovero negro”. Perché l’Africa non è questa, non è quella dello schiavismo – e
perché non c’è nulla di buono, per gli africani, in questo buonismo.
L’Africa, soprattutto a sud del Sahara, è diversa, ma
non per il colore, perché non si sa governare – non si sa come sarebbe possibile
governarla. Si governa da cinquanta-sessant’anni nella corruzione, il tribalismo,
le guere civili, gli assassinii e le legnate. Per ogni sorta di ragioni,
“religiose”, politiche, ideali, perfino “culturali”, ma al fondo sempre
ristrette al sopruso, e alla cosidetta indistinzione fra pubblico e privato,
cioè all’uso degli Stati e delle finanze publiche, compresi naturalmente gli
aiuti internazionali, Onu, Banca Mondiale, bilataerali, piuttosto massicci, a fini al più di facciata, palazzi, aeroporti, quasi sempre improduttivi, e a conti in Svizzera. È difficile
raccontare il non-sviluppo dell’Africa, malgrado risorse eccezionali e anche
trattamenti di favore nel commercio internazionale. Gli africani che scappano,
anche a costo di vivere in Europa o altrove di centesimi, fuggono da una
non-vita.
Sono persone che fuggono da una non-esistenza. Non è
comunque bagaglio di generosità o progressismo presentare l’africano come il
solito cugino povero a cui si deve compassione e aiuto. È un essere umano come gli
altri che tenta di rifarsi una vita. In condizioni – anche le peggiori
evidentemente – migliori. Perché non dire che scappa dall’Africa perché, quasi
ovunque, è diventata invivibile?
Questo sito ha
pubblicato una digressione qualche tempo fa che merita una rilettura
http://www.antiit.com/2021/12/gli-africani-sono-troppo-buoni-per-non.html
Un giovane africano è un giovane come gli altri, in
rotta con la famiglia, col villaggio, con la politica, in cerca di misurarsi
con se stesso e col mondo. Anche disadattato, perché no, è meglio – e più
giusto – considerarlo come tale se lo è. Anche quando non parla una lingua
europea – caso peraltro raro (quanti italiani parlano una lingua europea, o
imparano, essendo bergamaschi, il dialetto calabrese, o viceversa, essendo calabresi,
il bergamasco?).
La Russia cerca posto nell'ordine multipolare - ma torna statalista
Un’idea
controcorrente dell’imperialismo russo: la strategia di Putin non è restaurare
l’impero, né costruirne uno nuovo, l’eurasiatico, ma stabilizzare il posto della
Russia nel mondo multipolare, e mantenere la Russia nel solco di Pietro il
Grande, in Europa. In raccordo con le potenze asiatiche e con gli Stati Uniti indifferentemente. Un’analisi che questi due anni e mezzo di guerra in Ucraina
potrebbero suffragare: Mosca ha evitato ed evita un confronto diretto con gli Stati
Uniti - e con la stessa Ue, anche se imbelle.
“Ideologie,
Economie e Politica dalla fine dell’Unione Sovietica” è il sottotitolo:
un’enciclopedia ragionata della Russia qual è, piuttosto che quella che si dice
(che i servizi d’informazione dicono),
di una sociologa politica della Libera Università di Berlino, già alla
terza edizione. Oggi è il fallimento della linea occidentalista a dare il via al “contromovimento
conservatore illiberale”. Come già nel secolo scorso, dopo il crollo dell’Urss.
Alle elezioni dl 1996, cruciali per la definizione della nuova Russia, un forte
movimento “nazional-comunista”, più nazionale che comunista, quello di Ghennadi
Zyuganov, spinse Eltsin a chiedere l’aiuto dell’America. Clinton concesse
un’apertura di credito per 10 miliardi di dollari, e Eltsin sottoscrisse, nel
maggio dell’anno dopo, l’accettazione dell’allargamento della Nato in Europa
orientale. Era anche la Russia della prima costituzione post-sovietica, del
dicembre 1993, che escludeva “un’ideologia di Stato”, e riconosceva la
prevalenza del diritto internazionale sull’ordinamento giuridico nazionale. Ma
già il governo Primakov, nel 1998-1999, doveva virare verso uno “Stato forte e
interventista”, per evitare i ricorrenti rischi di fallimento (default). Putin spiega il nuovo corso ,
all’avvio del primo mandato presidenziale nel 2001, premettendo al suo
documento programmatico: “I principi universali dell’economia di mercato e
della democrazia devono essere collegati organicamente alle condizioni
specifiche della Russia". Un linguaggio misto, si può osservare, di nuove
speranze e vecchie realtà. Ma in politica estera c’è, senza alcun
tentennamento, nello stesso documento lo schieramento della Russia in Europa,
in un progetto di “Grande Europa”. Ereditando da Primakov, già ministro degli
Esteri, direttore dei servizi segreti esteri, direttore dell’Istituto moscovita
di Economia e Relazioni Internazionali, la dottrina del multipolarismo: Mosca
non può pensare in termini di superpotenza mondiale ma, nel “mondo multipolare”,
mantenere i legami con l’Europa e gli Stati Uniti, e insieme aprire a Oriente, a
Cina e India, i paesi di maggiore futuro.
Questa scelta di fondo resta valida, ma nuove tendenze sono emerse con l’allargamento
della Nato all’Ucraina e alla Georgia, in funzione cioè dichiaratamente
antirussa. Nell’ultimo decennio il quadro del multipolarismo nelle due ultime
presidenze Putin è cambiato: riemergono le tendenze euroasiatiche. Al cui centro
è scongiurare il bipolarismo Usa-Cina, che si vede come una sorta di confinamento
della Russia. Ma, soprattutto, sono cambiati due punti focali rispetto alla
Costituzione del 1993: la Costituzione del 2020, afferma apertis verbis “una nuova ideologia di Stato russa”. Una ideologia “illiberale-conservatrice”,
centrata sul concetto di “Stato-civiltà”. Con la statuizione della superiorità
della giurisprudenza russa su quella internazionale – da cui i tanti processi
politici, anche a carico di cittadini stranieri. Il nuovo Stato non è
totalitario, ma è decisore e decisivo.
Katharina
Bluhm, Russland und der Westen,
Matthes&Seitz, pp. 490, ril. € 33
giovedì 22 agosto 2024
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (569)
Giuseppe Leuzzi
Si ridicolizza l’uso social questa estate di mandare
due immagini, una del mare di mucillagini di Rimini o di Pesaro e una del mare
blu di Soverato o Tropea. Quando non si denunciano ritocchi artificiosi per
spargere veleno, magari a opera dei siti calabresi.
Ma le mucillagini sono un fatto, “La Nazione-Il Resto del Carlino” non fanno che
illustrare spiagge semideserte – col bagnino desolato: “Che ci sto a fare”. E non
si parla della Versilia-Riviera Apuana, col mare sporco di tutti i detriti dei
torrenti. Che si mangiano gli arenili. Tutte spiagge con le bandiere blu.
L’antimafia è
solo inefficiente?
Falcone non parlava mai con la
scorta, né buongiorno né buonasera, non la guardava nemmeno.
Le testimonianze dei capiscorta,
Domenico Bessone e Francesco Mirabella, alla presentazione del film che si gira
sul libro che Felice Cavallaro ha dedicato a Francesca Morvillo, concordano.
“L’atteggiamento (era) piuttosto formale”, dice di Falcone Mirabella. Che dal giudice
fu anche denunciato per “abbandono di posto di lavoro”, una sera che, dopo ripetute
richieste se aveva bisogno della scorta otre l’orario, per chiedere
l’autorizzazione al prolungamento dell’orario di lavoro, “lui si irritò molto e
disse che non aveva più bisogno di niente”. Salvo che alle 21 decise di uscire.
Da qui la denuncia – da cui Mirabella fu assolto.
Bessone invece non si capacita,
dopo tanti anni, che via d’Amelio non fosse stata “bonificata”, uno degli
indirizzi soliti di Borsellino: “Non ci hanno mai dato la zona rimozioni. Noi
avevamo fatto decine di relazioni perché sapevamo che in quel posto si poteva
morire, soprattutto dopo l’attentato di Capaci”. E da ultimo, tutto è possibile, commenta, “ma
la strage di via D’Amelio proprio non l’accetto. Borsellino poteva essere
ammazzato ma non in quel modo”.
Ma non c’è solo via D'Amelio,
anche l’autostrada, dove fu preparato l’attentato a Falcone e Morvillo, all’altezza
di Capaci. “La stessa cosa è accaduta con Falcone”, insiste Bessone: “Prima che
il giudice venisse trasferito a Roma …. l’autostrada era oggetto di attenzione
continua da parte della Polizia. C’erano pattuglie che andavano avanti e
indietro giorno e notte. Poi tutto è finito”.
Il padrino? È della mafia
L’arcivescovo di Crotone e Santa
Severina, mons. Angelo Raffaele Panzetta, sospende per cinque anni, dall’1
dicembre, padrini e madrine per battesimi e cresime. Perché dall’1 dicembre?
Perché per cinque anni?
Analogo provvedimento, si apprende
nell’occasione, è stato già adottato, a febbraio 2023, dall’arcivescovo di Palermo,
mons. Corrado Lorefice, per tre anni. Per tre anni, perché? Perché “questo
ufficio ha perso l’autentico significato esercitato a nome e per mandato della
chiesa, di accompagnamento nella vita cristiana del cresimato e del battezzato,
riducendosi a semplice orpello coreografico”. Sì, ma perché a Palermo e Crotone
e non a Cremona?
Sono proibizioni
estemporanee che più che altro esprimono la confusione della chiesa. In
contemporanea il vescovo di Locri, mons. Oliva, informa il giornale, “ha
lanciato la preghiera quotidiana per la pioggia” – “il testo, elaborato
dall’eremita Mirella Muià, parla dell’egoismo umano in questi tempi di
aridità”. Ma è un tipo di confusione
speciale, che si registra solo al Sud. La chiesa sa essere altro – la chiesa
è ben l’organismo politicamente più storicizzato (flessibile) che esista: se c’è
qualcuno che sa che una cosa significa una cosa oggi e un’altra domani è la
chiesa, lo sa perché l’ha insegnato.
Perché al Sud e non al Nord?
Perché Lorefice, Oliva e Panzetta sono prelati del Sud. E il Sud sa solo pensare
a se stesso in termini di mafia. Come uno che si facesse una prigione e vi si
rinchiudesse, protestando libertà. Per il preconcetto che il Sud è mafioso –
anche se il padrino è diventato mafioso in America
“Quem Deus vult perdere,
dementat prius”? a coloro che vuole perdere
Dio toglie prima il senno? Sì, ma questi sono al comando. La chiesa romana ha il merito fra i tanti di avere inventato la
democrazia moderna, seppure per cooptazione – è stata ed è il maggiore ascensore
sociale, in qualche modo libero (meno appiccicoso, per quanto gerarchico, che
in altre gestioni). Ma l’ascesa sociale non libera, contrariamente alla vulgata
che i poveri fanno migliori ricchi, gli ignoranti migliori sapienti (il “contadino
filosofo”), i convenzionali migliori cittadini. La libertà è esercizio, non facile.
E richiede giudizio.
Panzetta non lo dice, ma Lorefice
lo dice, e non sono i soli segni di confusione. Quasi quasi uno si dispiace per
la chiesa – che sia mandata in malora dalla mafia, dallo spettro della mafia (ma
che chiesa è?).
Certo, bisogna capirli, questi
vescovi, sono gente di sacrestia, senza nozione di mondo. Però, a Locri avevano
un vescovo di fuori, Bregantini, nominato dal coraggioso Woytiła, che aveva
ripulito la diocesi dall’Anonima – si dice per dire – Sequestri, e rilanciato
il circondario in immagine e in opere, e l’hanno allontanato – per mafia…. Deus dementat?
Ma il Sud non è autonomo, non sa esserlo
In Calabria non si parla del
Ponte, o poco e niente. Giusto per dire che sono partiti gli espropri, che
pagano bene (pare, nessuno sa nulla in realtà, giusto qualche voce) e nient’altro.
Non una voce a difesa dell’area che verrà distrutta o sarà di rispetto, all’ombra
per sempre e sotto le polveri.
Per la Calabria il Ponte è
solo un danno, ma nessuno l’ha mai detto. Una valutazione d’impatto ambientale?
E perché? Quattro o cinque paesi verrano sacrificati, per le fondazioni, gli accessi,
le aree di rispetto, nomi anche importanti, per bellezza, storia, caratterizzazione,
Bagnara, Scilla, Cannitello, Villa San Giovanni, Punta Pezzo etc., e niente. Un
bene naturale – sul tipo delle Cinque Terre per intendersi – sacrificato. E
Reggio Calabria definitivamente isolata, un cittadone sperduto sullo Stretto.
Per che cosa? Pochi credono
che il Ponte sarà mai ultimato. Ma anche se lo sarà, la Calabria è un luogo di
passaggio, che deve sostenere il traffico della Sicilia. È un po’, in piccolo,
il problema delll’Austria, del Tirolo, che deve sostenere il traffico tra l’Italia
e la Germania. Con la differenza che il Tirolo lo sa, e in qualche modo si
difende, ci prova, la Calabria invece mostra di non saperlo neppure – si parla perfino
di un contributo della Regione Calabria al Ponte..…
Su questo sfondo il
dibattito sulle autonomie, differenziate o non, è solo disperante. Non c’è
autonomia al Sud, capacità di autonomia. Non c’è in Calabria, ma in fondo in
tutto il Sud, capacit o voglia di autogestione, capacità politica. Al Sud, dopo
il movimento unitario, sono quasi due secoli, è mancata la politica.
Totalmente. Assolutamente. Ci sono stati presidenti del consiglio e presidenti
della Repubblica meridionali ma non c’è stato un Sud politico, in grado o con la voglia di
capire e di fare. Di utilizzare le leggi, di mettere a fuoco i problemi e inciderli
con le leggi. O se lo ha fatto, è per il “posto”, per un posto, qualsiasi,
proprio alla Checco Zalone.
La Calabria ha la colpa di essere
attanagliata da Napoli e dalla Sicilia – non danno scampo. Ma non accenna più,
nemmeno una finta, una lamentela, a difendersi. Una proposta, anche modesta.
Cronache della differenza: Puglia
“Un giorno nella spiaggia più cara d'Italia, nel
Salento: «1.200 euro in due giorni, ci hanno dato pure lo Champagne»”, con la c maiuscola, scopre
Elvira Serra sul “Corriere della sera” a Pescoluse, nel Salento – o glielo fa scoprire l’agenzia pr,
milanese?, che propaganda il resort? Quarant’anni fa, ancora trent’anni fa, il senatore Gennaro Acquaviva
provava ad animare un’economia morta col lavoro “ben fatto” a domicilio, abbigliamento e arredamento. Ma uno non sa se congratularsi.
“Estate flop nei lidi dela Puglia”, titola un mese dopo lo stesso giornale:
“Calo di affari per 40 milioni. Le
famiglie sono le grandi assenti, lamentano gli operatori”. Le “famiglie” non
possono, certo.
Una volta Puglia era sinonimo di levantinismo, fiuto per gli affari:
sapeva comprare, e anche vendere. Con la managerialità, le promozioni, l’immagine,
e tutto il superfluo, il fiuto basico è svanito? O la Puglia, più
semplicemente, è vittima del lombardismo, si milanesizza? Ma non al modo di
Celentano, di Abatanuono, dello stesso Modugno volendo: alla Checco Zalone,
alla Aldo di Aldo, Giovanni e Giacomo.
L’allenatore della
Carrarese, che ha portato la squadra alla serie B, forse per la prima volta, è salentino. Si chiama Calabro, non accentato. Di quando il
Salento era Calabria, una terra cioè bella e ricca, dice il nome.
Tallona la Toscana per numero di b&b, non si può
dire che sia fuori mercato. La Toscana, 3,7 milioni di residenti, ha il 12,9 di
tutti i b&b italiani censiti a giugno, la Sicilia viene seconda, con l’11,4
– più della Lombardia, 10 milioni di residenti contro sei, 11,1. Ma la Puglia,
con quattro milioni di residenti viene comodamente secinda dietro la
Toscana (la Lombardia ne ha 54 mila, la Puglia 48 mila).
Per l’immagine
della Puglia nessuno avrà fatto più di Meloni, che ci ha portato non solo il G 7
ma anche
il papa. Dopo Moro che ha rifatto la Puglia, anni 1960, e D’Alema, che ha
rifatto il Salento, anni
1990, hanno rifatto materialmente le due regioni, Meloni è quella che ha illustrato
il nome. Ma al voto
(poco, per la verità, appena 4 pugliesi su dieci hanno votato) ha preso poco più
della metà del partito
Democratico. La vecchia Dc – a cui la Puglia è sempre fedele - è quella “di sinistra”.
leuzzi@antiit.eu
La storia felice di un ragazzo africano carbonaio a Serra San Bruno
La
vita degli (ultimi?) carbonai a Serra San Bruno in Calabria, con un immigrato maliano
al lavoro, che ha dovuto lasciare ragazzo il suo Paese – bizzarramente ristretto al solo nome, Fofana (non ha un cognome, non è individuato, è il
“tipo” dell’immigrato). Carbonai della “fossa”, o “carazzi” nella parlata di
Serra San Bruno, di carbone da legna. Ripresi nella stagione cattiva, a
dicembre – quando in realtà non “si fa il carbone”, lavoro della primavera. Ma
giusto perché i due giovani autori, cineasti inglesi, si sono trovati a Serra San
Bruno nel tardo autunno?
Balzagette
lo presenta come un documentario politico, contro il “governo più a destra” mai
votato in Italia. Che fa della politica anti-immigrati la sua bandiera. Di
fatto è un documentario su un mestiere “storico”, quindi bizzarro, strano. In
un mondo ripreso come pre-moderno – Serra San Bruno, forse la prima delle
certose cistercensi in Italia, è un sito turistico di massa. Un documentario in
bianco e nero. Con poca luce. Breve, di 17-18 minuti – parlato in italiano. Ma
ambizioso: prova il film di caratteri. I personaggi che intervengono, in dialetto
o in italiano molto marcato localmente, sono caratterizzati. Nazareno Scrivo
carbonaio all’opera, con il figlio. Insieme con Fofana ricordano il carbonaio
Bruno Vallelunga, che a un incontro casuale con Fofana gli ha chiesto di
lavorare con lui. Nessun dramma: Fofana ha anche le carte necessarie, i carbonai
di Serra San Bruno vogliono essere in regola.
Il
titolo echeggia a un orecchio inglese i “cugini” carbonari di
centocinquant’anni fa, dei giovani mazziniani, anche non giovani – associati
nell’opinione europea (fino ai racconti di Stevenson) al primo terrorismo
politico. Molta malinconia, anche se la storia è di amicizia. E di fatica, ma
senza lagne, c’è l’orgoglio del mestiere. Fofana se ne andrà a Roma, dice – e
non ci sono ostativi o correttivi: solo che è giovane, e vuole vivere la vita
metropolitana. Forse, da Roma, riprenderà contatto con la famiglia, che ha deciso di lasciare, a Bamako.
La
rivista, che lo ha prodotto, è felice che il documentario sia stato selezionato
all’AFI Fest a Los Angeles fra un mese, dell’American Film Institute, Correttamente
presentandolo come “una storia di amicizia e lavoro duro, in mezzo alla retorica
anti-immigrati in Italia”.
Balzagette
è al suo secondo documentario sull’immigrazione in Europa. Il primo è stato,
cinque anni fa, con notevole successo, un cortometraggio ancora più breve di
questo,”Welcome to Harmondsworth”, un titolo che risuona come “mondo
dell’armonia”, ed è il nome di un villaggio inglese molto tradizionale e
pittoresco, abitato da vecchi pensionati, che in nelle vicinanze ha il più
grande centro di detenzione di immigrati illegali in Europa.
Felix
Bazalgette-Joshua Hughes, Fratelli
Carbonai, “The New Yorker”, free online
mercoledì 21 agosto 2024
L’America non teme più la Cina
Byd fa concorrenza a Tesla sulle auto elettriche, e
viene quindi contingentata, specie in Europa,
ma in America la paura del “sorpasso”, che portò nel 2016 alla vittoria di
Trump, è svanita. Non è più un tema, per le mutate condizioni economiche. La
crescita americana post-covid è stata sostenuta, più del doppio di quella europea, anche se non al ritmo cinese,
mentre quella della Cina è rallentata, dopo trent’anni, ed è perfino minacciata
di stagnazione, per i problemi del credito, e del mercato del lavoro.
Il piano infrastrutturale con cui ha esordito la
presidenza Biden, da 1.200 miliardi di dollari, con il Chips Act, e la stessa
legge anti-inflazione, Inflation Reduction Act (Ira), è stato un forte
acceleratore dell’economia. L’America inoltre risulta in forte vantaggio sul
nuovo trend, dell’Intelligenza
Artificiale. Comunque con una leadership
tecnologica solida: le “Magnifiche Sette” della tecnologia (Alphabet-Google,
Amazon, Meta, Microsoft, Apple, Tesla, Nvidia) capitalizzano in Borsa sui 15
mila miliardi di dollari.
In parallelo, l’amministrazione Biden ha riattivato la
produzione nazionale di petrolio. Senza abbandonare l’ipotesi della “transizione
verde”, ma con un diverso registro dei tempi e delle priorità. L’industria
degli idrocarburi ha avuto un impulso straordinario, con l’estensione agli scisti
bituminosi, di difficile recupero, e molto inquinanti - nonché allargando la ricerca col metodo del fracking, benché altrettanto inquinante. Contratti stellari ne hanno
visto il rilancio: la Exxon ha comprato gli scisti di Pioneer Natural Resources
per 64,5 miliardi di dollari, Chevron quelli della Hess Co. per 60 miliardi.
Molto apprezzata, dai commentatori e anche dalla Bce,
la banca centrale europea, la strutturazione della produzione in America: il 60
per cento degli occupati è in America in aziende con più di 250 addetti – una dimensione
che manca in Europa, tra il 12 per cento della Grecia e il 37 per cento della
Germania. Una dimensione ottimale, si ritiene, per migliorare la produttività.
Unica tara, con le leggi Biden per il rilancio
industriale, è la crescita eccessiva del debito: la spesa annua per interessi
si avvia a superare la spesa federale per la difesa, il maggior capitolo di spesa.
Il carcere, ossessione dell’America
“Puritanesimo
e frontiera, le due matrici dell’immaginario ameircano”, “i due archetipi
originari”, portano al carcere. Nel
western e poi, finita la saga della frontiera, nella classificazione e nel
controllo della metropoli, con la saga dei supereroi (ma qui l’archetipo non
sarebbe Fritz Lang, “Metropolis”?). “Poche culture sono ossessionate dal tema
del carcere come quella americana” è l’esordio del saggio, e questo è più che
vero: in nessun’altra realtà c’è l’ossessione del carcere. I prison studies sono “molto diffusi nell’americanistica”, in America e
fuori, e in nessun’altra filologia.
Il
carcere emerge nella narrativa con Defoe, “Moll Flanders”. Ma diventa una
costante in America: “Poche culture sono ossessionate dal tema del carcere come
quella statunitense: dalle storie western (si pensi alla costante presenza e
evocazione del carcere di Yuma) a quelle di evasione (Escape from Alcatraz – Fuga da Alcatraz o la serie di successo Prison Break), dai trial
movies alla fantascienza (in Escape from New York – 1997, l’intera isola
di Manhattan viene riconvertita in un mondo penitenziario) fino a diventare un genere
narrativo specifico: il prison novel
o movie”.
C’è
una ragione se il carcere è “uno dei contesti narrativi più potenti e duraturi
dell’immaginario americano”. Ce ne sono due, i due grandi archetipi che fondano
l’immaginario: quello puritano (e dunque religioso) che risulta dominante fino
al XVIII secolo circa, e quello della frontiera, che si sviluppa molto rapidamente
nel XIX secolo”.
Emiliano
Ilardi-Fabio Tarzia, La funzione
simbolica del carcere nell’immaginario letterario e cinematografico americano,
“Publifarum”, libero online
martedì 20 agosto 2024
Olimpiadi di corruzione
Senza
vergogna la lite tra due federazioni internazionali dell’atletica vendute al
miglior offerente: la Wada, la World Anti Doping Agency, che fa (molto) capo
alla World Athletics, la federazione mondiale dell’atletica del baronetto
Sebastian Coe - che montò per la Cina lo scandalo Schwazer – e l’Usada, la lega
atletica americana, spalleggiata, niente di meno, dal Senato Usa. Usada accusa
Wada, dice cioè quello che tutti sanno, di avere scagionato 23 nuotatori cinesi
utilizzatori abituali di trimetazidina, un medicinale per l’angina pectoris
(peraltro non approvato negli Usa) che è un potente dopante. Wada e World
Athletics, senza spiegarsi, ribattono accusando l’Usada di avere ripulito il
velocista Knighton (peraltro quarto, sui 200, a Parigi), che assorbiva un
potente steroide. Una bella gara “sportiva”.
I
nuotatori cinesi sono stati assolti tutt’e 23 dai servizi segreti di Pechino, i
quali attestano che la trimetazidina è stata assunta per caso, a tavola. Lo
stesso ha fatto l’Usada, ma senza i servizi segreti: Knight ha assorbito il
trenbolone con un trancio di coda di bue. Tutto certificato: acquisto del
trancio alla Moreno Bakery di Brandon in Florida, che compra le code di bue in
Messico, da un fornitore che le compra in Nicaragua. Notevole anche la quantità
di coda di bue che Knighton s’è mangiata per assorbire tanto trenbolone quanto
gliene è tato trovato: mezzo chilo.
Dove si nasconde Nabokov in "Lolita"
Il racconto
è uno dei pezzi che confluirono nel primo abbozzo di memorie di Nabokov,
“Parla, ricordo”, nel 1949. “Lolita” uscirà, tra mille difficoltà editoriali,
nel 1955. La rivista propone un raccordo fra “Tamara” e “Lolita”.
“Tamara" è il racconto di un primo
amore, di Nabokov sedicenne, con la quindicenne Valentina Shul'gina – non il
primo amore, quello fu di “Colette” (un racconto ora intitolato “Primo amore”),
con la famiglia in vacanza a Biarritz, altra storia originariamente di “Parla,
ricordo”. Un primo amore come ricordato da Nabokov adulto: “Parla, ricordo” è
giocato sui problemi della memoria – dei ricordi, e delle dimenticanze, delle
ricostruzioni, dell’inattendibilità, anche, del ricordo a distanza, di eventi fanciulleschi
o adolescenziali da parte di un adulto, navigato, attento e distratto. Ma un
racconto, scrive il “New Yorker”, che ha “tutto di Nabokov”. E di “Lolita”.
Il romanzo per la verità non ha
nulla a che fare con il racconto: è il
rapimento di una dodicenne da parte di un pedofilo e le molestie a lei
inflitte. Ma molti aspetti sono comuni. Dalla prima pagina: “L’apertura del
romanzo – una delle più indimenticabili della letteratura del Novecento – rivisita
la prima infatuazione sessuale dell’anti-eroe da adolescente, con una «ragazza
bambina» approssimativamente della sua età”.
“Nel
1949, mentre lavorava a «Lolita», Nabokov ha pubblicato sul «New Yorker» il racconto
«Tamara». Come nel romanzo che seguì, il narratore è un europeo di età media, e
il personaggio del titolo come una ragazza – quindicenne, in questo caso – che
è ricordata come un oggetto formativo di desiderio durante la sua adolescenza. (Entrambi i racconti inoltre cominciano con
insistenza accentuata sul nome del personaggio femminile). Come in «Lolita», il
tempo e la circostanza bloccano la ricerca della ragazza da parte del
protagonista, e il racconto evolve verso l’esplorazione, in parte, della
memoria, il sentimento, la prospettiva”.
Poi
Nabokov sarà soggetto a molti scrutini per trovare in “Lolita” un segno
autobiografico. “In «Tamara» la distanza tra narratore e personaggio appare più
piccola. Il narratore è descritto come un uomo con un passato molto simile a
quello di Nabokov: una famiglia russa aristocratica; le peregrinazioni sotto i
Bolscevichi; una fuga affrettata dalla Crimea, su una nave greca verso la Turchia. Era «Tamara» una sorta di abbozzo
approssimativo? Il racconto è autonomo. Ma Nabokov ne fa un esercizio sulla
labilità della memoria”.
Vladimir Nabokov, Tamara, “The New Yorker”,
free online
lunedì 19 agosto 2024
Problemi di base mafiosi ter - 818
spock
Più polizie, più mafie?
Più Procure, più mafie?
Più giornalisti, più mafie?
No, questo no?
Più droga, più mafie?
Più appalti, più mafie?
Ma quanti sono, questi siciliani, e calabresi?
spock@antiit.eu