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sabato 14 settembre 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (571)

Giuseppe Leuzzi

L’imprenditrice di Pompei, organizzatrice di eventi, “dottoressa” senza studi, amante senza amore, soprattutto interessata a un posto statale, che sembra inventata da Checco Zalone, è “la donna del Sud”, secondo i cliché di “Milano”, oppure è nata e vissuta a Pompei per caso? Per caso no, ci è nata da genitori stanziali – in questo è donna del Sud. E caratterialmente, sarebbe lo stesso modello possibile a Milano? Questo c’è da tanto - più d’uno. Dal “cigno nero” impavido dello scandalo Montesi, la “contessa” Marianna Augusta, detta Annamaria, Moneta Caglio Monneret De Villard. La questione femminile, dunque, potrebbe unire l’Italia. 

Però, non si riflette mai abbastanza, è sempre Milano che detta l'agenda al Sud. Nel linguaggio ancora più che mei modi e nei consumi. Al Sud non si riesce a pensare in altra forma che quella leghista, del noi e loro.

La desertificazione del Sud
La demografia è debole, l’Istat come si sa calcola un calo della popolazione al 2080 dagli attuali 59 milioni a 46, di un quinto, quasi un quarto. Ma con differenze: al Nord il calo sarà di meno del 10 per cento, il 9,5, da 27,4 a 24,8 milioni. Al Centro del doppio, il 20,5 per cento, da 11,7 milioni a 9,3. Al Sud del doppio del Centro, quattro volte il Nord - del 39,8 per cento: da 19,9 a 11,9 milioni. Il Sud, cioè, va quasi a dimezzare la popolazione in mezzo secolo.
“La Lettura” analizza la previsione in questi termini: “A causare questo divario saranno i flussi migratori (a parte, cioè, il calo demografico, n.d.r.), soprattuto quelli esterni, ma anche quelli interni. Il risultato sarà che il 54 per cento della popolazione si concentreà al Settentrione, mentre il Sud sarà desertificato”.
Già deprecato per le troppe nascite, e per una condizione vile della donna-madre, il Sud dunque sta per diventare disabitato. Desertificato no, sarà degli africani – come in Provenza già da mezzo secolo, e nel Golfo del Léon.
 
E la luce venne da Cosenza
C’è oggi Mauro Fiore, direttore della fotografia premio Oscar, per “Avatar”. C’è stato un secolo fa Tony Gaudio, primo italiano premio Oscar, per la fotografia. Entrambi di Cosenza – la città, si direbbe, della luce, per lo meno al cinema.
Di Gaudio fa la (ri)scoperta un altro cosentino, Alessandro Nucci, regista, che col fratello Fabrizio, produttore, ne ricostituisce la vicenda in “The Lost Legacy of Tony Gaudio”. Di cui dice a Ornella Sgroi sul “Corriere della sera”: è il direttore della fotografia che tra il 1920 e il 1930 “rivoluzionò la grammatica del cinema”. Emigrato da Cosenza nel 1906, quindi a 23 anni. Già tre anni dopo era direttore della fotografia a Hollywood – lavorerà a un centinaio di film, anche tre e quattro in un anno. Oscar nel 1937, per il film “Avorio nero” (“Anthony Adverse”) di Mervyn LeRoy - l’Academy lo registra nel 1936, Oscar per il bianco e nero (allora i premi erano due, uno per la novità colore).
Era figlio di un fotografo, Raffaele. E vantava in America, secondo alcune note biografiche (una biografia curata non c’è), la regia a vent’anni di un film, “Napoleone attraversa le Alpi”. Per la Ambrosio Film torinese, una casa di produzione conosciuta in America – Torino era allora la capitale di tutte le novità tecnologiche-industriali italiane, il cinema compreso, come le automobili e il telefono.
Alessandro e Fabrizio Nucci si sono imbattuti in Gaudio per caso. Cioè da cinefili. Curava l’estetica delle immagini ma anche la tecnica, spiega Alessandro: si deve a lui la pratica che se sullo schermo “vediamo una lampada, la luce deve apparire come se provenisse da quella lampada”. Sembra niente, ma fu “qualcosa di molto rivoluzionario per l’epoca, perché le pellicole erano molto sensibili e i mezzi tecnici richiedevano molta più luce di oggi”.
“È la «luce di precisione»”, continua Nucci, “come la definì lo stesso Tony Gaudio, che segnerà lo stile del film noir e di tutto il cinema anni Quaranta. Quello con Humphrey Bogart e Bette Davis”. Bette Davis creò un vero e proprio sodalizio con Gaudio, “perché lui riusciva a valorizzrla con una messa in scena innovativa per l’epoca”. Nucci esemplifica con “«Ombre malesi» di William Wyler, forse il capolavoro della collaborazione fra i due, in cui la luce diventa essa uno dei motori narrativi del film”.
 
Nove miliardi di sprechi, differenziati
Ci sono stati sprechi nell’autonomia non solo in Sicilia, anche in Lombardia e nel Veneto, forse di più: accanto alla buona amministrazione da vecchia Austria ci sono stati i palloni gonfiati della Lega recentemente - ma ormai la storia della Lega è cinquantennale. Ferruccio de Bortoli ne fa una denuncia, sul settimanale “L’Economia” di lunedì 9. A proposito delle autostrade regionali Pedemontana Veneta e Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano) – di cui questo sito si è occupato http://www.antiit.com/2015/09/a-sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-259_24.html
Una denuncia che non ha obiezioni. Dal titolo “Le autostrade dell’autonomia”, ossia “Le corsie del nulla al Nord”. Sommario: “Le due infrastrutture, per anni bandiera del federalismo in Lombardia e Veneto, non hanno portato al traffico i benefici preventivati. E le notevoli spese per ripianare le perdite, nonostante le tariffe salate pagate dai cittadini che le utilizzano, sono finite anche a carico dello Stato”. Hanno accumulato costi e debiti, a carico pubblico, senza beneficio per gli utenti. Ilustrano la denuncia le foto di due mediocri leghisti, che sono gli eroi della Lombardia e del Veneto, rispettivamente Fontana e Zaia. Le “due infrastrutture del titolo” sono le due autostrade,  Pedemontana veneta e Brebemi. Brutto prologo all’ “autonomia differenziata”, cioè privilegiata, bandiera del leghismo che attanaglia le due regioni pilota.
Testo: “Una meraviglia. Percorrere la nuova Pedemontana veneta è un’esperienza piacevole. Bella, pulita, elegante. E, soprattutto, vuota. Poi a Montecchio Maggiore Sud si arriva sulla A4 ed è l’inferno. Addirittura due corsie interamente occupate da file di mezzi pesanti. Rallentamenti, code. Dopo Brescia Ovest, per la fortuna del milanese di ritorno, si devia sulla mitica Brebemi, ormai non più nuova e altrettanto poco frequentata, se non spesso addirittura deserta. Una rassicurante distesa di asfalto che fende il cuore agricolo bresciano e bergamasco, in parallelo con l’alta velocità ferroviaria. L’automobilista si sente addirittura in colpa (anche se paga due euro ogni dieci chilometri) per aver sottratto tanta bella campagna al verde e alle colture. Qui la Lombardia sembra una regione spopolata. A differenza della sensazione di opprimente sovraffollamento — la sindrome della città infinita — che si prova sulla Milano-Bergamo-Brescia. Questi due progetti, la Pedemontana veneta e la Brebemi, cui si aggiunge l’ancora incompleta Pedemontana lombarda, sono stati per anni — nelle due grandi Regioni a guida leghista — la bandiera orgogliosamente sventolata del federalismo. La dimostrazione che il Nord produttivo era in grado di risolvere con progetti pubblico-privati i problemi della mobilità. Sarebbe opportuno chiedersi che cosa è andato veramente storto con questi progetti autostradali, costati finora complessivamente quasi 9 miliardi, se ne valesse veramente la pena”. Niente di meno.
Con notazioni sparse di questo tenore: “Viaggiare sulla Brebemi costa più del doppio della tratta che dovrebbe decongestionare. L’onere complessivo dell’opera è stimato (stimato?, n.d.r.) in 2,4 miliardi. All’inizio si pensava sarebbe costata un terzo. Per il dodicesimo anno consecutivo, nel 2023, il bilancio si è chiuso in perdita… (ma) l’azionista privato, la spagnola Aleatica, è ottimista, grazie alle garanzie offerte dal concedente pubblico”.
“E abbiamo sacrificato 990 ettari sottratti alla migliore agricolturea”, de Bortoli fa commentare a Dario Balotta, ex sindacalista Cisl oggi in politica con i Verdi: “Mezzo miliardo di perdite accumulate in dodici anni. Una concessione di 19 anni poi allungata di 6 e infine di altri 7 anni”. E non vi è stato il decongestionamento della A4”.
Poi de Bortoli riprende il filo: “Un obiettivo analogo è anche quello della Pedemontana lombarda, che dovrebbe togliere pressione al traffico sulla tangenziale milanese. È costata finora 2,5 miliardi. Parte degli oneri del controllo regionale — che ha rilevato anche la quota di Intesa Sanpaolo — sono stati scaricati sulle Ferrovie Nord.
“È curioso che vi sia un azionista spagnolo (Sacyr) anche nella Pedemontana veneta (Spv). Non appare preoccupato più di tanto visto che il rischio d’impresa è anche in questo caso in carico al concedente, cioè la Regione Veneto…..La preoccupazione per l’andamento dei conti della Pedemontana, sui quali non vi è ancora la necessaria chiarezza, è però tale da aver indotto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, a studiare una possibile nazionalizzazione del fiore all’occhiello del federalismo veneto. Sarebbe il colmo”.
 
La Pedemontana lombarda, si può aggiungere, già segnalata su questo sito,
http://www.antiit.com/2017/06/a-sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-330.html,
avrebbe meritato più delle poche righe della citazione. De Bortoli non se ne occupa perché è un progetto varato dal vecchio Cipe, quindi formalmente statale, ma di fatto è regionale, vecchio pallino di Maroni, allora secondo di Bossi nella Lega, e presidente della Regione Lombardia. Ferma al 2015 non per colpa dello Stato, aperta su 22 dei 96 km del progetto, sotto minaccia di fallimento per molti anni, fino al 2021. Figura – figurava - un “project financing”, cioè un investimento privato, una infrastruttura in concessione. Ma era il progetto di Maroni. Controllato dall’azienda regionale Serravalle - presidente nel 2015 Di Pietro (lui, Antonio Di Pietro, dopo la fuga dalla politica, voluto da Maroni per evitare il fallimento in Tribunale). Un manufatto costosissimo, esito di decenni di studi, consulenze, prospezioni, etc., di ingegneri, geologi, geometri, esperti ambientali, architetti, urbanisti, e moltissimi avvocati. Un investimento privato-pubblico in realtà: statale, regionale e privato. Da 4, poi 5, miliardi. Per 67 km., da Varese-Malpensa a Bergamo (da Cassano Magnano a Orio Sotto). Sette milioni e mezzo a km., in piano, record mondiale di costo. Uno scandalo, di cui però non si parla.
Doveva essere pronta per l’Expo, 2015. Poi per fine 2017. Insomma, uno scandalo dei maggiori. Ma non ne sappiamo molto.
 
Cronache della differenza: Calabria
“I Leoni di Sicilia”, sulle fortune dei Florio, debutta in tv con un falso terremoto di Bagnara, datato peraltro variamente, 1802, 1799 e 1788 (ma il falso è di Auci, l’autrice del romanzo dei “Leoni”?). Il terremoto connota la Calabria - la storia della Calabria, più che politica o sociale, è sismica, di distruzioni a catena, l’una sull’altra.

Paolo Florio emigrò per cercare fortuna, sulla traccia di parenti e paesani già a Palermo. Era un commerciante, e si vede che i commercianti di Bagnar sono o erano specialmente intraprendenti - la fama è ancor a recente delle bagnarote, donne intrepide dalle sette gonne e i piedi scalzi, con molti figli ma non un marito, in testa una cesta larga, che hanno fatto per secoli il piccolo commercio nei paesi sparsi per il versante tirrenico della Montagna (Aspromonte). Però, il terremoto è congrua causa, delle fortune future, fuori dalla Calabria.
 
Castrolibero, un paese di Cosenza di diecimila abitanti, ha tutte le case finite col tetto, e un reddito medio pro capite di 21 mila euro, contro una media regionale di 16 mila. “Da noi non c’è una casa non finita”, può vantare il sindaco Orlandino Greco, “in caso di piccoli abusi siamo intervenuti con le ordinanze di decoro urbano”. Cioè, la Calabria è un territorio che si può amministrare.
 
Giuseppe Santelli, editore, avendo ereditato la casa editrice dal padre, la trasferisce a Milano, e in pochi anni o pochi mesi, dice, la trasforma in “una holding che ragguppa cinque marchi editoriali e distribuisce in dieci nazioni”. Commentando il miracolo con quanto gli aveva detto un amico, anche lui transfuga dalla Calabria: “Dopo che nella nostra regione siamo abituati a fare la corsa a ostacoli, quando hai davanti i 100 metri voli e superi tutti gli altri”. Tutti probabilmente no, ma vai diretto.
 
“Gramsci dice una cosa molto importante”, nota Saverio Strati in un’intervistona col “Quotidiano di Calabria” nel 2009, riprodotta dal giornale il 14 agosto: “Molto lusinghiera per i calabresi: un contadino calabrese è più filosofo di un filosofo che insegna in un0’università tedesca. Ed è vero”, aggiungeva lo scrittore.
La stessa cosa diceva del montanaro svevo Heidegger – c’è più “filosofo” di Heidegger? – uscendo dalla sua amata Hütte di 
montagna, ma si può convenire. Anche se il contadino di Gramsci era calabrese per modo di dire, avrebbe potuto essere sardo.

 
L’intendente napoleonico Briot, trasferito da Chieti a Cosenza (dove fonderà, vecchio giacobino, la prima loggia carbonara), nel 1807, si diceva, scrivendo all’ex segretario all’intendenza Giuseppe Ravizza, meravigliato di trovarvi “molti uomini veramente civilizzati”. E concludeva: “I Calabresi sono uomini come tutti gli altri”. Il Gran Tour e l’occupazione napoleonica, fonte anch’essa di molte memorie, sono stati letali. La storia, anche documentata, faticherà a liberarsene – il documento si può “leggere” in vario modo.
 
“La tarantella è la nostra pizzica, che può attirare turisti in Calabria”. Tutto ultimamente è turismo in Calabria, forse la regione meno adatta all’albergheria – organizzazione, tatto, garbo (il cliente ha sempre ragione), affidabilità, e mestiere e durata invece dell’improvvisazione – prendi i soldi e scappa.
 
O lo è della sua stampa? Le cronache locali sono ultimamente decadute, insieme col giornalismo – ci vuole abilità giornalistica per far vivere sulla pagina comunità spesso spente. Siccome nel 2024 le cronache nazionali e i tg sono pieni di alberghi pieni, il giornale calabrese, nel suo piccolo, si adegua?


leuzzi@antiit.eu 

La scoperta dell’amore

Maria, donna delle pulizie diarista emotiva, e Hubert, portiere col pallino della danza, già in là con gli anni, lavorano e vivono nell’ambiente più alieno, la scuola parigina di Belle Arti. Arti più parlate, filosofiche, che realizzate, con ingegno cioè e applicazione. Ma insomma in un mondo moderno, o del futuro. Di chiacchiere e “allestimenti”. Dove si fa l’amore ogni sera, dopo avere bevuto, con chi capita, senza ricordarne nemmeno il nome, forse giusto il sesso. Di passioni cioè vaganti, come le “opere d’arte”.
Due generazioni e due mondi, il futuristico-presente e il tradizionale-sorpassato. Maria e Hubert sono ligi al dovere e collaborativi. Aiutano molto gli artisti in petto, con la semplicità e con lo humour. Ma una vecchia Cinquecento li attende - di quelle con la levetta dello starter, che spesso la mattina facevano le bizze per accendersi, bisognava calibrare “l’aria” (e vedendola non si capisce come due persone ci entrassero, anzi tre).
Snobbato dai media, e quindi anche dal pubblico. Una commedia francese, su un aneddoto semplice, e senza Grandi Problemi o Grandi Colpe. Lieve e sorprendente, sulle forme dell’amore – c’entra pure quello tra genitori (madre) e figli (figlia, Maria ne ha una). Maneggiata con misura dalle registe. E con maestria dai due interpreti, Karin Viard e Gregory Gadebois. Geniale pure l’invenzione del setting, posto ideale delle chiacchiere che esauriscono la contemporaneità. Per un amore talmente esile da suscitare solo per questo la meraviglia. 
Lauriane Escaffre-Yvonnick Müller, Maria e l’amore, Rai 3, Raiplay

venerdì 13 settembre 2024

Cronache dell’altro mondo – se Trump è Jackson (291)

La presidenza Trump richiama quella di Jackson, 1829-1837, il primo presidente Democratico?
Il parallelo è stato avanzato il 14 luglio, sul “Wall Street Journal”, “America’s Jacksonian Turn”, da Walter Russell Mead, cattedratico di Relazioni Internazionali a Yale e al Bard College, uno dei collaboratori di “The American Interest”, il quindicinale di politica estera promosso da Francis Fukuyama nel 2005: “Trump è parte di una varietà di politica estera che Andrew Jackson portò al potere nel 1828. In politica interna, i jacksoniani sono guardinghi col big business, odiano l’establishment sociale e politico, e richiedono soluzioni di «senso comune» a problemi complessi. Sostengono i militari, ma non una classe di ufficiali che si consideri lontana dai valori e le abitudini della nazione – le camicie inamidate di West Point nel 19mo secolo, i «generali woke» oggi. Ritengono la classe politica profondamente e irrimediabilmente corrotta”. Una sorta di populismo, si direbbe, Democratico.
Il paralllelo è ripreso ora da Robert O’Brian, un avvocato d’affari di Los Angeles che è stato nel 2019-2020 consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, con un saggio su “Foreign Affairs” di luglio-agosto, “The Return of Peace Trough Strenghth”. O’Brian parla delle guerre in corso, e comincia rifacendosi all’antica Roma, “Si vis pacem, para bellum”. Un concetto, dice, del quarto secolo, del tardo impero. Ma di origine più antica, spiega, fu dell’imperatore Adriano: “L’origine del concetto è anteriore, è dell’imperatore Adriano, secondo secolo, al quale si attribuisce la massima: «La pace attraverso la forza – o, se necessario, la pace attraverso la minaccia»”. È questo che unisce Trump a Jackson: “Trump ha un’alta opinione del suo predecessore Andrew Jackson e dell’approccio di Jackson in politica estera: essere concentrati e forti quando si è costretti all’azione, ma diffidare degli eccessi”.
Di Jackson in realtà non c’è una politica estera – la “dottrina Monroe” trovò già all’opera, con la presidenza precedente la sua. Fu un comandante militare. Famoso per la battaglia di New Orleans, alla fine della guerra anglo-americana del 1812-1814: gli inglesi ebbero 700 morti, compreso il loro generale, Pakenham, e 1.500 feriti, Jackson 8 morti e 14 feriti – ma due settimane prima la pace era già stata firmata, a Gand, in Belgio. Fu famoso anche per lo sterminio degli indiani, dei Creek in Luisiana durante la guerra, e dei Seminole in Florida, allora dominio spagnolo, dopo la guerra anglo-americana – restò in Florida fino a che il governo spagnolo non si decise di venderla agli Stati Uniti, nel 1819, divenendone il primo governatore. Da presidente espropriò, contro una decisione della Corte Suprema, i Cherokee della Georgia, quando vi fu scoperto l’oro, con un decreto, Indian Removal Act, 1830, che sarà la base della cancellazione degli indiani dalla storia dell’America – che ora si definisce “una delle peggiori leggi della storia degli Stati Uniti”.    

L’impero al colosseo tv

Il mondo – il “mondo libero” nella fattispecie, ma di fatto anche il resto del mondo – governato da uno dei due duellanti in tv si vede come un incubo, o una distopia, come usa dire. Un uomo d’affari, immobiliarista per cominciare, un “palazzinaro”, e una donna viziata, che non ha mai fatto nulla nella sua vita, di grande famiglia, giudice distrettuale per diritto clanico, snob, per questo dalla parte degli occupanti di case a San Francisco (sempre condannava i poliziotti degli sgomberi forzati). Uno già presidnete degli Stati Uniti, poi animatore di un complotto anti-complotto. Lei vice-presidente di nessuna virtù, scelta per questo – nonché per essere donna, e di colorito bruno – e ligia al ruolo.
Visto da fuori Europa il duello tv tra i futuri presidenti dell’America è questo: strano, bizzarro, ridicolo anche. In Europa il ruolo dell’America è diverso: contano le radici storiche comuni, e conta soprattutto il piano Marshall. Il geniale governo dell’Europa da parte americana molto meglio di come abbiano mai saputo fare gli europei tra di loro. Con la ricostruzione e il rilancio dell’Europa dopo la rovina, invece di farne bottino di guerra o di pretenderne “riparazioni” – se non altro il ripagamento dei crediti di guerra.
Anche sul resto de mondo l’emprise americana è stata ingegnosa e liberatoria – per l’arricchimento di tutti attraverso l’arricchimento degli altri. Col trentennio della globalizzazione, che ha portato al benessere una buona metà, se non i due terzi, dell’umanità.
In entrambi i casi la pax americana ha suscitato gratitudine e immedesimazione. Non solo i Treasury Usa e Hollywood, anche le università, le tecnologie, le arti e le letterature, e perfino l’american way of life, con l’obesità del panino e degli snacks, sono stati per decenni l’orizzonte e la meta del mondo – la figlia del presidente cinese Xi si è formata in America. Malgrado le tante guerre, di cause dubbie, combattute male, e perse.
Ora non più. Ma chi sono questo Trump e questa Harris che ci governeranno? Nel dibattito lo avranno detto, ma non si ricorda. Le immagini restano di un colosseo “nel tinello”, piccolo borghese. Uno studio chiuso, con le luci di scena, su una palcoscenico piatto. Non gladiatori ma figure remote, che sembrerebbero ologrammi, se non creazioni IA.

Il Montalbano di Markaris ha l’affanno

Si vede che in Grecia non hanno filmato le storie di Kostas Charitos, il commissario di Polizia modellato dall’autore, Petros Markaris, sul Montalbano di Camilleri, e ci ha pensato la Rai. Con un cameo di riconoscimento per lo stesso Markaris, incontro casuale di Charitos in un corridoio. Ma facendone un altro.
Il Charitos-Montalbano di Markaris è lento. È sposato e ha una figlia diciottenne – di cui si occupa, quindi problemi a non finire. Ma si muove come il suo modello siculo. Non ha la Tipo, peggio, ha una Mirafiori. Non ha fretta di chiudere i casi. A casa soprattutto si riposa: non ha la verandina ma un solido vocabolario, col quale dialoga. Ordinario, perfino lento. Soffre una Atene sempre trafficata. E non si sconvolge ai richiami, frequenti, del commissario Capo, tramite della politica. La grande differenza dal modello, in Markaris, è che ad Atene non ci sono gli arancini, ci sono i ghemistà - pomodori ripieni e i pipi chini calabresi.
I ghemistà ci sono anche nella riduzione Rai, ma non sappiamo cosa sono, giusto una fugace denominazione. E così tutto il resto, Kostas corre veloce. Sola resta con i tempi originari la moglie Adriana, Francesca Inaudi, ma ringiovanita e imbellita - e non cucina, e non si (pre)occupa della figlia. A Fresi, attore ordinariamente misurato, il Kostas Rai toglie il respiro: parla, si muove, s’arrabbia a velocità doppia - come in un film d’azione, mentre è solo discorsivo.
Una produzione Rai al risparmio, benché firmata dalla Palomar di Degli Esposti che “inventò” il Montalbano televisivo – a dialoghi più veloci pose più rapide? Atene non c’è, solo qualche foto aerea.
Milena Cocozza, Kostas, Rai 1

giovedì 12 settembre 2024

Il mondo com'è (479)

astolfo

Dawes Plan – È il piano concluso nel 1924, dopo un duro negoziato, nell’ambito del Dawes Committee, delle potenze Alleate, per riordinare e rendere esigibili le riparazioni di guerra che la Germania doveva agli Alleati. L’allora presidente della Reichsbank (ora Bundesbank) che lo negoziò per la parte tedesca, Hjamar Schacht, dà conto nelle memorie, “Confessions of the Old Wizard”, di avere avuto un occhio di riguardo solo da parte dei rappresentanti italiani nel Committee, prima il “professore di economia Flora, di Bologna”, poi di “Feltrinelli”.
Feltrinelli è Carlo, figlio di Giovanni (e di Maria Pretz, austriaca), che succedendo al padre e allo zio Giacomo, aveva spostato le attività di famiglia dal legno /(la forniture di traversine per le ferrovie italiane, e anche austriache) verso l’immobiliare (la Nord Milano) e la finanza. Rafforzando la banca di famiglia, la banca Feltrinelli, con l’acquisizione di importanti clienti a Milano (Edison, Falck): Nel 1915 era riuscito a entrare nell’istituto per il credito a medio termine creato dalla Banca d’Italia per finanziare l’industria degli armamenti, il Csvi. Nel 1919 aveva trasformato la banca di famiglia in società per azioni, la Banca Unione, divenendo quindi consigliere, poi presidente, del Credito Italiano, seconda banca italiana dopo la Commerciale, nonché marchese, e uomo pubblico. Consigliere di molte banche europee, compresa la Reichsbank, la banca centrale tedesca (1924-1930, per conto del governo italiano), rappresentò l’Italia nel Dawes Committee nelle sedute finali. Era l’unico membro del comitato che parlasse tedesco, avendo fatto il liceo a Bolzano, allora austriaca.
“Il senso di durezza”, ricorda Schacht del suo primo approccio a Parigi con la commissione, “svanì solo quando l’italiano – il professor Flora di Bologna – mi strinse calorosamente la mano col vecchio buon austriaco «Habe die Ehre»”, onorato. Federico Flora, nativo di Pordenone, insegnava Scienza delle Finanze a Bologn – dove presiedette la Banca Popolare. Fu anche giornalista, direttore infine del “Resto del Carlino”, e senatore, promosso da Vittorio Emanuele III.
La Commissione Riparazioni fra gli Alleati essendo a un punto motto, poiché la Germania semplicemente non poteva pagare, una nuova Commissione fu costituita che prese il nome dal suo presidente, il rappresentante degli Stati Uniti, Charles G. Dawes – un banchiere di Chicago che aveva diretto in guerra il Bureau of the Budget a Washington, e sarà il vice del presidente Calvin Coolidge, 1924-1929. Ebbe il Premio Nobel per la pace nel 1925, per il Piano Dawes per le riparazioni.
Il negoziato si tenne a Parigi, essendo la Francia la più dura ed esigente fra le potenze vincitrici per quanto concerneva le riparazioni di guerra – aveva già promosso l’occupazione militare della Ruhr, come arma di pressione sul governo di Berlino, e favoriva il “secessionismo renano”, proponendo una sorta di banca centrale locale, con fondi francesi e, Parigi sperava, inglesi. Schacht riuscì a scongiurare la secessione finanziaria per l’aiuto del governatore della Banca d’Inghilterra, Montagu Norman, che in sua presenza rispose negativamente alla richiesta del ministro francese delle Finanze. D’altra parte, gli Stati Uniti esigevano il ripagamento dei prestiti concessi durante la guerra agli Alleati, oltre 10 miliardi di dollari. Dawes riuscì a coordinare le due esigenze.
Il piano Dawes fu presentato nell’aprile del 1924. Non fu fissata una cifra, solo si disse “ridotto” l’ammontare totale delle riparazioni, e anche l’ammontare annuale. Da incrementare man mano che l’economia tedesca avesse ripreso a marciare – le richieste di Schacht. I franco-belgi avrebbero evacuato la Ruhr occupata militarmente. Le banche anglo-americane avrebbero finanziato con un prestito di 200 milioni di dollari l’economia tedesca.
Il meccanismo messo in moto era una triangolazione. Le banche americane avrebbero continuato a prestare alla Germania, per metterla in condizione di pagare, con la valuta dei prestiti e con l’accresciuta attività economica, cioè con le esportazioni, le riparazioni a Francia e Gran Bretagna. Che a loro volta avrebbero impiegato queste entrate per ripagare i debiti di guerra con gli Stati Uniti.
La Germania dovette comunque pagare ogni anno due miliardi di marchi oro in riparazioni – lo fece per sette anni, fino alla crisi del 1931.
 
Eufemio da Messina – Soggetto di una tragedia di Silvio Pellico, 1820, e di un’opera di Carolina Uccelli, 1836, andata perduta, è il governatore bizantino in Sicilia che si alleò con l’emiro di Kairuan (oggi Tunisia) per portare gli arabi nell’isola, nell’827. Accusato del rapimento di una vergine dal chiostro si ribellò e si alleò con i mussulmani. In un primo momento si era difeso erigendosi a comandante dell’isola: aveva preso Siracusa e aveva sconfitto la milizia mandata al suo arresto. Poi, essendoglisi anche la popolazione rivoltata contro per l’empietà di cui si era macchiato, si era rivolto all’emiro. Sarebbe stato ucciso mentre trattava la resa di Castrogiovanni, oggi Enna. 
 
Karl Haushofer - Albrecht Haushofer, autore dei commoventi “Sonetti di Moabit”, arrestato a Natale (1944), fu ucciso il 23 aprile 1945 in quella prigione, un mese prima della fine del Reich, dopo che il padre Karl, il geopolitico, si era rifiutato d’intercedere: “Ha tradito la patria”, dicendo – un anno dopo si suiciderà, con la moglie ebrea, ma non per la vergogna, per la povertà.


Irlanda Era il paese più povero dell’Europa occidentale, in assoluto e pro capite, mezzo secolo fa, prima dell’accesso alla Comunità poi Unione Europea. Con un reddito pro capite di poco più della metà del reddito medio pro capite europeo. È diventata con la Ue il paese più ricco pro capite, più della Svizzera. Il paese europeo dai cittadini più ricchi, se si eccettua il piccolo Lussemburgo, con 106 mila dollari (il reddito medio italiano è di 40 mila dollari). E può proporsi nella pubblicità come innovation hub. È bastato avere l’inglese come idioma – e non essere Londra (cara).


San Giovanni – L’evangelista è un altro? Non “il discepolo che Gesù amava” ma un dotto giurisperito. Anche lui un apostolo, ma tardo: uno “che non fece parte della cerchia dei dodici apostoli, ma che ebbe comunque conoscenza diretta del maestro di Nazaret”, spiega Giulio Busi nell’introduzione al suo studio “Giovanni. Il discepolo che Gesù amava” - pubblicata sul “Sole 24 Ore Domenica”, l’8 settembre. Giovanni l’Anziano, o il Presbitero, noto finora come autore di tre lettere conservate e riconosciute nel Nuovo Testamento. Che “in una data antecedente alla rivolta anti-romana del 55-70 e alla distruzione del Tempio di Gerusalemme si trasferisce a Efeso, capitale romana dell’Asia Minore”. Dove compone il suo Vangelo, che verrà pubblicato dopo la sua morte, avvenuta “in tarda età, verso l’anno 100”. Uno “di stirpe sacerdotale”, così lo voleva la tradizione diffusa a Efeso.
Busi parte dalla constatazione che il “il Vangelo di Giovanni, detto anche Quarto Vangelo, poiché ritenuto più tardo… è il più ebraico dei quattro Vangeli. Il suo autore conosce a fondo gli usi giudaici, e cerca di spiegarli ai lettori non ebrei. È a proprio agio nella topografia di Gerusalemme, come chi sia nato nella città santa. Anche il greco con cui si esprime tradisce l’origine ebraica e aramaica dei suoi pensieri”. Mentre è allo stesso tempo il più anti-ebraico: “Usa parole dure contro i «giudei», e li accusa, addirittura, di avere per padre il diavolo”.

Carolina Uccelli – Ignorata perfino da wikipedia fino a ieri, riscoperta da un musicista americano, Will Crutchfield, direttore della compagnia d’opera “Teatro Nuovo” del New Jersey, che ne ha riproposto una delle sue due opere, “Anna di Resburgo”, è una poetessa, cantante e compositrice fiorentina, vissuta tra Firenze e Parigi dal 1810 al 1858. Fu boicottata inquanto compositrice donna in vita, e presto dimenticata.
Aveva esordito molto giovane con successo, anche per il patrocinio benevolo di Rossini. “Anna di Resburgo” fu rappresentata a Napoli nel 1835, al teatro del Fondo, oggi Mercadante. Dopodiché la stella della compositrice svanì. Si ha notizia dell’esecuzione a Milano dell’ouverture di una sua terza opera, “Eufemio da Messina”, sul governatore bizantino che portò gli arabi in Sicilia, ma non dell’opera.
La sua prima opera, “Saul”, era stata rappresentata alla Pergola a Firenze il 2 giugno 1830 con successo. Col plauso, anche, di Rossini. Carolina Uccelli non aveva ancora venti anni e la cosa non le fu perdonata. L’apprezzamento di Rossini, si disse, era dovuto ai favori che la giovane gli aveva concesso. Una giovane già sposa peraltro: nata Pazzini, alta borghesia fiorentina, aveva sposato a quindici anni Filippo Uccelli, pisano, chirurgo, facoltoso, vedovo. Un uomo di più del doppio dei suoi anni, che l’aveva sostenuta nella passione musicale, alla quale Carolina si era educata, e la sostenne anche finanziariamente, nella produzione delle sue opere.
Alla morte del marito, nel 1843, si trasferì a Parigi, al seguito della figlia Giulia, che vi avviava una carriera da cantante – soprano, studiò canto col maestro Marco Bordogni, famoso tenore di scuola bergamasca, insegnante al Conservatorio di Parigi, Legione d’onore nel 1839 in compagnia di Berlioz (che lo incoronava miglior cantante sulla scena). E la seguì nelle sue tournées di concerti, in Belgio, Olanda e Svizzera. Morì a Firenze, nel 1858.
Fu dunque a Parigi negli anni di Rossini – e come lui vi smarrì la vena compositiva? Il successo del “Saul” nel 1830 non era passato inosservato: Crutchfield ne ha trovato echi anche nella stampa inglese – seppure su sfondo pettegolo (amante di Rossini).

astolfo@antiit.eu

Le sorprese dell’amore, esagerate

Il titolo italiano (l’originale è “She came to me”) rende bene la trama: l’amore sconvolge. Vecchio tema, molto usato, che la regista, soggettista e sceneggiatrice ravviva nei toni della “surrealtà”, allucinata e pratica quotidiana. Una coppia di ragazzi che si fa, come usa, le foto a letto, per di più in polaroid. Una coppia di genitori “americana”, lui stenografo di tribunale, quindi automaticamente giurisperito, che passa i week-end nelle rievocazioni in costume delle battaglie storiche, lei di recente immigrazione ancora senza cittadinanza che si aiuta facendo le pulizie. E una coppia della New York “in” - la scena di apertura, già un romanzo, è di un ricco party nella ricca casa, lei di buona famiglia cattolica ed ebraica, perfetta, lui compositore d’opera di successo, affetto fa nanismo e scarruffato, tra alcol e ispirazione.
Il marito compositore troverà l’ispirazione, e anche il libretto, portando fuori il cane, incombenza di cui ha l’incarico. La coppia di ragazzi sono, lui, figlio della donna di buona famiglia cattolico-ebraica allevata dalle suore, lei figlia dell’immigrata slava senza cittadinanza. Che fa le pulizie nella casa di lui. Ci saranno problemi? Ovvio. Ma non solo per loro: il più grosso è del musicista, che viene rimorchiato mentre porta a spasso il cane da una capitana di rimorchiatore al porto di New York che è malata d’amore, un tempo si diceva ninfomane – è appena uscita dalla comunità di recupero, ma non resiste.
Un soggetto e una resa spettacolari. Anche se non è girato in Italia in sala, non avendo distribuzione. Classificato romantico, è invece del genere grottesco, lieve – umoristico. Che in Italia non ha grande seguito - lo ha invece in Germania, dove è stato apprezzato al festival di Berlino. Rebecca Miller è scrittrice prima che regista, ma ha già all’attivo una mezza dozzina di film – tutti presentati, qualcuno anche premiato, alla Berlinale, la mostra del cinema di Berlino.  
Con interpretazioni super di Marisa Tomei, la dipendente d’amore: ruolo improbabile che invece, in un ruolo finalmente non di contorno, da caratterista, rende magnetico. Mentre Anna Hathaway ha il difficile ruolo di psicologa in esercizio, che è moglie e madre accudente, sempre molto elegante e molto bella, igienista alla paranoia, sta sempre a pulire, e nell’intimo frigida – da suora. Due personaggi di difficile caratura che le due interpreti tengono vivi per tutto il film. A Peter Dinklage, l’artista ex
bohème, ora molto off e molto in, basta la figura, il testone scarruffato e il corpo esile, e la fama acquisita col “Trono di spade”.
Le sorprese dell’amore, non si direbbe. Il tutto regge la sceneggiatura. E un montaggio millesimato, che non lascia mai cadere l’attenzione.
Rebecca Miller, E all’improvviso arriva l’amore, Sky Cinema, Now

mercoledì 11 settembre 2024

Letture - 558

letterautore

Constant – Apprezzato vastamente in Italia quale campione del liberalismo (Croce), ma non in Francia, dove è discusso, ma solo per l’opera letteraria - che è solo il racconto “Adolphe”. Così Teresa Cremisi, che cura l’edizione Garzanti del racconto.
 
De André
– Un poeta per i fan. Ma “a chi lo definiva poeta”, ricorda Mastrantonio (“7”. 6 settembre), “De André rispondeva rifugiandosi in un citazione di Benedetto Croce, per cui fino ai 18 anni tutti scrivono poesie, mentre dopo lo fanno solo poeti e cretini; e lui, prudentemente, si era rifugiato nella canzone”. Ma con riferimenti poetici quasi letterali. Mastrantoio ne cita due. “L’inizio della canzone «Nei quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi…» è preso dalla poesia di Jacques Prévert «Embrasse-moi»” – no, è il Brassens di “Embrasse-les tous”, abbracciali tutti, al sole è possibile.
 
Ne “La città vecchia” (1965), una delle prime composizioni, insiste Mastrantonio, “sviluppa temi, atmosfere e persino la morale dell’omonima poesia di Umberto Saba” – una poesia della raccolta “Trieste e una donna” (1910-1912) del “Canzoniere”. No, è la stessa, quella di Brassens - non i metri ma il tema, e molte figure e parole.
 
De Staël - Ebbe con Benjamin Constant, fra i tanti, “la più verbosa relazione che la storia ricordi”, Teresa Cremisi, intr. a B. Constant, “Adolphe”, ed. Garzanti. A partire dal settembre 1794, entrambi trentenni, età allora considerevole (lei del 1766, lui del 1767), lei scrittrice, lui aspirante scrittore. Ricorda lui nel diario ultimamente pubblicato: era “la persona più celebre del nostro secolo”, ma intende riferirsi all’Ottocento, quando scrive, e non al Settecento, quando la incontra, “per i suoi scritti e la sua conversazione. Non avevo ma visto nulla di simile al mondo. Ne divenni pazzamente innamorato”. Si dimentica di Charlotte von Hardenberg, che aveva divorziato per lui: “Charlotte fu completamente cancellata…. Non risposi più alle sue lettere. Ella cessò infine di scrivermi”. Fu un sodalizio rafforzato, dice Cremis, dai “solidi fili del lavoro letterario e della passione politica”. Ma “Germaine lo ama, e lo proclama ai quattro veti, Benjamin la tradisce in continuazione e cerca (invano) tutti i giorni di prendere le distanze”. Sono anni, Constant ripete mille volte nel diario, “insopportabili, terribili, spaventosi”. Le relazioni poetiche possono essere terribili.
Il 20 settembre1807 Constant annota: “Era ieri l’anniversario del quattordicesimo anno di questo legame funesto. è da dodici che cerco invano di spezzarlo”. L’anno seguente sposa in segreto l’abbandonata Charlotte. Ma fino a metà 1811 continua a convivere con Germaine de Staël – che morirà presto, nel 1817, un 14 luglio.
 
Interviste tv
– “Naomi Campbell è stata insopportabile”, risponde Mara Venier a Renato Franco nel medaglione “Le Capitane” del “Corriere della sera” sulle sue famose interviste in tv: “Non voleva rispondere a niente. È arrivata con otto ore di ritardo e a ogni domanda continuava a ripetere (it) is my privacy. Le avevamo dato quaranta milioni di lire”.
 
Jus Scholae – Alcuni dei migliori scrittori francesi sono svizzeri: Rousseau, Constant, de Staël, Cendrars. Sismondi. Anche belgi: Simenon.
Sono svizzeri anche importanti scrittori tedeschi: Gotthelf, Keller, Robert Walser, Dürrenmatt, Max Frisch - e Johanna Spiri, “Heidi” (e Joël Dicker).
 
Leopardi – Uno “spettatore che perde quasi coscienza di sé”: lo inquadrava ai margini Carlo Cassola in uno dei “Fogli di diario” che tenne sul “Corriere della sera” dopo il 1968. Non avendone per questo grande opinione: “Poche poesie vale la pena di tornare sempre a rileggere”.
 
Politicamente corretto – Non è una novità, nei limiti del buonsenso. Non nell’Italia repubblicana: Massimo De Luca, l’antico radiocronista sportivo, ha messo in scena la vicenda di Niccolò Carosio, il cronista sportivo canonico allora della Rai, esonerato dallo storico Italia-Germania 4-3 a Città del Messico, per un insulto razzista al guardialinee etiope che aveva annullato un gol a Riva nell’eliminatoria con Israele. “Riascoltando la telecronaca”, De Luca spiega a Tomaselli sul “Corriere della sera”, “quella parola non fu mai detta: Carosio dice solo, stizzito, «l’etiope annulla»”. E ricorda: “Enzo Tortora sul «Carlino» disse: «Se non fate più dire etiope a Carosio, non trasmettete più l’Aida, che contiene quella parola»”.
De Luca ricorda an che fu Ghirelli a dire, in tono scherzoso: “Nelle interviste post partita il grande giornalista Antonio Ghirelli – sottolineando il carattere scherzoso della sua affermazione – parlò di «vendetta del Negus»”.  Ma anche queto urtò qualche sensibilità: “Di questo si trova traccia in una lettera di Carmelo Bene all’Unità” – Bene il trasgressivo facendo notare di Carosio (reo di non essere “riveriano” come lui): “Non diede mai del ’signor’ – come si usa fare ai direttori di gara – a Seyoum Tarekegn”.
 
Del “caso Carosio” De Luca si era già occupato nel 2009 durante la trasmissione la Domenica Sportiva di cui era conduttore. Su quella che considera “la prima fake news del calcio e dello sport italiano” De Luca è poi tornato nel 2010 con un capitolo del saggio Sport in tv. Storia e storie dalle origini a oggi (Rai Eri, scritto a quattro mani con Pino Frisoli) e ora con uno spettacolo teatrale, Quasi goal.
 
Recensione - Se ne lamenta la scomparsa, da tempo ormai – insieme con quella del critico militante. Se ne fanno molte e moltissime, i settimanali letterari sono almeno quattro, e recensiscono un centinaio di libri a uscita. Ma non è la stessa cosa. Per questo si segnala la pagina lirica che lo psichiatra Eugenio Borgna ha dedicato a Rosella Postorino, “Nei nervi e nel cuore”, sul “Corriere della sera”, che è il giornale dell’editore di Solferino, la casa che pubblica Pastorino.
 
Sceneggiati – È incredibile il numero e la qualità degli sceneggiati, per autori, registi e interpreti coinvolti, cinquant’anni fa. Solo negli anni 1975-1977,
https://www.teche.rai.it/sceneggiati-e-fiction-1975-1977/.
Tra essi molti capolavori, “La baronessa di Carni”, di Daniele D’Anza, o “Il maestro e Margherita”, con l’epico, per ascolti, “Sandokan”. I romanzi più famosi, ridotti dagli scrittori di maggior nome. Con i registi e gli attori di maggior talento.
Teche-Rai ne elenca sessanta per ogni triennio precedente,
https://www.teche.rai.it/sceneggiati-e-fiction-1970-1973/
https://www.teche.rai.it/sceneggiati-e-fiction-1973-1975/
 
Umorismo – Abatantuono lo vuole finito. “È Tik Tok la prova che l’umanità non potrà mai più essere quella di prima”, spiega in un’intervista su “7”: “Su 500 mila filmati ce n’è uno che fa ridere ma i ragazzi ridono per tutti. Il senso dell’umorismo è finito lì”.        


letterautore@antiit.eu 


Ritorno allo sceneggiato, in grande stile

Magistrale la scena iniziale del terremoto a Bagnara, breve, il tempo giusto del terremoto, e da cine-verità. Grandi panoramiche delle piazze, i mercati, i palazzi, esterni e interni, di Palermo. Dove i Florio, poveri “putighari”, bottegai, di spezie, di Bagnara in Calabria, decidono di stabilizzarsi – sulle orme di parenti e paesani che, come avviene in tutte le emigrazioni (a quella italiana in Nord America, in Perù, in Argentina, in Venezuela, in Australia), se ne fanno una piccola rendita, con “sistemazioni” e anticipi a larga resa. Interpreti aderenti al ruolo, in queste prime puntate, Marchioni (Paolo Florio), Briguglia (il fratello Ignazio), Ester Pantano (moglie di Paolo, ma innamorata di Ignazio) e il figlio e nipote Ignazio, artefice delle future fortune, almeno finché lo interpreta Eduardo Scarpetta – Riondino, nella scena madre dei titoli di testa, e poi Ignazio adulto, ha sempre la stessa espressione, quella dal “Giovane Montalbano” alla “Palazzina Laf”.
Una grande produzione, senza le furbe economie delle “serie” - viaggi attorno a una stanza: la Rai apre la stagione tornando ai fasti degli sceneggiati anni 1970. Palermo peraltro si presta, è scena incomparabile. Peccato che la Rai (Genovese?) la legga nello “stile Rai”, tristanzuolo, cieli grigi, visi pallidi, interni luttuosi, invece che luminosa, come è, vedi la serie “Montalbano”. Peccato anche per le musiche, stranissime, hop, funk, perfino, sembra, electronic – pubblicità occulta? Peccato anche (ma forse è di Auci, l’autrice del romanzo dei “Leoni”?) che il terremoto a Bagnara sia datato 1802, 1799 e 1788 – nessuna data plausibile (è stato nel 1783): Paolo Florio non emigra per cercare fortuna?
Paolo Genovesi, I Leoni di Sicilia, Rai 1, RaiPlay
 

martedì 10 settembre 2024

Ma Meloni è la spalla di von der Leyen

Non ci sarebbe mai stato un taglio alla “relazione speciale” stabilita tra Meloni e von der Leyen nella passata legislatura europea. Il sentiment della Farnesina è forse d’obbligo. Ma è argomentato.
Meloni non ha votato von der Leyen, se non su richiesta di quest’ultima, comunque per non scomodare la vecchia comoda alleanza che l’aveva votata cinque anni fa. Ma mantengono il rapporto personale. Con speciale sintonia su tutte le questioni, le politiche di bilancio, restrittive ma non troppo, le liberalizzazioni (concessioni balneari), l’immigrazione.
Sull’immigrazione la posizione era comune fra le due statiste prima dell’allarme suonato in Germania con la crescita esponenziale di Afd. Convergono sulla posizione italiana, che va regolata all’origine, nei paesi di provenienza. Sul “patto migratorio” Fratelli d’Italia aveva già votato con  i Popolari – il partito di von der Leyen. Distintamente, cioè, da Orbàn e Le Pen (e Salvini).
Analoghe, se non comuni, sono le posizioni sul green deal: non abbandonare il pian radicale della passata legislatura europea ma ammorbidirlo - adattarlo alle congiunture di mercato e alle capacità produttive.
È anche vero, a prescindere dalle valutazioni della Farnesina, che von der Leyen è Manfred Weber, il bavarese (quindi moderato, se non di destra) coordinatore dei Popolari al Parlamento. Che si sbraccia a dire il governo Meloni “pro Europa, pro Stato di diritto, pro Ucraina”. Un dieci e lode.

Euromissili di ritorno

Delle due grandi opzioni prospettate necessarie da Draghi, la legislatura europea che si apre sarà quella del bond europeo, di Francoforte piazza finanziaria mondiale, di attrazione del risparmio di grandi capitalisti e grandi esportatori? Oppure quella della difesa europea, di forze armate coordinate strategicamente e tatticamente, e armate cn piani unitari? Per ora è più probabile la seconda novità. Ma, a quello che finora si é deciso, nella forma degli “euromissili di ritorno”.
Il sistema sovetico fu scartinato, si ricorderà, dalla decisione americana di schierare in Europa sistemi missilistici in grado di coprire il vasto impero russo – per una ritorsione cioè non più lasciata ai missili intercontinentali.
Due mesi fa, a margine delle celebrazioni dei 75 anni della Nato, Stati Uniti e Germania hanno annunciato un accordo per l’installazione su suolo tedesco, entro due anni, di missili americani a lungo arggio – in grado cioè di colpire aree anche remote della Russia. La notizia non ha destato interesse in Italia. Ma negoziato sono da allora in corso per posizionare missili americani a lunga gittata anche in Italia.
Il governo tedesco ha minimizzato l’accordo. Ha spiegato che non si tratta egli euromissili degli anni 1980. E che lo schieramento in Germania è provvisorio.
Ma il provvisorio è, secondo il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorus, “il tempo necessario all’Europa per sviluppare la propria arma”. E questi missili a lunga distanza sono “non nucleari”. Sono in realtà “duali”, in grado cioè di essere armati con testate nucleari.  

Masada non fu una grande resistenza

L’assedio di Masada fu montato in pochi giorni, e si risolse in pochi giorni. Un episodio cardine della storia ebraica, come ricostruita in Israele, la resistenza all’espansione romana duemila anni fa, esattamente nel 73 d.C., nella rocaforte di Masada, sul mar Morto, viene ridimensionato dalle ultime ricerche archeologiche, a opera di archeologi israeliani del’università di Tel Aviv, che ne pubblicano i risultati nel “Journal of Roman Archeologuy”.
L’assedio, la resistenza all’assedio dopo la rivolta, sono una pietra miliare della “storia di Israele”, come è stata ricostituita finora sule fonti classiche. Nel caso, sulla storia di Giuseppe Flavio, lo storico romano del primo secolo, di origine ebraica, che scriveva in greco. Autore di “La guerra giudaica”, oltre che di “Antichità giudaiche”. Giuseppe Flavio dice che l’assedio fu lungo, e che i ribelli ebrei preferirono uccidersi che consegnarsi ai romani di Vespasiano. La ricerca ora pubblicata, condotta con i più modern ausili tecnici e di calcolo, di cui la pubblicazione dà gli esatti riferimenti e i criteri d’uso, accerta invece che fu una cosa di pochi giorni. “Vennero”, commenta Stiebel presentando al ricerca, “assestarono un colpo mirato, e se ne andarono. I dati sono molto chiari. Parliamo di un periodo brevissimo per costruire il sistema d’assedio”.
Dei tanti calcoli che hanno portato a questa conclusione, il più discorsivo è quello dei “carichi di lavoro”, dedotti in riferimento a quelli noti dell’assedio di Gerusalemme tre anni prima: “I nostri calcoli sui carichi di lavoro danno che 5.000 uomini potrebbero aver costruito il sistema d’assedio attorno a Masada in 11-16 giorni…. Nell’assedio di Gerusalemme del 70 d.C. le forze romane, cinque volte più grandi di numero di quelle di Masada, costruirono 7 km di mura di circonvallazione e 13 campi in tre giorni…. Se assumiamo che gli altri parametri erano simili (p.es. l’altezza e la larghezza del muro, le pietre portate dalla stessa distanza) possiamo calcolare il tempo necessario per costruire il sistema d’assedio di Masada in rapporto alle giornate di lavoro impiegate per il sistema di Gerusalemme moltiplicate per 5 (la forza lavoro a Masada era cinque volte più piccola) e divisa per 1 e due terzi (il sistema d’assedio di Gerusalemme era 1 e due terzi più grande).”
Hai Askenazi- Omer Ze’evi-Berger, Boaz Gross- Guy D. Stiebel, The Roman siege system of Masada: a 3D computerized analysis of a conflict landscape, “Journal of Roman Archeology”, 29 agosto 2024, Cambridge University Press free online

lunedì 9 settembre 2024

Meloni e i suoi cari – l’’intelligenza di destra

L’intelligenza di destra è tribale, in Italia, clanica, familiare, amichevole? È quello che si vede. L’intelligenza di destra non manca, non in Italia: ci sono manager, artisti e intellettuali che simpatizzano per la destra, moderata e anche non (lasciando stare l’arte, che un po’ ovunque, ora e prima, è più opera di conservatori). Ma le scelte di questo governo, il primo di destra, sono da “Amici miei”, da cazzeggio, da complicità adolescenziali, un tempo si diceva da “prima visita casino”. Anche in consessi di prestigio, e di tradizione, che richiedono competenze, almeno un simulacro. O da imperatori che fanno senatore il cavallo – ma per disprezzo di chi, essendo poi solo parlamentari eletti? Amici di scuola, di quartiere, di famiglia, perfino di vicinato.
Il consiglio del Maxxi di Roma, p. es., che si rivela inutilizzabile per la successione al presidente dimissionario – il presidente divenuto ministro. Lo stesso alla Rai per la successione alla presidente dimissionaria. E lo stesso si direbbe per Sangiuliano, che va in tv per giurare e spergiurare: il minimo che si richiede a un politico è il sangue freddo.
Nei passati governi di destra che in realtà erano di centro-destra e non di destra-centro, Berlusconi s’illustrava al contrario cooptando personaggi il più possibile eminenti o capaci, Monti e Bonino, Letizia Moratti o Cingolani - ci provò perfino con Gianni Agnelli.

Un’Europa con meno Germania – e meno Usa

Il piano Draghi per l’Europa dice molte cose, che, sintetizzate in una formula da lui evitata, significano: l’Europa a trazione tedesca non funziona. La Germania ha prosperato negli anni di Merkel con la politica più mercantilistica (nazionalistica) mai registrata nel dopoguerra, nel campo bancario e in quello industriale (salvataggi e aiuti di Stato), con accordi privilegiati con la Cina, politici oltre che industriali e commerciali - e con l’energia a sconto fornita dalla Russia, si scopre ora che ha dovuto chiudere quella fonte. L’Europa tenendo sotto la sferza delle “compatibilità” (La Malfa) o dell’austerità.  
È così che, a partire dal crac bancario americano del 2007, aggravato per l’Europa dalla crisi del debito del 2011, e con la crisi mondiale del covid 2019-2021, l’Unione Europea ha registrato la crescita più bassa rispetto al resto del mondo. Complessivamente, negli anni del Millennio, quasi un quarto di secolo, dal 2000 al 2023, il pil reale europeo è cresciuto nel periodo dell’1,6 per cento, contro il 2,1 per cento degli Stati Uniti, il 5,1 delle economie emergenti, l’8,3 della Cina. La quota della Ue a 28 sul pil mondiale si è conseguentemente ridotta, dal 25 per cento circa al 16,6 per cento a fine 2022.
Gli altri vanno in qualche modo veloci, l’Europa ristagna. Nella produzione, e nella produttività che è il vero motore della produzione. È come se fosse invecchiata: non investe, non a sufficienza, giusto per la sostituzione, e non innova. Draghi vuole una serie di investimenti. Specie per la difesa – dove però non sono augurabili. L’Europa va liberata dalle pastoie del ventennio merkeliano. Il debito va affrontato, alcune economie ne sono strozzate – per prima l’italiana. Le politiche fiscali vanno armonizzate – com’è che si può scappare in Olanda, o in Irlanda? E soprattutto, i mercati finanziari vanno irrobustiti. Allargando le scadenze e alleggerendo i pesi. Rafforzando l’euro, fino ai treasury Ue, come polo d’attrazione dei capitali. Comunque ricordando che non c’è salvezza dentro la gabbia del dollaro. Se non nei limiti e al volere deel deep State di Washington, che non sempre combacia con l’interesse dell’Europa, più spesso collide, da qualche tempo, già prima della guerra in Ucraina, dichiaratamente.

Roma Nord non fa ridere

La notevole stand-up comedian, o cabarettista, di tanti programmi tv di successo, con partecipazioni in molti film, si prova con una commedia a soggetto tutta per sé, con una storia e dei personaggi. Di un ambiente che conosce, venendo dalla Balduina, studi al Mamiani, dice la bio, benché da una famiglia di nonni e bisnonni calciatori oplontini (Torre Annunziata): Roma Nord. Che vive di shopping, parrucchieri, coppie asiatiche, relazioni sociali, club esclusivi, minicooper, fragole e panna. Figli sparsi, e amiche, di vario colore, bionde, brune, castane, ma tutte in silhouette.
Tutto Roma Nord, dunque, benché da posizioni contestatrici. Fino al giorno in cui il padre non introduce in casa un’altra figlia, confinata a una comunità per giovani autistici: grassa, goffa e vorace. La sorellastra rovinerà il matrimonio di Flaminia, e fin qua poco male – il fidanzato è un debole, da un paio di pose (serve da gancio per la sua famiglia, reputata “di più”). Se non che tutto girerà attorno a lei, Ludovica - grande interpretazione di una ignota Rita Abela. E Flaminia-Giraud ci priva del suo talento. Nemmeno una battuta.
Un film sociale, firmato da un’attrice brillante. Contro la vacuità borghese - tutta femminile, per la verità. E per l’inclusività.
Michela Giraud, Flaminia, Sky Cinema

domenica 8 settembre 2024

Ombre - 736

Lo spagnolo Borrell, commissario Ue per gli Esteri e la Difesa, critica Meloni perché “non permette all’Ucraina di usare le armi che le fornisce per colpire le basi russe all’interno del territorio russo”. Borrell è socialista e quindi ci sta che critichi Meloni il giorno in cui incontra un riconoscente Zelensky - non è la prima volta che lo fa, mentre non lo fa per Francia e Germania. Ma è anche spagnolo: la guerra in effetti è diversa vista dalla Spagna, la Russia, gli slavi, la vedranno come un videogioco.
 
“Paisans for Harris\Walz”, s’intitola così il manifesto degli italo-americani Democratici, lanciato ieri in rete, firmato da nomi eccellenti, tra essi Nancy Pelosi e Robert De Niro, Lorraine Bracco dei “Sopranos”, Bill de Blasio. Peggio lo slogan, tutto alto, in tricolore: PASTA AND  PROGRESS. Mah! Per raccogliere voti? L’America è un altro mondo.
 
Sangiuliano annuncia cause contro Boccia. Anche Meloni si mete a polemizzare. Un tappeto rosso per la dottoressa in eventi. Sapendo già che il marito non è riuscito a ottenerne il divorzio in dieci anni – dopo appena uno di matrimonio? Ci vuole giudizio, il potere è nudo, come diceva il bambino della favola di Andersen.
 
Dodici pagine alla ricattatrice di Pompei ancora dopo le dimissioni di Sangiuliano. Ce l’avremo ancora sul gobbo? Senza mai dire chi è, cosa ha atto, cosa fa questa donna. Giusto poche righe dell’ex marito, da lei martirizzato con un processo di divorzio interminato dopo dieci anni. Voglia di scandalismo? È l’opposizione, bellezza? Poi dice che nessuno compra più il giornale.
 
È una gigantessa la “dottoressa” nel salotto televisivo cairota “In onda” su “La 7”, i conduttori Aprile e Telese fanno da spalla ala primadonna – Aprile con belle palle per gli smash della “dottoressa”.  Trattata non solo come una persona normale, anche come un personaggio, una diva. È anche vero che la donna ha portato la tv di Cairo al 10 per cento di share, quasi.
 
“L’Italia ha pagato per interessi più di Francia e Germania insieme”, può dire il presidente Mattarella, e spiegare anche il perché: “Il motivo è nella diversa valutazione del debito”. In effetti, non si riesce a far dire che il debito italiano è una vacca da mungere. Da quando nel 1992 il padre della speculazione made in America Soros ci fece in poche ore molti miliardi.
 
Il rating dell’Italia, che definisce il costo del debito, di agenzie di rating diversificate ma tutte di Wall Street, è lo stesso del Paraguay – l’America non ha molto il senso del ridicolo, basta il potere.
http://www.antiit.com/2024/09/il-cappio-del-rating.html
Una speculazione, così, facile facile – Soros aveva dovuto studiare. Mattarella dice: “Ma l’Italia è un paese solvibile”. Questo lo sanno tutti, ad abundantiam – altrimenti dove sarebbe l’utile?
 
Spettacolare, incredibile, conclusione della vicenda decennale, ventennale?, delle concessioni balneari. Con l’ok distratto di Bruxelles – come a dire “un ce ne po’ frega’ de meno”. Dopo mes, anni, di pagine allarmate, contro questo o quel governo in nome di Bolkestein, della concorrenza, del mercato, della spiaggia libera (da poter sporcare a piacimento), la vicenda si risolve con gaudio di tutti in cinque o dieci anni – su questo poche righe. Non bisogna essere complottisti, ma se non non è complotto cos’è, stupidità?
 
Non si penserebbe mai i giornali a corto di argomenti, che per anni abbiano dovuto rompere con le concessioni balneari. Cos’era, una frontiera? Una barricata? Contro la libertà? C’è un giornalista che vada alla spiaggia libera? Senza lo spritz?  
 
Si susseguono in Ucraina le rimozioni, i licenziamenti, i rimpasti, le dimissioni, senza mai una ragione specifica. Il paese è in guerra e forse non è opportuno. Ma dare un’indicazione del perché? Non ci sono in realtà inviati in Ucraina? Ci sono ma non sanno che succede e non gliene frega – basta riscrivere le agenzie sulle bombe e i morti del giorno?
 
La “politica” o “strategia dei tassi” è in realtà la sfida dei tassi. Una sfida tra banche centrali. Peraltro limitata all’Occidente: se la Fed americana taglio o aumenta, la Bce taglia e aumenta di più. L’obiettivo primario della politica dei tassi regolare il valore di cambio della moneta.
 
Roma colpita da un temporale si allaga. Succede, non è una novità, le acque non hanno dove defluire. Anche il fossato, per modo dire, attorno al Pantheon – nei lungoteveri si guidava come su un lago a fondo piatto, sperabilmente. Ora, va bene anche rispettare il sindaco e la maggioranza in Campidoglio, ma “la Repubblica-Roma” si supera: poche righe al nubifragio, e tutte diminutive: “Danni alla viabilità, alle abitazioni e agli esercizi commerciali” – e hai detto niente. Con molti, ripetuti, anche nelle poche righe, elogi al sindaco Gualtieri e alla sua task force anti-temporali.
Un servizio che può leggersi come una presa in giro. Ci vuole abilità nella complicità.
 
Non dice mai “false” le dichiarazioni rese dall’ex Procuratore della Dna Laudati la giudice Elisabetta Massini, che lo ha ritenuto colpevole di dossieraggio illegale ma non carcerabile. Dice “non corrispondenti al vero”, anzi “in parte non corrispondenti al vero”. È qui la differenza, per cui Laudati, che la stessa giudice dice spergiuro, poi decide che in libertà non proverà a inquinare le prove. Logica non c’è, solo rispetto, di classe.
 
Si celebrano quest’anno le feste dell’Unità con rinnovato impegno. Fa piacere, si vede che ci sono più risorse. Ma fa senso aggirarsi fra i banchi, pochi e vuoti. E ascoltare democristiani sul palco che insultano altri democristiani (Gentiloni, Renzi, Franceschini…). Cui bono?
 
Fa notizia Renzi che “guida” il Pd, dopo averlo comandato, esserne uscito e averlo combattuto in mille modi. La rottamazione della vecchia politica, di trasformismi piccoli e grandi, era solo un gioco di ruolo, Renzi è un vero democristiano, di destra e di sinistra indifferentemente, purché stia a galla, in posizione di comando.
 
Una linea tranviaria dorsale di mezza città, la 8, sconvolta, per la seconda volta in due anni, per il rifacimento della massicciata. Rifatta due anni fa con diciotto mesi di lavori invece di sei. Un ponte chiuso, Garibaldi, che è l’unico utilizzabile da due quartieri di quasi mezzo milione, Trastevere e Monteverde. E niente. Le cronache romane saranno ben al carro della galassia Pd al Campidoglio. Ma che uno dei due megappalti per il rifacimento dei quasi 5 km. dell’8 sia stato truffaldino, anche su questo si tace. L’Atac, l’azienda della commessa, mantiene la stessa dirigenza. Il Campidoglio non ne chiede conto all’Atac. La Procura non ne chiede conto al Campidoglio. Poi si dice la mafia. 

Leopardi censura Dante, Petrarca e Boccaccio

Un’opera trascurata di Leopardi a cui egli però teneva moltissimo. La realizzò benché vivamente sconsigliato dai migliori letterati dell’epoca, per esempio Giordani. E la redasse di sua iniziativa e su suo progetto, benché poi per conto, remunerato, dell’editore Stella di Milano. In meno di un ano, spiega Giulio Bollati: “Incurante dell’avviso dell’amico, Leopardi «stacca» e «straccia» brani di prosa da una montagna di libri tirati giù di furia dagli scaffali paterni, e finalmente pubblica di slancio la sua Crestomazia dopo neppure un anno dall’inizio dei lavori”.
L’antologia è annunciata nella prefazione “come un saggio e uno specchio della letteratura italiana”. Gli autori sono un’ottantina, i brani inclusi circa trecento. Divisi per generi retorici (“narrazioni”, “descrizioni e immagini”, “apologhi”, “allegorie…..). Un’opera che si segnala per le bizzarrie. Il Trecento non c’è. Un’esclusione non spiegata, e aggravata sarcasticamente da una nota – “la sola di questo tipo”, nota a sua volta il curatore di questa riedizione – per scusarsi di avere incluso il “Lamento della madre di Eugenia”, un frammento dalle “Vite dei Santi Padri” di Domenico Cavalca. Il Quattrocento c’è, poco. Il lavoro entra nel pieno col Cinquecento, con l’individuazione di una vena protoromantica. E s’ingrossa via nei secoli seguenti, perfino nel Seicento, su questo filo.
Alla “Prosa” seguirà la “Poesia”, un altro volume di altrettante pagine. Malgrado il silenzio siderale che accolse la prima pubblicazione. Specie da parte degli amici fiorentini, e di quelli del Vieusseux – la rivista del gabinetto, l’“Antologia”, non ne registrò nemmeno l’uscita. Col paterno Giordani il giovane Leopardi, 23 anni, si giustificava nel 1821 con un grande proposito: “Chiunque vorrà far bene all’Italia, prima di tutto dovrà mostrarle una lingua filosofica”. Qualcosa effettivamente l’ha mostrata, Machiavelli, Guicciardini, Galilleo, ma in subordine.
Uno degli ultimi gioielli Nue, la Nuova Universale Einaudi. Col testo originale, introdotto, con una dissertazione elaborata e piena di riferimenti, e annotato da Giulio Bollati.
Giacomo Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Einaudi, pp. VII-CXIV+662, pp.vv.