sabato 31 agosto 2024
Problemi di base letterari - 818
Non c’è cronaca se non c’è delitto
"Yara,
Erba e tutti gli altri” è il sottottitolo. Delitti e processi avventurosi: il mostro di Firenze, via Poma, Lavorini (“il primo
depistaggio”) et al.. Delitti e
processi che hanno fatto le cronache per mesi. Alcuni non risolti. Per
imperizia, per negligenza anche, e ad arte (i casi di Firenze? troppa
imperizia). Come ci si avviava a fare questo stesso agosto per l’assassinio di
Sharon a Bergamo, pure semplice da risolvere.
La
rivista li presenta come se fossero ossessione del lettori. Ma, fino a prova contraria,
l’ossessione sembra più dei giornali, sempre più dipendenti dalle cronache
giudiziarie, fantasia povera – le cronache giudiziarie sono da alcuni decenni
il cuore dei giornali, dopo esserne state sempre convenientemente ai margini,
se non per casi eccezionali, stragi, segreti, coperture. Peter Gomez, che il
settimanale dirige, ne parla al passato: “C’era una volta il giallo
dell’estate”. Ma la ricerca è più che mai attiva.
Che
sia una forma di giornalismo più che curiosità di pubblico lo stesso Gomez fa
capire con la semplice statistica che premette a questo “Millennium” di
agosto: “Allora di omicidi ve n’erano a bizzeffe. Ancora nel 1990 in Italia si contavano
oltre 1.789 morti ammazzati, saliti a 1.938 nell’anno successivo, prima di iniziare
a calare a partire dal 1992, arrivando ai soli, si fa per dire, 330 del 2023” –
malgrado il dilagare, avrebbe potuto aggiungere, dei femminicidi, e delle “fini
pietose” (omicidio-suicidio).
“Millennium”,
L’ossessione del delitto, pp. 130,
ill. € 3,90
venerdì 30 agosto 2024
Secondi pensieri
zeulig
Accidia – “Letargo dello spirito” la dice la romanziera
P.D.James in “La stanza dei delitti”. E si chiede se non è più uno dei peccati
capitali – l’“ostinata empietà nel rifiutare ogni gioia”. Per essere diventata
pratica comune? Un peccato si vuole “eccezionale”, contrario a una certa
razionalità, e quindi si derubrica quando non è più tale?
Classico – Il realismo
aiuta a scrivere, non c’è idealità nella scrittura, anche se ai classici si dà
questo privilegio. La scrittura nomina le cose, dice bene Roscellino, ma non
deve esagerare, la retorica non ha censore peggiore dei suoi eccessi. Classico
sta per misurato. Ma la misura è non inventare la realtà, pur inventando.
I
classici, ha scoperto Tocqueville in America, sono aristocratici: scrivono per
pochi, di temi scelti, e curano i particolari. Con opere peraltro non
“irreprensibili”, poiché “ci sostengono dalla parte verso cui propendiamo”.
Ogni testo non ha sostanza se non mutevole, compresa “la famiglia confusissima
e zingaresca dei codici di Platone”, avrebbe detto il non citabile grecista
Coppola, fascistissimo, ma il fatto è quello, già al tempo di Petrarca.
L’Enciclopedia, che fa il nostro mondo, è
quella dello stampatore Le Breton. Che tagliava e cuciva per sue esigenze
d’impaginazione, risparmio, legalità. Diderot lo scoprì un giorno che volle
leggere in bozze un suo articolo della lettera S. Non protestò per non figurare
responsabile dell’opera. Ma non protestarono neanche gli altri autori. E i
classici iperdistillati non sono passati per schiere di copisti incolti,
burloni, ebri? Sono classici per l’autorità di un grammatico oscuro, quali cose
appartenenti alla prima classe dei cittadini, fra le cinque in cui
l’ordinamento timocratico, in base al patrimonio fondiario, di Servio Tullio
aveva diviso i romani. Dei latifondisti, insomma.
La narrazione no, ha vita propria. Ma in orizzontale. Una tessitura
larga, piana, visibile. Non la storia che fa avanti e indietro, la freccia, ma
un prato.
Filosofia – L’architetto è un filosofo? “Dicono che noi siamo bravi in pittura, scultura, musica, e non
in filosofia come i tedeschi”, argomenta lo scrittore Saverio Strati nell’intervista
“La mia età? Tremila anni di Calabria”, 2009, ripubblicata dal “Quotidiano di
Calabria” il14 agosto: “Non è vero, noi la filosofia la facciamo con l’architettura”.
È uno scrittore che riflette. Però, non col naso per aria: “Nei grandi palazzi
del Rinascimento, e del post-Rinascimento abbiamo la struttura interna che è
pensiero e la facciata esterna che è poesia”.
Nomadismo - Il nomade ha senso forte delle cose: nulla di
più normato, regolare, immutabile, della vita dei nomadi, di più abitudinario.
Si è nomadi da qui a lì. Ed è così che si costruisce una nazione: anzitutto
viene il denaro, l’accumulazione primaria.
L’ebreo
errante, favolista come il cabalista, si trasforma in roccioso colono senza
mutare d’identità. Ci fu polemica tra i primi sionisti, tra chi voleva la
rivoluzione e chi cercava case e terre. Ma non c’è partita in realtà, tra
l’idea e la pietra, la rendita immobiliare che fonda la ricchezza. “Il vostro
ideale”, Allen Ginsberg potè tardivamente ribattere ai sionisti, “è di
costruire qui un nuovo Bronx”.
Peccato – È una nozione, o giudizio, e quindi mobile,
evolve col contesto.
È atto o comportamento anomalo in rispetto a
che cosa? Alla pratica o senso comune, accettata e quindi raccomandata, elevata
a norma. Ci sono contesti in cui uccidere non è peccato, si sa, per esempio in
guerra, o per legittima difesa. Istituzionalmente, legalmente. Ma è anche senso
di colpa, e in questa forma è irredimibile, perfino persecutorio. Di chi ha
fatto un incidente stradale, grave, mortale, senza responsabilità legale. La
chiesa, che ne prevede l’assoluzione, è solo giusta, prima che caritatevole?
Realismo - Il realismo non è male, da Roscellino a Kant. “Ovunque io esigo vita”, dice il poeta Lenz di Büchner al buon pastore Oberlin, “possibilità di esistenza, e questo basta”. Il realismo serve alla bellezza, a trovarla e beneficiarne, non c’è una vera poesia idealista. “Le immagini più belle, le note più turgide e canore, si raggruppano e si dissolvono”, Lenz lo spiega benissimo: “Una cosa sola rimane: una bellezza infinita, che passa da una forma all’altra, eternamente dischiusa, immutata. Bisogna amare l’umanità, per penetrare nell’essenza speciale di ciascuno”. Serve a vivere, il realismo, e a godere. “Non sta a noi dire se la creazione sia bella o brutta. La certezza che quanto è stato creato ha vita viene prima di questo giudizio, ed è il solo criterio nelle cose d’arte”.
Il realismo serve alla verità. Cioè?
Storia - Bisogna essere per la “morale della
storia”, come volevano i “Quaderni piacentini”, solo perché la storia approdi a
negare se stessa: le guerre, i massacri e i processi. E, bisogna aggiungere, le
sciocchezze.
La storia non è una macchina calcolatrice,
scriveva Basil Davidson, dimenticato storico dell’Africa: “Si dispiega
nell’immaginazione, e prende corpo in risposte multiformi”. Ma gli storici
hanno le loro colpe. L’umanità si muove in modo continuo, anche se vario,
mentre per capire le leggi del suo moto gli storici usano unità arbitrarie,
discontinue: epoche, stadi, periodi, percorsi. E così, conclude Tolstòj, “ogni
deduzione della storia si dissolve come polvere”. È come se si volesse coprire
con la storia la realtà: si fanno appelli, s’invocano leggi, si creano
fatalità. Si può sperare di capire le leggi della storia “solo ammettendo
all’osservazione unità infinitesimali, il differenziale della storia, le
inclinazioni omogenee degli uomini”, concede il conte. Che però ammonisce: “La
stranezza e comicità della nuova storia è l’essere simile a un uomo sordo che
risponda a domande che nessuno gli fa”. Ogni storia è nuova, ma è nota.
Quella contemporanea si vuole
egualitaria. I ghigliottinati avevano nome e capo d’accusa, le loro colpe erano
registrate, dissimili seppure uguali, David ne faceva quadri - anche se i
quadri di David, sempre ammirati, restano di oscuro significato: la rivoluzione
era una tappa, di non si sa che viaggio. Più dura è la violenza di massa, la
follia in nome della ragione, l’obbrobrio della giustizia, di cui Auschwitz si volle
completamento.
zeulig@antiit.eu
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Secondi pensieri,
Si dice in città
I classici asserviti all’asservimento
Sulla
domanda “classica”, da Sainte-Beuve a T.S.Eliot, Mukherjee, professoressa di
Inglese e Letterature Mondiali a Oxford, rilegge i classici alla luce delle
“riscritture” (presentazioni, analisi, proposizioni) post-coloniali. Del
secondo Novecento e dei primo Millennio, benché la sua ricerca si fermi al
2012, alla vigilia della pubblicazione. Nella letteratura inglese e in quella
anglofona. Questa di mezzo mondo: Asia, Africa, Australia, Nuova Zelanda, Medio
Oriente, West Indies, Europa, Nord America. Una rilettura anche dell’
“importanza” delle revisione critica postcoloniale, attraverso la sua
promozione - premi, distribuzione, adattamenti multimediali.
Una
rilettura vertiginosa. Che converge nell’assunto che i classici anche nell’era
postcoloniale non sono riletti criticamente ma in appoggio a una sorta di
“politica globale” intesa a perpetuare, attraverso di essi, l’impianto politico
anteriore, della graduatoria delle civiltà. Un tesi nemmeno eretica o
trasgressiva, contro il valore “universale” dei classici, tema anche questo
molto arato. Una ricerca vastissima, anche molto fondata, ma argomentata
politicamente.
Una
sarabanda, che stordisce più che convincere. Alla luce della critical theory, che intende
(intendeva?) fare piazza pulita di ogni assetto critico e ordinamento
accademico in essere, in quanto “occidentale”, coloniale, etc. Il colonialismo
c’è stato, il neo colonialismo pure, ma la riduzione di ogni prospettiva alla
“politica globale”, seppure non contestabile (Mukherjee ne sa di più), lascia
perplessi: è come leggere un pamphlet
politico, lungo e insistente, malgrado tanta dottrina.
Ankhi Mukherjee, What
is a Classic. Postcolonial Rewriting and Invention of the Canon, Stanford
Univ. Press, 2013 pp. 272 € 34
giovedì 29 agosto 2024
Problemi di base stupidi bis - 817
spock
“Il brivido è la parte migliore
dell’umanità”, Goethe, “Faust”, 6282?
“L’uomo, quando è commosso, sente
l’immensità”, id. 6274?
Senza nessun senso del sacro, un papa cosa offre?
“Contro la stupidità gli dei stessi lottano invano”, Friedrich
Schiller?
“Gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte”, L. Sciascia?
Ma come fanno Wwf, Legambiente, Fridays for Future
etc. a raccomandare pale eoliche e
pannelli solari?
L’ambiente va protetto distruggendolo?
spock@antiit.eu
Quando i David li dava Berlinguer
Riproposto
per i cinquant’anni, li mostra. Vicenda e tipi da manuale: come il destino
ribalta le fortune. La milanese, ricca e spocchiosa, e il napoletano, povero e dritto. I soldi, e l’abilità. La natura,
difficile e bella. E il trionfo della fisicità sui ruoli, psicologici, sociali.
Una commedia divertentissima all’uscita – il successo fu tale che l’ha rifatta
per il publico anglosassone il britannico Guy Rtschie, con l’allora sua moglie
Madonna nel ruolo della Melato, e il figlio di Giannini, Adriano, in quello del
padre. Oggi non molto, se non per gli sketch
attesi, e pure un po’ lunga.
Il contesto
è più interessante – di questo oggi si potrebbe fare comemdia, ma non si osa.
Wertmüller, poi
Oscar alla carriera, ebbe per il suo film di maggior più riuscito nel 1974 uno
striminzito David di Donatello per la musica. La r egista essndo di simpatie
socialiste il Pci vigilava. L’autore delle musiche, Piero Piccioni, restava
malgrado tutto buon democristiano, e Berlinguer volentieri lo premiò.
Lina Wertmüller, Travolti da un insolito destino nel
tranquillo mare d’agosto, Canale 34, CineAutore
mercoledì 28 agosto 2024
Caccia al russo
Dodici capi d’accusa contro Durov, il fondatore e
padrone di Telegram – non si sa quali, ma a cominciare dalla pedopornografia,
c’è altro di più squalificante? Il metodo usava ai tempi sovietici. Ma è la
Francia republicana e anzi rivoluzionaria che lo propone. Per conto di non si
sa chi, si dice. Ma non è un’aggravante. Brutta fine della Francia, dopo lo
spettacolo pietoso dell’Olimpiade, dall’Ultima Cena stile Muccassassina di
quarant’anni fa alla Senna inquinata e al villaggio olimpico col caffè scadente
e senza condizionatori.
Ma non è della Francia il problema; si direbbe la
caccia al russo. Come una volta agli “antipartito”: non c’è difesa, basta la parola.
Instagram di Durov fa gola in America e questo basta, come TikTok - l’Occidente
è rispettoso, anche della libertà d’impresa oltre che di opinione, specie in
America, ma fino a che interesse non intervenga. E così è, o almeno sembra –
fino a prova contraria, a qualche accusa precisa cioè a Durov. Perché si è
tentato il giorno dopo – in ogni redazione ci sono sempre giornalisti collaboratori
dei servizi segreti - di allargare l’offensiva ai
fondatori-padroni di Klarna e Revolut, altre galline dalle uova d’oro. Poi il Semiatowski
di Klarna si è rivelato essere di origine polacca. Ma Storonsky è malleabile, è
pure nato e cresciuto in Russia, quindi bisognerà presto “salvare” Revolut.
Tanto più che il socio Yatsenko è russofono e ucraino insieme.
Certo, questi slavi costruttori d’imperi, anche loro, in
giovane età, fanno impressione. Mentre la piccola Europa se ne sta aggrappata ai micro Macron –
che incarcerano chi la Cia chiede e non sanno ancora perché. L’ultima è che
Durov si è fatto arrestare a Parigi per sfuggire alla cattura di Putin – di cui
è, o è stato, oppositore. Una tipica “notizia” da servizi segreti (disinformacija si diceva una volta, in russo), che i media riprendono senza più.
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Il mondo com'è,
Infprmazione,
Lettera
Tra Russia e Cina un patto in yuan
Parte della ritirata dal dollaro è legata all’uso
delle sanzioni per decisione unilaterale americana. Commerciali e ora anche
monetarie. Si studia l’utilizzo delle riserve monetarie russe detenute in
Occidente, come è stato deciso al G 7 pugliese – un fatto senza precedenti
nelle relazioni internazionali.
In meno di un quinquennio – partendo quindi da prima
dell’attacco all’Ucraina – l’economia russa si è “yuanizzata” – usa sempre più
lo yuan cinese come moneta di regolamento internazionale. In parte per effetto,
dopo la guerra, della chiusura alla Russia della rete di pagamenti Swift.
Gli ammontari sono rilevanti, giacché l’interscambio tra
Russia e Cina è salito in due anni a 240 miliardi, il 67 per cento in più
rispetto al 2021. Per la Russia la Cina è il primo mercato, per un terzo circa
dell’interscambio con l’estero: il 38 per cento delle importazioni russe sono cinesi,
il 31 per cento delle esportazioni va in Cina ed è in aumento rapido. Quindi un
terzo del commercio estero russo è regolato in yuan.
A fine 2023 la quota della valuta cinese detenuta dalle
banche russe superava quella in dollari, 68,7 contro 64,7 miliardi. E il valore
dei prestiti russi denominati in yuan era triplicato, a 46 miliardi di dollari.
Il mondo si restringe 2 – meno dollaro
Non soltanto nel commercio, un riallineamento è in
corso perfino sul terreno monetario, dove pure la supremazia del dollaro è
indiscussa. Cosa succederà non si può sapere, ma è chiaro che dopo il 4 novembre
qualcosa succederà, vinca Harris la corsa alla presidenza americana oppure
Trump. L’annuncio anticipato, irrituale, della Federal Reserve di un “prossimo”
e “significativo” allentamento della
politica monetaria ne è un segnale.
Si sa del dollaro che è la moneta mondiale, un sorta
di monopolio. E una sorta di “arma nucleare finanziaria” - e la vera arma di Washington, che sul piano militare tende invece a beccare. Non regolata da
trattati o accordi di non proliferazione giacché è solo degli Stati Uniti. È
anche noto che è stata usata “regolarmente”, quando cioè gli Stati Uniti ne
hanno avuto bisogno. Nel 1971, nel pieno della guerra del Vietnam insostenibile,
con la sospensione della convertibilità. Due anni dopo col rilancio in senso
inverso, con la crisi petrolifera. Nel 1985 con l’“accordo del Plaza”, in senso inverso al 1973 (gli
Stati Uniti si accordano con Giappone, Germania di Bonn, Uk e Francia per
contrastare l’apprezzamento del dollaro, che rende le esportazioni americane
troppo care). Ma le critiche crescono, che la più grade potenza sia anche “il
più grande debitore del mondo”.
L’“uscita dal dollaro” è tema periodico. A lungo ha
tenuto banco l’ipotesi del diritti speciali di prelievo, la media delle valute
nazionali che è l’unità di conto del Fondo Monetario. Dell’uso crescente del
yuan, la moneta cinese si parla da circa venti anni, da quando si è costituito
il fronte politico dei Brics, 2001 (Brasile, Russia, India, Cina, poi, 2011,
Sudafrica – oggi un fronte allargato a numerosi paesi, ma meno incisivo). Ora si
progetta una moneta digitale “multi-banche centrali”, all’interno della Banca
dei regolamenti di Basilea. Un esercizio futile? Ma ora le critiche recenti vengono dall’interno
dell’America, per sottolinearne la vulnerabilità. Il disavanzo è sempre sostenuto, il debito cresce, ma i Treasury Us sono sempre in forte domanda.
I titoli del Tesoro americano sono sempre stati i più
ambiti e hanno attirato le maggiori risorse, da tutto il mondo. Gli
investimenti esteri sono il più robusto supporto della potenza del dollaro. Ma
questo rapporto è ora sentito come una dipendenza. Dalle autorità americane. E
da investitori esteri importanti, con i quali i rapporti possono non sempre essere
amichevoli. Oggi dalle petromonarchie e, di più, dalla Cina.
Negli ultimi quattro anni la Cina ha ridotto la quota
delle sue riserve monetarie in titoli del Tesoro e delle agenzie americane dal
44 al 30 per cento. Uno sganciamento non decisivo ma sensibile. Più in
generale, calcola il Fondo Monetario Internazionale, la quota in dollari nelle
riserve globali è scesa nel Millennio, a fine 2023, dal 71 al 55 per cento.
Giallo di caratteri
Si
procede con lentezza. Molte pagine su cosa pensano, o potrebbero pensare, senza
attinenza con la vicenda, i personaggi via via in scena, tutti più o meno
incolpevoli – oppure no? Si fa molto caffè, la sera decaffeinato, ma per lo più
fresco, molendo i chicchi. Si arriva all’assassinio da perseguire, non più atteso, improvviso, a p. 150 circa.
Gli inquirenti, cinquanta pagine dopo l’assassinio, ancora non si sono ricordati
di sentire due persone “informate sui fatti”, Ryan Archer, “il ragazzo”
giardiniere improvvisato del museo, convivente di un colonnello gay che
brutalizza, e la figlia del morto. Uno dei personaggi, un vecchio spione curatore del museo, viene visto per il
quartiere di notte in compagnia di giovani maschi ma la cosa non è di nessun
peso.
La storia non finisce con il primo morto, e quando
partono gli interrogatori il catalogo delle figurine si allarga. Personaggi incidentali
e luoghi sono tutti ampiamente detti e spiegati, il meccanico della Jaguar E,
la macchina al centro della vicenda,
l’ospedale dove la vittima, psichiatra, lavorava, le infermiere. La psicologia
e le dinamiche di gruppo della squadra che lavora col comandante Adam
Dalgliesh, di Scotland Yard, l’inquirente stella della baronessa James,
prendono alcune decine di pagine. Dalgliesh è anche poeta - un poeta del “dolore della vita”. Ryan ricorre
molto come ragazzo pasoliniano - non di vita, di strada, violento e amabile,
i “vecchi” lo ospitano volentieri.
Insomma,
lento e divagante, e tuttavia si legge, senza saltare.
Con verità anche semplici: “Essere infermiere o
medico in un pronto soccorso è un lavoro pericoloso”, specie il sabato sera -
medici e infermieri si aggredivano a Londra giù vent’anni fa. C’è anche la critica alla “società civile” di
scalfariano conio in Italia, dei “buoni-e-belli” – praticamente del
politicamente corretto del Partito Democratico (democristiani rinsaviti?): “Il
ceto medio facoltoso, istruito, progressista che alla fin fine”, appare a una
ispettrice di Scotland Yard che si è fatta da sé, “controllava le loro vite”.
La
vicenda si dipana per qualche verso come in uno dei delitti documentati nella
“Stanza dei delitti” del museo Dupayne a Hampstead, un museo creato da un
signor Dupayne per documentare gli anni tra le due guerre, di cui è appassionato
– anni in cui ricorrono anche dei delitti per qualche verso celebri. Il museo è
ora in crisi perché i figli del fondatore sono divisi se continuare o no a
tenerlo aperto. Su questa divisione parte la vicenda.
P.D.James
procede con sussiego. È stata per un trentennio dirigente del Civil Service,
anche alla Polizia, nonché alla Bbc e al British Council, poi baronetto e membro
dei Lord, e procede autorevole. Su
Hampstead Heath, che rifà, pur scusandosene in avvertenza, e sui suoi
personaggi. Piccoli, soprattutto le “donnette”, delle pulizia, portinaie,
centraliniste, e grandi, psichiatra, proprietaria–direttrice di scuola privata,
spione (ex – ma non si è mai ex nello spionaggio, dicono). Un giallo di
caratteri, in notevole numero.
P.D.James, La stanza dei delitti, Il Giallo Mondadori, pp. 463 € 3,60
martedì 27 agosto 2024
Il mondo si restringe
Gli Stati Uniti di Biden-Harris hanno alzato contro la
Cina per l’auto elettrica e il settore dell’innovazione energetica dazi del 100
per cento – imitati ora dal Canada, che pure non ha industrie nazionali di
questi settori da proteggere. Mentre Trump ha nel programma un dazio universale
del 10 per cento – del 60 sull’importazione dalla Cina. La Ue ha introdotto dazi
dal 18 al 36 per cento sulle auto di fabbricazione cinese – lasciando aperta
una trattativa, che Pechino ha accettato in linea di principo, ma il dazio è
già attivo. In entrambi i casi con decisione sovrana, senza cioè i sospetti o
le accuse di dumping, o di
concorrenza comunque sleale, che nel diritto commerciale internazionale
consentono teroicamente dazi e contingenti.
Dal Fondo Monetario il vice direttore Gita Gopinath
denuncia una “frammentazione” degli scambi commerciali analoga a quella degli anni
più rigidi della guerra fredda – il periodo più restrittivo per gli scambi
internazionalei della storia moderna e contemporanea. Se non che – ed è
un’aggravante – i pesi sono diversi oggi rispetto agli anni 1950-1960: allora
il peso economico e commerciale degli Stati Uniti era preponderante, tre volte
la quota dell’Urss nel pil mondiale, e addirittura dieci volte nel commercio
internazionale. Oggi il confronto Usa-Cina vede gli Stati Uniti secondi:
secondi nella quota del pil mondiale, 15,6 per cento nel 2023 contro il 18,7;
secondi nella quota delle esportazioni mondiali, 9,9 sempre nel 2023 contro
11,3. Per non dire del confronto demografico. Anche in
campo militare, dove il raffronto è impossibile, la Cina tuttavia è ben più
forte dell’Urss di settanta anni fa.
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Affari,
Il mondo com'è,
Il mondo com'era
Giallo piatto
Rivisto, il
“Maigret” a grande budget, dopo la serie dei vecchi “Maigret” di Bruno Cremer
che TopCrime ripropone, fa una curiosa impressione. Come di un personaggio ripetitivo,
cioè prevedibile, e scontato. Senza le sorprese di cui Simenon carica i romanzi
“duri”, quelli senza Maigret. A volte perfino insopportabili, senza respiro –
anche se non c’è il morto da indagare. Sempre il demi-monde, piccoloborghese che vive di espedienti - quello che in francese è il racconto de moeurs, di costume. E la bonomia di
Maigret, indulgente alla cattiveria, della colpa che non è una colpa. Un Maigret che sembra l’antesignano di Don
Matteo.
Molto di
questa impressione è dovuto all’epoca, spesso il dopoguerra – l’ultimo nei film,
il primo nei libri. Come un esercizio che Simenon ripeteva, anche uno al mese, per
alimentare la serialità. L’autore prigioniero del personaggio che Camilleri lamentava,
del suo Montalbano, che lo cannibalizzava.
La sapienza
di Leconte e l’eroico Depardieu trasformato in tranquillo commissario si direbbero,
in questa bonaccia, l’unica sorpresa.
Patrice Leconte,
Maigret, Sky Cinema, Now
lunedì 26 agosto 2024
Letture - 556
letterautore
Achille - Un mafioso nel “Troilo e Cressida” di
Shakespeare: uno che fa ammazzare i nemici dagli sgherri, e vuole che si
sappia. Fa inseguire Ettore al ritorno a casa, e mentre si spoglia delle armi,
lo fa attaccare a tradimento. Dopodiché incita i killer: “Avanti, Mirmidoni,
gridate a tutti a gran voce: «Achille ha ucciso il potente Ettore»”. Ma Piero
Boitani fa per questo Shakespeare (“L’epica classica chiusa dal Bardo”
“Domenica-Sole 24 Ore” 25 agosto), il “moderno perfetto”. Dopo aver osservato
dubitativo: “Forse la vera guerra si fa così, facendo attaccare il nemico
disarmato in questo modo”, cioè a tradimento. Dunque, anche il moderno è mafioso.
Anche Shakespeare…..
Carcere – Fra le
“istituzioni totali” che presidiano la narrativa, Vanni Santoni (“La Lettura”
di domenica 18) ne limita l’uso a Roberto Bolaño e Stephen King. Ma l’“istituzione”
era di successo già con Defoe, “Moll Flanders” – con la madre e con la figlia. Molti
sono i carcerati e le carceri nella
letteratura americana (oltre che nella cinematografia), a partire da Poe , “Il
pozzo e il pendolo” – Faulkner per es., “Le palme selvagge”.
Marco
Polo ci scrisse “Il Milione”. Anche Gramsci scrisse molto, e il meglio, in
carcere. Casanova riuscì a fuggirne, per compiere la sua opera – che scriverà
in vecchiaia, un po’ recluso volontario.
Francese – “La lingua della
mediocrità” per il Leopardi maturo: “La lingua francese è propriamente, sotto ogni
rapporto, in ogni verso, la lingua della mediocrità”. Per un motivo preciso: “È
la lingua della ragione e della società” (“Zibaldone”, 1985-86)
È
per questo, aggiungerà, “che il tuono di qualsiasi scrittura francese fin dalla
prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce”.
Musica – “Cos’è in
realtà la musica? È un discorso”, si chiede e si risponde Benjamin Tammuz in
“Il minotauro”. Con una specificità: “Il compositore non parla con parole, ma
con simboli; come un muto che parla a gesti e spera che lo capiscano”. Non
solo: “Non è sicuro. Vuole che lo capiscano, ma sa che i segnali giungono solo
a chi sa decifrarli”.
Il
mondo “di cui il compositore racconta è un mondo reale” – “proprio come la mia stanza,
o come i miei pensieri”, si argomenta lo scrittore – ma “in genere si tratta di
un luogo segreto, che ognuno ha per sé”.
Scrivere – Richiede un pedigree – è tanto migliore scrittura
(poesia, narrativa, etc.) quanto più può vantare precedenti, esercizi e
tentativi pregressi? Ne hanno discusso i caraibici, autori di lingua inglese, sull’onda
di un’osservazione di Naipaul: “È molto difficile scrivere dove non c’è stata
scrittura”. Derek Walcott, al contrario, più upbeat, vantava “l’unicità di scrivere su un’isola caraibica che,
prima di lui, non aveva mai provato la scrittura”. La questione si complicò con
i tanti scrittori caraibici d’Inghilterra, che sapevano poco o nulla dei
Caraibi. Ma non sono tutti scrittori inglesi, di lingua inglese – che raccontano i Caraibi? La scrittura non è la lingua?
Tisi – Funesta nell’Ottocento, e nel
primo Novecento, per gli autori e per i personaggi, Vanni Santoni ne può fare
una lista lunga su “La Lettura” di domenica 19. Partendo dagli autori. La raccontavano
perché ne erano, o ne erano stati, affetti: Cechov, Gozzano, Anne e Charlotte
Brontë, Keats, Orwell, Novalis, Kafka, Paganini e Pergolesi, Modigliani, D.
Hammett e C. Bukowski. E Thomas Mann, che l’ha romanzata – no, Th. Mann no,
infatti non racconta la tbc, né ne fa soffrire i suoi personaggi, se non marginalmente,
il sanatorio è scena di fondo per le “conversation pieces” che fanno “La montagna incantata” o magica, al
Berghof di Davos.
Più
lunga la lista dei personaggi. “La lista, anche escludendo comprimari e
comparse, risulta lunga”, premette Santoni: la Silvia di Leopardi, la Mimì
della “Bohème” di Puccini (la Margherita Gautier di Dumas figlio, “La dama
delle camelie”), il piccolo Ilja dei
“Fratelli Karamazov”, la Fantine di Victor Hugo (l’amore semplice, il primo
amore, dei “Miserabili”), i personaggi dei poemi e racconti del maiorchino Blai
Bonet, lo Hans Castorp e i tanti altri, gesuiti e non, del Berghof di Th. Mann.
La
morte (la morta) per tisi è uno dei soggetti ricorrenti del pittore E. Munch –
“La madre morta”, “La fanciulla malata”.
Monet ha ritratto la moglie morta di tisi nel letto di morte. Ingrid
Bergman è malata di tisi in “Campane di Santa Maria”. Kurosawa ha un dottore
ossessionato dalla tbc in “L’angelo ubriaco”.
La
location di Th. Mann, per quanto di
lusso, ispirerà altri romanzi-saggio, o memoriali. In particolare Thomas
Bernhard, nei cinque romanzi brevi che ne fanno l’autobiografia, “L’origine”,
“La cantina”, “II respiro”, “Il freddo”, “Un bambino”: punto di riflessione
l’infezione giovanile, il luogo il Grafenhof. Ma l’archetipo, in fatto di location, sarebbe il Monte Verità, sopra
Ascona nel Canton Ticino. Che secondo Santoni è il modello del Berghof di Th.
Mann, col suo “numero di ospiti strambi superiori alla media di un sanatorio" –
il Monte ora rifugio di ritiri psichedelici, come già di “festival trasformativi”
e di comunità hippy, aveva ospiti a inizio Novecento, qualche anno prima della
“Montagna incantata” dunque, Jung, Remarque,
Hermann Hesse, Max Brod, Isadora Duncan.
Debellata
la tbc, nota Santoni, altre “istituzioni totali” sono emerse: il manicomio (R.
Musil, Ken Kesey), l’ospedale militare (Bolaño), il carcere (sempre Bolaño, e Stephen
King), Steinbeck, Poe, “Il pozzo e il pendolo”), il convento (“Il nome della
rosa”), il collegio (“Harry Potter”), la comunità di recupero (D.F.Wallace).
Solo Olga Tokarczuk torna al sanatorio, nella novità “Empuzjon”.
Traduzione – Tradurre
“implica trovare, sotto le parole, altre
parole, ognuna delle quali ne nasconde un’altra, e quando viene alla luce evoca
altre cose al posto delle prima”, Claudio Magris, nell’epicedio in memoria di
Jean Pastureau, suo traduttore in francese (“Corriere della sera” di mercoledì
21). Uno scavo. No, un costruzione, continua Magris: “Tradurre significa ricercare
una storia o un destino, facendoli restare se stessi e insieme diventare
altri”.
È
un procedimento “complesso” e “gentile”, continua Magris. In passato le
traduzioni erano semplicemente letteratura e John Dryden riteneva che il suo
capolavoro fosse la traduzione dell’“Eneide”
(come Vincenzo Monti evidentemente dell’“Iliade”, n.d.r.), mentre Goethe diceva
che la versione francese del ‘Faust’ di Gérard de Nerval era migliore del suo
originale tedesco”. Magris la vuole di più. Ricorda Lea Ritter Santini, la
germanista anche grande traduttrice: “La traduzione letteraria ritrae
l’originale con fedeltà e con libertà, come l’onda musicale nella grazia di un
ballo”. E Goethe de “Il divano occidentale-orientale”, “quattro versi che
potrebbero essere il vessillo della traduzione”. «È una creatura viva\ che in
sé stessa si è divisa,\son due che si scelgono\ sì che le si riconosca una?»”
Ma va anche oltre, facendo della traduzione una creazione doppia: “Tradurre significa
ricreare una storia o un destino, facendoli restare se stessi e insieme
diventare altri”.
letterautore@antiit.eu
L’invidia è sterile
“Se
un uomo è un criminale non può essere un buon musicista, e neppure un vero
artista”, Benjamin Tammuz, “Il Minotauro”. Ma può muovere una storia
avvincente.
Con
la presentazione, preziosa, di Roberto de Simone.
Aleksandr Puškin, Mozart e Salieri, Einaudi, pp. 61 € 10
domenica 25 agosto 2024
Ombre - 734
“Lacrime
e ricorsi legali: «Così faremo restare i bambini ucraini nelle nostre famiglie».
Il caso di Bergamo, la polemica Kiev-Roma”. Dove si vede che gli italiani
vogliono i bambini ma già fatti.
Cinicamente,
si può anche dire che le guerre sono benvenute, in Europa ora come già in Africa, Asia, America Latina, perché “producono” bambini in affido. Al punto che
se l’Ucraina, il loro Paese, li reclama cessata l’emergenza orfanotrofi, loro
fanno causa.
Contemporaneamente,
però, il settimanale “Io Donna” può fare un’inchiesta sui figli che non
“arrivano”, neanche nell’età giusta. Benché voluti, anche strenuamente, tra
esami e controesami. Oggi, al top
della medicina. La maternità frustrata è un tema del Millennio, più che
rifiutata. Checché ne pensi certo femminismo, o la falange dei “diritti”.
Fa
senso il settimanale “La Lettura”, che dedica i servizi di apertura a sdoganare il terrorismo islamico. Diane Foley si sarebbe fatta dire dal
terrorista che ha decapitato suo figlio James, senza colpa: “Lei è la madre di tutti
noi”. Una bionda norvegese dimostra in un libro di quindici anni fa che la strage di Beslan fu
l’opera di Putin – l’assalto islamista alla scuola di Beslan in Russia l’1
settembre 2004, con 1,100 persone in ostaggio, i più bambini, conclusosi con la
morte di 333 ostaggi, di cui 186 bambini, e 31 terroristi. La scomparsa di
padre Dall’Oglio in Siria, nel territorio dello Stato islamico, è addebitata
obliquamente, al regime siriano. Fa senso il giorno in cui in Germania gli
islamisti ammazzano chi capita e ne godono. Incidente di lavoro, cupio dissolvi?
Lo
stesso giorno il “Corriere della sera”, di cui “La Lettura” è un settimanale,
fa parlare lo scrittore algerino Kamel Daoud (franco-algerino), che del
terrorismo islamico ha avuto esperienza diretta trent’anni fa al suo paese, tra
decapitazioni e squartamenti. E ammonisce: “L’Occidente non sia il
nutrimento della barbarie”, con la condiscendenza.
Lo
stesso Daoud ha una considerazione precisa, in fine intervista, a proposito del
malgoverno-ingovernabilità dell’Africa di cui in questo sito due giorni fa: “Io
ammiro i clandestini che salgono sulle barche per raggiungere l’Europa: loro
sanno da che parte è la libertà”.
Paolo
Franchi dedica un ricordo commosso sul “Corriere della sera” a Ottaviano Del
Turco, onest’uomo, sindacalista, massacrato dai giudici con una decina di
processi infamanti per il solo fatto che era socialista. Processi poi svaniti,
senza che nessuno di loro abbia pagato pegno. Fino al giudice Grasso, uno che
senza mai lavorare s’è fatto presidente del Senato, e in tale augusta veste tolse
a Del Turco la pensione da senatore, minima - misura che il Senato ha poi
dovuto cassare.
Ma
non è un problema solo di giudici. È di media o opinione pubblica. E di (quella
che rimane, si pretende) sinistra.
Si
riapre la trattativa Israele-Hamas e si esibisce al solito ottimismo. Quando si
sa che Netanyahu non vuole nessuna trattativa. È la tragedia di questa guerra:
Netanyahu vuole gli ostaggi morti, per rendere insanabile lo scontro con i palestinesi?
Fa come se. Avrebbe potuto arrivare alla liberazione degli ostaggi alla
prima trattativa, e poi distruggere Hamas – Hamas invece che Gaza.
È
una verità lapalissiana, perché non dirlo?
In
America si discute molto del sionismo. Se e quanto era giusto, e anche
necessario, nella forma dell’occupazione. Partendo dalla bugia di Herzl, che la
Palestina fosse un territorio vuoto, da sempre in attesa dei suoi ebrei. Ma era
una bugia per modo di dire – Gerusalemme era una porta di casa.
Tanto
rumore per nulla? Sembra, almeno fino ad ora: nessuna inchiesta a carico di Arianna
Meloni, la “sorella”, per traffico d’influenze. Meloni ha adottato la tattica
Crosetto, della denuncia anticipata della combinata procuratori-giudiziarie
(cronache giudiziarie)? Con Crosetto ha funzionato – senza danno per nessuno ,
la cosa è finita nel nulla (chi ricorda più il maresciallo o sottotenente
Strano, il Grande Spione?): basta dare in pasto ai cronisti giudiziari un’altra
volpe da puntare.
La
cosa, sottaciuta ovviamente dalle cronache giudiziarie, è meritevole di attenzione:
i Procuratori della Repubblica sanno he la carriera si fa con i cronisti
giudiziari, ma sono anche carrieristi, non stupidi. Non potendosi limitare il diritto
di cronaca, l’allarme anticipato potrebbe essere un’ottima difesa – i Procuratori
normalmente non sono ardimentosi, procedono coperti.
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L’amore estremo e l’impossibilità di vivere, in Israele
Un amore per corrispondenza, tra sconosciuti,
“sul piano astratto dove soltanto le anime si sfiorano, separate dal corpo e
senza più legame con esso”. Una storia d’amore affascinante, e-benché distruttivo.
La
quarta di copertina è la sinossi più attendibile. Un agente segreto israeliano
s’innamora di una ragazza incontrata sull’autobus: è lei, la visione, la donna del destino – sarà
Thea, la divina. Ne carpisce l’indirizzo e avvia una corrispondenza amorosa
avvincente. A senso unico, perché la ragazza, che è turbata dalle lettere dello sconosciuto, non sa dove scrivergli – gli scrive mentalmente. In un primo
momento. Poi l’uomo le dà degli indirizzi fermo posta, che ritira con vari accorgimenti
per non farsi vedere, e il colloquio a distanza a prosegue, per anni, ora più
intenso e spedito.
Una
storia d’amore, ma con derive sempre più morbose. Verso il controllo ossessivo
della ragazza. Compreso, forse, un assassinio. Ma sempre ad elevato diapason. E
avvincente: la ragazza, ormai donna, non se ne sente soffocare. Non ci sarà il
lieto fine, la storia personale di lui non lo consente, ma è come se, l’amore
resta, quale è stato.
Come
l’uomo è diventato un agente segreto è un’altra storia. Questo è un secondo
racconto, benché sullo sfondo: il bravo cittadino israeliano, che ha già avuto
più vite, mal si adatta alla nuova, una sorta di leva obbligata. Non
contestata, ma che non gli consente di avere una vita vera, sempre di barba e
baffi finti, e occhiali scuri. Il titolo, l’essere dalle due nature, si spiega
più con questo secondo aspetto della storia.
Tammuz ((1919-1989), israeliano di
origine russa, di una famiglia che fu tra le prime a emigrare in Palestina, nel
1924, diplomatico israeliano e giornalista (editorialista di politica estera),
sembra, guardato da lontano, un calco della sua storia. Il suo personaggio è un disadattato. La sua
prima esperienza di giovane cresciuto, ventenne, è di confrontarsi con un arabo
che lo sfida: vita o morte. Ma non è quella decisiva. Quella viene in Cisgiordania,
dove pure era stato allevato tra grandi agi in una enorme fattoria, che
riscopre dopo l’occupazione nel 1967: “Chi cono io?”, si chiede. E capisce alcune
cose: "Quella che prima era una mia esperienza privata è diventata un’esperienza
comune a molti. Un tempo solo io tra gli ebrei avevo combattuto un arabo in un
guado dello Iabbok uscendone vincitore… Adesso tutti gli ebrei prendono parte a
questa pazzia. Forse pochi ne sono coscienti, ma tutti lo sentono; hanno vinto
e hanno perso. Hanno lottato, hanno lasciato morire e hanno uccio, e adesso la
vittima e il vincitore hanno nostalgia l’uno dell’altro, e non c’è modo di tornare
indietro, perché uno di loro è stato ucciso. In realtà, sono stati uccisi
entrambi”.
Questo
nel primo anno dell’occupazione, quando lui poteva mimetizzarsi con gli arabi
come uno straniero. Un anno dopo, quando il protagonista torna dall’Europa,
“l’incantesimo era svanito: gli arabi dei territori occupati si erano ripresi dallo
stupore, erano pieni di rabbia, tiravano bombe a mano sulle folle di turisti
ebrei nei vicoli e nei villaggi, sistemavano bombe nel centro della città….. e
il numero dei visionari andava diminuendo con incredibile velocità”.
Tammuz
– i suoi personaggi - pensa mentre racconta. Nel mezzo, in una paginetta,
68-69, tutto il Mediterraneo. Il titolo, e buona parte del
racconto (la musica fa parte dell’amore de
loin), sono spiegati a metà narrazione, in forma di visione in dormiveglia,
del protagonista bambino che guarda
l’acquaforte attaccata alla parete, arrrivata in regalo da Parigi, col mostro
dalla testa di toro e il corpo di uomo, “che si piegava sulle ginocchia in
un’arena, sul punto di morire”. Il bambino vuole fortemenrte un miracolo, che il
minotauro sia salvato, ma la cosa non avviene e allora chiude gli occhi. “E
chiudendoli vide, come dal di fuori, che apriva una breccia nel primo cerchio
della musica, entrava e vi si fermava un poco. Poi aprì un’altra breccia nel
secondo cerchio , si trovò vicino al centro; e alla fine aprì una breccia nel
terzo cerchio – e subito si addormentò”. È il percorso amoroso – “stare svegli
al centro della musica è impossibile, è pericoloso e superiore alle forze di
chiunque”.
Benjamin
Tammuz, Il Minotauro, e\o, pp. 171 €
12
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