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sabato 5 ottobre 2024

Gli ayatollah sono rimasti soli

È guerra tra Israele e l’Iran, e potrebbe essere risolutiva. Nel senso di ultimo atto del regime degli ayatollah, che hanno trascinato l’Iran alla guerra contro Israele, senza preparazione militare, e nell’isolamento diplomatico totale. Russia e Cina non possono essere di aiuto militarmente. E il segretario di Stato americano Blinken non ha avuto difficoltà in tutti questi mesi a isolare Hamas e l’Iran (Hezbollah, Houthi) nel mondo arabo – e anche in quello islamico altro che l’Iran.
Nonché avventurista e isolato, l’Iran degli ayatollah, che si vantava terza o quarta potenza militare mondiale al tempo dello scià, è singolarmente inetto nella sfida con Israele. Militarmente diviso tra forze armate, pasdaran, e sostegno ai movimenti terroristici – tale Hezbollah è risentito in Libano, non un partito di governo, una maggioranza di governo.
Il silenzio dell’Iran in questa fase, delle piazze, è singolare. Ma viene letta a Teheran come una cessata capacità di mobilitazione del regime: mai il “loro” e il “noi”, la distanza fra il paese e il regime è stata così eloquente come in questi mesi. Né c’è mobilitazione di nessun genere e forma contro il minacciato attacco israeliano. E non per rassegnazione ma per protesta muta.
Un’analisi che trova un riscontro eloquente nel discorso difensivo di Khamenei al funerale di Nasrallah.

L’Oriente è acqua fresca

La prima edizione americana, 1972 (dopo quella inglese, 1956), si fa forte di un saggio altrettanto lungo di Timothy Leary, il santone dell’Lsd, pubblicato nel 1966 da una League for Spiritual Discovery, intitolato “Poet of the Interior Journey”, che fa di Hesse in questo pellegrinaggio un apostolo di “Lucy in the Sky with Diamonds”, l’acronimo dei Beatles per Lsd. Lungamente Leary sostiene e dimostra che Hesse descrive effetti tipici dell’Lsd (gli stessi del resto che qualche anno dopo il “pellegrinaggio” di Hesse, nel 1938, Ernst Jünger sosterrà di avere “provato” col dottor Albert Hoffman, che preparava al sostanza per la Sandoz a Basilea).
Uno scritto del 1932. Dapprima Hesse ha viaggiato e scritto della spiritualità dell’Italia centrale, “Boccaccio”, “San Francesco di Assisi”. Ma già nel 1911-12 cominciava i viaggi in Oriente – nel 1946 sarà Nobel: un tentativo di “normalizzare” la Germania dopo i disastri di Hitler, benché Hesse si fosse naturalizzato svizzero, esule dal 1919, in dissidio con la gioventù tedesca postbellica, cittadino svizzero già dal 1923.
Passata l’epoca dei Beatles sulfurei e di Leary, una lettura in sé consolante. Acqua fresca. Di semplicionerie, come si voleva allora l’orientalismo, dette terra terra. All’insegna di Novalis: “Dove stiamo andando in realtà? Sempre a casa”. Il viaggio si fa nell’ambito di una Società o Lega innominabile segretissima. Che però fa capo ai resoconti di viaggio del conte Keyserling. E Keyserling era il fondatore di una Società della Libera Filosofia, autore di “L’occulto”, e di un “Diario di viaggio di un filosofo” nel 1919 in Cina, Giappone e America.
Tradotto da Mondadori nel 1961, ripreso da Adelphi nella stessa traduzione, di Ervino Pocar, nel 1973, primo volume della Piccola Biblioteca. Come una pietra di fondazione, che Calasso, nella sua fase “vedica”, presentava come “il più perfetto dei romanzi brevi di Hesse e quasi lo stemma di tutta la sua opera”. Questo Hesse ha accompagnato il “pellegrinaggio a Oriente” di una generazione o due - oggi è alla 35ma o 36ma edizione. Che cinquant’anni fa si faceva con soli 30 dollari. In autobus, da Vienna, e non a piedi come il “musicista tedesco H.H.” di Hesse. Ma un po’ con la stessa coorte della sua “Lega”, anche se non più dei suoi Grandi Personaggi - Pitagora, Platone, Mozart, Don Chisciotte, Paul Klee, Tristram Shandy, Baudelaire, il barcaiolo Vasudeva del “Siddharta” (Hesse scriverà un so “Siddharta”, che Massimo Mila tradurrà): un Oriente di esotismo trascinante.
Hermann Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente, Adelphi, pp. 84 € 10

venerdì 4 ottobre 2024

L’immigrazione è semplice, vuole consolati e visti – risparmiando sugli “aiuti”

Perché non usare i fondi – a fondo perduto, e senza effetto – della cosiddetta cooperazione allo sviluppo per una sana politica dell’immigrazione, invece dei disperati sul gommone, quelli che non sono morti nella traversata? Si vara ogni anno una legge flussi, per mezzo milione di immigrati, senza dire chi cercare, dove e come. Un’assurdità. Tanto più che organizzarsi sarebbe stato in tutti questi anni, ed è ancora, semplice.  
Che l’Europa non si sia data, in trent’anni di pirateria di merce umana, una politica e una struttura amministrativa dell’immigrazione – di cui tutti i paesi europei hanno bisogno - è la colpa forse maggiore di questa questa strana creatura che è la Ue, nata ma non cresciuta. Tutti i paesi di forte immigrazione l’hanno organizzata, Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina anche, quando era ricca, Uruguay. L’Europa no, solo i vigilantes, inermi. Mentre organizzarla sarebbe semplice. E a costi inferiori, nel senso proprio del termine oltre che in quelli umani, di odissee, mortificazioni, morti - nel senso delle risorse messe in campo e sprecate per salvataggi, accoglienza, controlli.
Una politica dell’immigrazione dovrebbe essere europea, stanti gli accordi di Schengen, di libera circolazione all’interno della Ue. Ma anche alla sola Italia ne converrebbe una, Schengen o non Schengen, all’Italia cioè da sola, nel Piano Mattei o come si vuole chiamare un’iniziativa nazionale: organizzarsi converrebbe da tutti i punti di vista, con consolati specializzati in varie città africane, completi di controllo medico. Per il mezzo milione di visti, o quello che è il fabbisogno annuo di lavoro immigrato.
Organizzare una rete di consolati per i visti in Africa e negli altri paesi di provenienza sarebbe costoso? Neppure questo è vero. Si darebbe un aiuto vero allo sviluppo dei paesi di provenienza. E si farebbe un risparmio sicuro di risorse, sulle spese attuali per l’“accoglienza” (Marina militare, le ong di settore, una miriade, la burocrazia dell’Interno). E per gli “aiuto allo sviluppo”.
Gli “aiuti allo sviluppo” che l’Italia profonde da quarant’anni nel bilancio 2023, sotto varie voci (contributi alla politica Ue di aiuti, partecipazione a fondi specializzati, banche, etc., “politiche di vicinato”, e gli “obiettivi della cooperazione”, ben dieci), hanno ammontato a 6,2 miliardi. Più le spese “a sostegno dei processi di pace”, le spese militari all’estero – di cui i documenti non quantificano il costo, ma si sanno ammontare sui 2 miliardi l’anno. Sono tutti aiuti, questi cosiddetti allo sviluppo, a vantaggio di beneficiari italiani: università, enti locali, ong, aziende “specialmente qualificate”. Tutti interessi difficili da aggredire. Ma una vera politica dell’immigrazione sarebbe il solo vero aiuto allo sviluppo, dei paesi africani e viciniori. Oltre che di beneficio (con risparmio) all’Italia.

Vita avventurosa di una torinese tranquilla

“Di Togliatti mi ha sempre colpito il viso segnato che gli conferiva un’espressione drammatica. Pensavo fosse la conseguenza di quella selezione staliniana che aveva subito passando attraverso il lavoro nell’Internazionale, la vita a Mosca, la guerra civile in Spagna”. A differenza di “altri dirigenti comunisti, con esperienze non dissimili”. Longo per esempio (“bello, con gli occhi azzurri”) non ne recava segno: “Togliatti, non che sembrasse avere dei rimorsi, ma non era passato indenne attraverso tutte quelle vicende. Era in fondo uno sopravvissuto per caso. Ci si chiedeva a volte perché Togliatti non fosse stato ammazzato anche lui da Stalin. Ricordo la tesi di Karol che diceva: «Un professore, con un’aria un po’ petulane, forse Stalin non lo considerava un tipo pericoloso»” – lo scrittore franco-polacco K.S.Karol, analista dell’Europa orientale per il “Nouvel Observateur” e “Il Manifesto”, compagno di Rossana Rossanda.
Così e non peggio, il sottinteso del titolo – giusto un modo di dire meridionale. Ma sono memorie grate, di una vita avventurosa, vissuta con singolare equilibrio, di una ragazza (tale era rimasta in età avanzata) torinese. Raccolte da Brunella Diddi e Stella Sofri in clinica, nel corso di una lunga degenza, e pubblicate in vita della narratrice, nel 2004.
Lisa Giua, poi sposa di Vittorio Foa, col quale ha fatto tre figli e di cui ha conservato il nome anche dopo la separazione, dolorosa, si ricorda ragazza spensierata e felice a Torino. Con i Gobetti, Ada, Paolo. Con i Levi, Mario, Natalia poi Ginzburg, Paola, “la maggiore delle due sorelle, bellissima e strepitosamente elegante”, sposa di Adriano Olivetti. E i Croce, specie la figlia Lidia, nelle vacanze annuali a Pollone – “luogo di villeggiatura amato dai liberali”, i Carandini, gli Albertini, “il conte polacco Gawronski”, Franco Antonicelli. Benché di famiglia vessata dal regime: il padre, socialista, chimico rinomato, condannato nel 1935 a quindici anni (se li farà fino al 1943) – lei lo va a trovare in carcere – e il fratello Renzo, carcerato a 17 anni, processato e assolto, esule in Francia con gli sci ai piedi sui sentieri alpini durante una vacanza, morto in Spagna nel 1938, volontario delle Brigate internazionali. Staffetta intrepida, anche spericolata, nel 1943-1945, fra Torino e Milano. “Quanto vi dovete essere divertiti!” ricorda di Calvino a commento del manoscritto di Ada Gobetti, “Diario partigiano”.
Lisa si è divertita anche dopo. Senza chiasso, con occhio limpido. Attraverso le tante esperienze, politiche, di cui qui racconta, e personali, che per lo più tace, se non piacevoli per tutti. E onesta sempre, esercizio non facile, avendo attraversato più esperienze politiche, socialista, partigiana, comunista, vicina ai “movimenti”, e in particolare a Lotta Continua. Persona pratica, moglie e madre, e studiosa, dell’Europa orientale e del Terzo mondo. Giornalista a “Rinascita”, il settimanale di Togliatti.
Ricorda per lo più grati. Della vita spensierata delle famiglie ebree “bene” a Torino, anche dopo le “leggi” di Mussolini. Anche dopo i bombardamenti: “A Torino le prime bombe cominciarono a cadere nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Ricordo che la prima notte fu colpito l’Ospizio dei Vecchi…. (ma) non ricordo un clima di particolare paura in giro….Noi portammo i libri in cantina, perché mio padre li potesse trovare quando fosse uscito di galera”. Di Togliatti visto da vicino alla redazione di “Rinascita”. Di Enrico Minio, il comunista perfetto, poi senatore, poi suicida. Con molte verità, alcune sperimentate di persona, che ancora attendono degli storici imparziali. Sulla sinistra politica - “i socialisti, a differenza dei comunisti, furono dispersi dal fascismo”. La banda Koch, del terrorismo nazifascista, a Milano, dopo Roma, vista da vicino. Senza partito preso: “Ciò non vuol dire che da una parte ci fossero i malvagi e dall’altra i buoni. Ho memoria di guizzi di spietatezza negli occhi dei «nostri»”. Mentre “ci furono molti casi di tedeschi che aiutarono i braccati” - e ne porta personale testimonianza: “Quando ero rinchiusa nelle cantine della banda Koch a Milano, fui visitata da un medico militare e da un ufficiale tedeschi, che fecero trasferire me e le altre donne nel più abitabile carcere di San Vittore”. I suoceri a Torino furono salvati nel 1943 dalla deportazione, per essere ebrei, da un ufficiale tedesco. A Sant’Anna di Stazzema l’eccidio fu guidato “da italiani con il volto coperto, una ventina di persone furono salvate da un giovane soldato nazista”.
Sulla Resistenza invece si spinge a rischiare: “È vero, la Resistenza è stata un fatto minoritario”. C’era sostegno ma non la nazione in armi. E non è stata e non può essere un’ideologia. Non può essere “irrigidita e imbalsamata….  nei riti dell’Anpi” – “la retorica resistenziale era ancora più intollerabile quando si accompagnava a una pretesa superiorità morale”. Anticonformista poi sul dopoguerra, sul colpo il colpo di Stato sovietico a Praga nel 1948. Il partito, il Pci, non ne fu scosso, anche se molto si sapeva del regime russo da Franco Venturi, addetto culturale a Mosca in quegli anni, e da sua moglie Gigliola Spinelli - “molte tensioni sorsero anche con i cattolico-comunisti: Balbo, Motta, Sebregondi, Napoleoni, che erano usciti dal partito con un manifesto pubblico”. Ma l’“egemonia” comunista poi dice una favola: “Negli anni ‘50 c’erano molti spazi vuoti che la destra avrebbe potuto occupare più di quanto non abbia fatto” (ma i ha occupati, e come: la Rai, l’Ansa, i giornali).
Lisa contesta anche la guerra civile. Il fascismo era già morto, due volte, la repubblica di Salò era di facciata per l’occupazione tedesca. E l’Italia era quella che era stata. Ancora dopo la Liberazione non riconosceva il figlio nato da madre non sposata – non poteva “denunciarlo” la madre, non poteva “riconoscerlo” il padre: “La regolarizzazione della posizione di mia figlia (Anna Foa, la storica, n.d.r.), nata nel 1944 e denunciata con il nome di genitori inesistenti, richiese una serie lunga e complicata di cavilli giuridici. E bene andò che non fummo denunciati”.
Con molti flash curiosi. Visconti, “un vero signore, cordiale, alla mano, e potrei dire persino galante”, che “non era iscritto al Pci perché, essendo omosessuale, non lo avevano ammesso”. Il lavoro a “Rinascita” dal 1962, quando da mensile divenne settimanale, specialista dell’economia dei paesi dell’Est. A “Rinascita” capita anche Eugenio Scalfari, “allora giovane di belle speranze”, per “documentarsi per un viaggio in Urss” – “quando tornò scrisse un libretto che Togliatti mi passò dicendomi di stroncarlo” – è “Il potere economico in Urss”, 1962. Di “Rinascita” ricorda ancora che né l’Algeria né il Vietnam erano temi graditi. Wolf Bierman, il cantautore tedesco, un compagno, contestato a Firenze dai comunisti. Giancarlo Pajetta giovane, “sovietizzante” per principio. Siqueiros da vicino, l’“assassino mancato” di Trotzkij – “un piccoletto, che saltellava per Botteghe Oscure… e pretendeva trattamenti da principe…. Abituato così in Urss”. Joyce Lussu, di suo Salvadori, la bionda moglie di Emilio Lussu, già capitano delle brigate Giustizia e Libertà fra Toscana e Marche, “donna fascinosa, di straordinaria vitalità”, con “doti da tribuna della plebe” e “un’indole un po’ avventurosa”. Il non nominato avvocato Maris, “principe del foro milanese, avvocato di spicco del Pci”, che il partito darà come avvocato d’ufficio a Leonardo Marino contro Adriano Sofri. E due pagine al fulmicotone sul processo contro Sofri, sui giudici più che sui Carabinieri che lo avevano montato. Infine Alexander Langer, tanto impegno, tanto proficuo, e il suicidio improvviso.
Lisa Foa, È andata così, Sellerio, pp. 2011 € 9

giovedì 3 ottobre 2024

La Russia, un’altra Europa

La Russia non se la passa male in guerra: i russi mangiano, si vestono, vanno in vacanza, anche all’estero, come solevano, e non contestano la guerra. E può permettersi di aumentare la spesa militare a oltre il 30 per cento della spesa federale, senza rischio di bancarotta. Com’è possibile, in un paese sotto sanzioni dall’Occidente fin nei minimi aspetti, nel più piccolo interstizio? Con produzione e vendita di petrolio greggio e gas, le più basse degli ultimi quindici anni, che arrivano a coprire il 28 per cento delle entrate valutarie, mentre erano in bilancio per oltre il 50 per cento.
E la guerra, anche se Mosca si ostina a ridurla a “operazione speciale”, una sorta d’intervento di polizia? Le cifre dei danni di guerra, morti, distruzioni, sono senz’altro manipolate dalla propaganda. Ma anche la metà dei duecentomila soldati russi dati per morti nei due anni e mezzo in Ucraina è un numero rilevante.éIn realtà della guerra si sa poco e niente, a parte la propaganda. E della Russia ancora meno, benchè esista da un millennio almeno. Non si può dirne hic sunt leones perché è divisa fra tundre e fiumi – e non ha nemmeno gli ippopotami. Ma è altrettanto sconosciuta, benché parte della storia dell’Europa - anche se non sempre con beneficio (ma chi è senza colpa?) Che questa guerra non susciti una reazione in Russia, un’opposizione, e che la Russia malgrado le decine di sanzioni economiche non stia male nella vita corrente, di ogni giorno, può anche essere una delle tante carenze dell’informazione sulla Russia - a parte i luoghi comuni: lo zar, il Kgb, la disinformacija, instagram, tiktok, ora l’intelligenza artificiale.
La Russia è un paese grande, due volte l’Europa – senza la Turchia. Ed è un paese composito, di più popolazioni o etnie: cica 160, per un centinaio di lingue parlate. Una federazione di ventuno repubbliche autonome (ventiquattro ufficialmente, con Crimea, Lungansk e Donesk), ognuna con un proprio governatore e un proprio parlamento, e la possibilità di adottare la proria lingua accanto al russo. È anche il paese che, alla pari con la Cina, ha il maggior numero di Stati confinanti, quattrodici. Più il confine marittimo, con gli Stati Uniti e con il Giappone.
Il federalismo russo, analogamente a quello americano, è molto redistributivo: vede un intervento massiccio dello Stato centrale, della federazione, nella legislazione in generale e, soprattutto, nell’economia. Con una filosofia di fondo analoga a quella italiana della Repubblica e poi europea, della riduzione del dualismo, fra le regioni ricche e quelle meno ricche.
Di questo “federalismo di Stato” era in programma la rimodulazione prima della guerra. La regionalizzazione non intacca il centralismo: dieci regioni sono più o meno autonome, rappresentando la metà abbondante, con un terzo della popolazione, del pil totale della Federazione, le altre sono sovvenzionate da Mosca.
I trasferimenti in buona misura sono politici, non tanto di perequazione socio-economica: Crimea e Sebastopoli, il 2 per cento della popolazione complessiva, beneficiano quest’anno del 6-7 per cento dei trasferimenti. L’Estremo Oriente, 6 per cento della popolazione, del 15-16 per cento. Il Caucaso settentrionale (con e attorno alla Cecenia), 5 per cento della popolazione, del 10 per cento dei trasferimenti.
L’economia è ora diversificata, da Stato industriale. Le principali regioni petrolifere non arrivano al 10 per cento del totale del pil. Mettendo nel conto, oltre al valore aggiunto delle compagnie di produzione di petrolio e di gas, la raffinazione, le attività di costruzione, di trasporto, di fabbricazione di materiale specifico, nonché la fiscalità sulle retribuzioni pagate dal comparto. S i sono sviluppate le attività metalmeccaniche, legate agli armamenti. Ma anche quelle di beni di consumo, alimentare e dell’abbigliamento. E le opere pubbliche.
Il decentramento è anche economico. L’area di Mosca era e resta di gran lunga la più ricca – è anche considerata tra le prime cinque più grandi aree economiche al mondo: produce il 20 per cento del pil della Federazione, il 18 per cento degli investimenti, il 17 per cento del reddito delle famiglie, il 34 per cento dei depositi bancari. Ma la guerra ha già portato a modifiche rilevanti nella distribuzione della produzione e del reddito su base geografica, regionale. A fine 2023 i contributi al bilancio consolidato della Federazione di altre regioni che non la moscovita risultavano in fortissimo aumento: specie le regioni a specializzazione metalmeccanica, o dei settori di largo consumo. Beneficiari indiretti della forte spesa pubblica, le regioni dell’Amur sono cresciute del 176 per cento in due anni, di Tula del 103 per cento, San Pietroburgo dell’87 per cento, e in misura minore ma cospicua altre aree della Russia centrale, del Volga e degli Urali.
Gli autonomismi regionali sono in queste condizioni disarmati. Alla caduta dell’assetto sovietico le spinte autonomistiche erano arrivate al limite della secessione. È contro questo rischio che Putin ha preso il potere, chiamato dallo stesso Yeltsin, il presidente impotente. Putin ha ricompattato la federazione. Che ora la guerra gli frastaglia nuovamente. È su questo aspetto, politico, del rapporto dei territori con il centro, che le sanzioni potrebbero avere avuto efficacia.
Le sanzioni, col blocco degli investimenti e delle attività delle imprese straniere, hanno colpito gli oblast (provincia-piccola regione) di Kaluga e Novgorod attorno a Mosca, le repubbliche di Carelia (confine con la Finlandia) e del Komi, e il Territorio del Litorale in Estremo Oriente. Nel Komi la produzione di carbone è crollata di almeno un terzo, Kaluga è stata colpita dal blocco della produzione straniera di auto, VW compresa, vedendosi il pil ridotto di un quinto nel primo anno di guerra.
La Russia è certamente un’Europa diversa. Lisa Foa, che negli ani 1960-1970 seguiva per “Rinascita”, il settimanale del partito Comunista, le questioni economiche nell’Unione Sovietica, rilevava nelle memorie qualche anno fa (“È andata così): “Come spiegarsi tutta un’attività di repressione e di sgozzamenti” che non suscita una rivolta, anzi “i fedelissimi accettavano comunque di essere stritolati”? E proseguiva elencando una serie di follie: eliminare “scienziati, generali, scrittori, operai…. affamare i contadini….puntare solo sull’industria pesante”, senza beni di consumo. E aprire cliniche psichiatriche, si può aggiungere, invece dei gulag non più praticabili. Non si spiega: ci dev’essere una follia russa – anche se le arti, le lettere, la poesia non ne recano traccia.

Ernaux, o Céline con la museruola

Il padre alla morte, 1983, rivissuto dalla figlia. Di cui scriverà ripensandoci, 1997, “La vergogna”: “Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio”.
Qui la memoria è empatica, come ora si dice. Anche dei difetti. Comprensiva come mai prima, per distrazione, per il naturale egoismo degli anni di crescita. Per un non conciliato rifiuto della condizione familiare, di operai che si sono fatti bottegai, e lo sono diventati. Mentre la figlia, che hanno voluto agli studi, è lontana. Lo è sempre stata negli anni di scuola, lo è ora fisicamente, in un’altra regione, con la sua propria famiglia, oltre che col lavoro intellettuale.
Una memoria-ricostruzione di una vita talmente particolareggiata che assorbe – come di un personaggio. Benché su un tono non pietoso, non compassionevole. Con una traccia céliniana curiosamente evidente, benché non applicata alla scrittura, alla tecnica di scrittura: la sofferenza-insofferenza dei genitori, contro e per conto loro, di lui e di lei, delle origini, del piccolo commercio, di una casa e un ambiente sofferti come buco da cui fuggire. Più spesso, negli scritti d’occasione, Ernaux si rifà a Pavese, “La bella estate” – mai comunque a Céline. Ma l’amertume è quella. Per un pubblico italiano è il mondo di Fellini che evoca, di “Roma”, “Amarcord”. Ma senza simpatia, anzi con astio.
I dolori anche di una figlia unica. Venuta dopo la morte della prima, di difterite. Quindi oggetto di tutte le attenzioni, ma a disagio. In una famiglia di contadini poi operai, poi bottegai, che si vergognano di esserlo, ma altro non sanno, che “fare i bottegai”.
Un racconto breve, a seguire a quello più lungo, 1981, dedicato alla madre, alle donne della famiglia, “Una donna”. I genitori hanno tutto, compresa una casa “normanna”, del tipo che di lì a poco sarà il modello architettonico di recupero più celebrato, ma soffrono di “un complesso continuo, senza fondo”, per “la paura di essere fuori posto, di vergognarsi”, “l’ombra dell’indegnità”.
Molto eloquente, ma un ricordo secco, freddo. Senza rivalsa, ma nemmeno commiserazione: una constatazione, sdegnata spesso e mai commossa. Senza pietà filiale. L’opera come di un tarlo subdolo. Che si affinerà via via, fino a “Gli anni”, 2008 – coronamento del programma della scrittrice, “scrivere la vita”.
Annie Ernaux, Il posto, L’Orma, pp. 114 € 14

mercoledì 2 ottobre 2024

Problemi di base bellicosi quater - 823

spock


Se il diritto in guerra è quello del più forte?
 
Ci si difende meglio attaccando?
 
Non c’è grandezza senza violenza?
 
“Si fa la guerra quando si vuole, si termina quando si può”, N. Machiavelli?
 
“La Nato è un’alleanza guidata da una nazione”, Sahra Wagenknecht?
 
La violenza è ira e vendetta, ma anche stupidità (furbizia, opportunismo)?

spock@antiit.eu

Commerzbank ha bisogno di un timoniere

Il prospetto di Unicredit che naviga in parallelo con la controllata Commerzbank non è credibile. Non è praticabile: che cosa è una barca senza timone? Tutto è possibile, meno che estrarne (creare) maggior valore. Per questo ci vuole occhio e fegato.
Un prospetto in contrasto, tra l’altro, con la vicenda della stessa Unicredit. Che ancora cinque o sei anni fa si vendeva i gioielli come Fineco e Mediobanca per fare cassa. Dopo quattro aumenti di capitale in dieci anni, per un totale di 27,5 miliardi, cifra paperoniana ma evidentemente insufficiente. E poi, in tre o quattro anni, si è ri-valorizzata del 300 (trecento, e non è una vincita al lotto) per cento.
È tutta questione di manico, in azienda come su strada. Commerzbank invece periclita, oggi come quindici anni fa, quando il governo federale ha dovuto salvarla, e come trent’anni fa, quando gli acquirenti prospettati dai sensali si ritiravano orrificati. In un mercato del credito ricco, poco proclive ai fallimenti. Si potrebbe pensare, certo per ridere, che la Germania tema che Unicredit possa raddrizzare Commerzbank - dopo la Hypo di Monaco

Il primo Novecento fu anche donna, a Roma

Pittrici note, nei vari indirizzi e percorsi che intitolano la mostra, attive a Roma, nel primo Novecento: Edita Broglio (“Valori plastici”), Emilia de Divitiis, Benedetta Cappa Marinetti, Antonietta Raphael, Mimì Quilici. Più altre recuperate. Con la stupefacente Rouzena Zatkova, di origine ceca, e le sue incredibili “Storie di Davide” recto-verso, la prima in ordine anagrafico delle artiste espose – tra l’altro la più bella, se ancora si può dire: morta giovane nel 1923, ma fece in tempo ad animare il futursimo, con Balla e in proprio, famosa per il ritratto di Marinetti (qui esposto), ma soprattuto brillante artista polmaterica.
Un centinaio di dipinti, in ambiente piccolo, il Casino dei Principi, per una mostra dall’ordinamento apparentemente semplice, e non faticosa – percorsi, didascalie etc. In un certo senso una scoperta, ma non nel senso delle ordinatrici: si vuole dire che la pittura era anche al femminile, ma si testimonia che a Roma, negli anni Venti e Trenta, quindi del maschilismo, erano attive e apprezzate (quasi tutte le opere esposte vengono da collezioni private) almeno la trentina di artiste qui esposte. Molte ancora senza complessi col doppio cognome, quello del marito prima del proprio. La più interessante, Edita Broglio, solo con quello, nata von Zur Mühlen vicino Riga e diplomata all’accademia di Köenigsberg, fondatrice e animatrice del movimento “Ritorno all’Ordine” e dell’autorevole rivista “Valori Plastici”, che si pubblicava anche in francese, collaboratrice, oltre che del marito, anche di De Chirico e di Carrà. Però è anche vero che Marinetti ebbe una moglie, che gli diede anche tre figli, e fu di suo artista, si può dire, ben più sensibile dell’invadente marito, inventrice di quel movimento dell’Aeropittura di cui ha lasciato esiti tanto semplici quanto per più aspetti – proiezione, colore non colore, movimento – singolari e suggestivi.
Ciliegina una piccola serie di ritratti di Ghitta Carrell, la fotografa poi finita in Israele ma cittadina italiana di origine ungherese. Maestra di molte tecniche da photo-shop, attiva a Roma per una quarantina d’anni, fino ai Sessanta, con ritratti di scrittrici e scrittori per qualche aspetto nuovi, originali, inaspettati. Sorprendenti anche quelli di Mussolini e di Edda, e per questo motivo, come “fotografa di regime”, in attesa ancora di una retrospettiva?
Federica Pirani, Annapaola Agati, Antonia Rita Arconti e Giulia Tulino (a cura di), Artiste a Roma. Percorsi tra Secessione, Futurismo e Ritorno all’Ordine, Roma, Villa Torlonia

martedì 1 ottobre 2024

Se Unicredit non è buon partner perché ha troppi Bot

Unicredit non sarebbe un buon padrone per Commerzbank, e forse nemmeno un buon partner, “perché ha troppi titoli italiani in pancia” – perché ha investito in Bot. Sembra niente, alla fine dell’intervista di Lars Feld al “Sole 24 Ore”, e invece dice molto: con questa Germania non c’è Europa – un’Europa già sfiancata dal merkelismo, che l’ha formata attraverso le due crisi del millennio, delle banche e del debito. Solo conta il mercantilismo, l’interesse immediato della Germania. Che passa anche – non si penserebbe ma è così - dal deprezzamento del debito italiano: più si deprezza il debito italiano più si apprezza quello tedesco, che si vende a premio - manca poco che gli investitori paghino qualche centesimo alla Germania per il suo debito.
Feld non è un nazionalista, è un liberale: dirige a Friburgo il Walter Eucken Institut, una sorta di Istituto Bruno Leoni ma con più prestigio. Fondato per vigilare sull’ordo-liberalismo di Eucken, il liberismo regolate dalle leggi.

Commerzbank fa muro

Col sì della Bce all’aumento della quota, preannunciato dalla presidente Lagarde, il raid benevolo di Unicredit su Commerzbank si può dire compiuto: Orcel salirà al 29,9 per cento. Ma si precisa anche un fronte Commerzbank unito contro ogni ipotesi di condizionamento per effetto del nuovo quadro azionario. La nuova Ceo Orlopp ha debuttato con l’eulogia del piano di crescita autonoma dell’istituto. Il consiglio di sorveglianza è presieduto da Jens Weidmann, l’ex presidente della Bundesbank della crisi italiana del debito – poi antagonista di Draghi, dell’acquisto di debito pubblico. Del sindacato, che in Germania siede in consiglio, e del governo si sa. E sono tutti gli stakeholder tedeschi.
Orcel ha spiegato il raid come leva per la creazione di valore. Questa c’è già stata. Il titolo, comprato a 13,20, è stabile sopra i 16 uro. E la nuova Ceo ha subito aggiornato al rialzo le previsioni dei rendimenti a medio termine. Per una banca che da troppo tempo ha navigato male e anche malissimo (Mps era un gioiello al confronto, ed è tutto dire) sembrerebbe un miracolo. Ma non ci sono in Germania stakeholder che ne siano convinti. Per ragioni forse contestabili, ma così è.

Maria, vergine ribelle

Una Maria femminista, nel minuscolo villaggio di Nazaret, pochi capanni di pietra. Contro il padre violento. Contro la madre vittima e carnefice. Contro i ragazzi e ogni altro uomo. In sfida perpetua, anche con gli elementi. E ignorante, con suo cruccio. Finché il falegname Guseppe, una sorta di nobiluomo al confronto con l’umanità macilenta e violenta che attornia la ragazza, non la salva, con la sua tranquillità d’animo e l’intuito pedagogico. Per un matrimonio che la stessa Maria vorrà, casto.
La ribellione Maria estenderà poi anche all’Angelo che vine a dirle la decisione del Signore Dio. Finché, anche qui, Giuseppe non le spiega che è inutile prendersela con Dio, “Dio è silenzio”, la decisione deve essere sua – la decisione di dare vita al Salvatore. A lei basta l’asinello, e un po’ di geografia per sapere dove è l’Egitto, e la partenza.
Una performance tutti azimut, e sempre sopra le righe, per Benedetta Porcaroli, in campo a ogni scena. Assistita a tratti dal Gassmann-Giuseppe. Meglio di tutto è la Galilea lunare, ma piena di acque.
Un curioso ritratto della Madonna. vergine nel senso proprio, adolescente vivace, curiosa, ribelle. dipendente. Si direbbe femminista – ma, poi, Giuseppe-Gassmann? Curioso oggi, che il femminismo non sa nulla di Maria e non se ne duole. È il primo o secondo romanzo di Barbara Alberti, anni 1970, quando aveva un altro senso – del femminismo che ancora discuteva se Dio (non) è donna.
Paolo Zucca, Vangelo secondo Maria, Sky Cinema, Now

lunedì 30 settembre 2024

A Sud del Sud - ll Sud visto da sotto (572)

Giuseppe Leuzzi
I ravioli, \o tortellini, o cappelletti, sono diffusi in mezzo mondo, con nomi diversi. Ma in Italia, in numero strabordante di varietà, solo al Nord: 28 varietà al Nord, Toscana compresa, registra Telmo Pievani un una ricerca pubblica, solo 5 al Centro e niente al Sud – se si eccettuano i sardi puligioni e culurgiones. Ripieni solitamente di carne, erano il cibo dell’abbondanza?
 
A un lettore Foti, nome meridionale, che gli chiede se un’Italia federale come la Germania non sarebbe stata meglio, Cazzullo risponde sul “Corriere della sera”: “Il Risorgimento non fu una conquista militare, fu il risultato di un grande movimento politico e culturale: Cavour e D’Azeglio, Niccolò Tommaseo e Ippolito Nievo, Mazzini e Garibaldi, Hayez e Fattori, e ovviamente Verdi e Manzoni”. E si dimentica gli altri - anche i toscani: come il famoso professor Miglio, che quando sbucava su Firenze dalla galleria sotto l’Appennino si sentiva all’estero.
 
Il Risorgimento è curioso. Fu l’unica rivoluzione popolare dell’Ottocento. Ma viene accaparrato nell’Italia repubblicana, da cinquant’anni buoni, anche nella storiografia, da questo e da quello – e non a opera dei neoborbonici, non per un sabotaggio.
 
La Procura di Milano mette mano alle mafie delle “curve” Inter e Milan. Che non delinquono da oggi. Se non c’entrava un Bellocco di Rosarno – e quindi, ahi, c’è la ‘ndrangheta a Milano – quando avrebbe agito?
 
La “fuitina” origina dalla Bibbia
“Se uno trova una fanciulla vergine, non fidanzata, e l’afferra e gisce con lei, e vengano scoperti, l’uomo che avrà giaciuto con la fanciulla dovrà pagare al padre di lei cinquanta sicli d’argento, e ella sia sua moglie, perché egli l’ha disonorata, né la potrà mai rimanadare via, per tutta la vita”.
La Bibbia ha passi controversi in tema di relazioni uomo-donna: condanna la violenza, ma non semrpe, o non con chiarezza. Gi usi, d’altra parte, vengono da lontano, da remoto: si tramandano, si accumulano, con varianti, si radicano.
La “fuitina”, il ratto della ragazza di cui pretendere poi il matrimonio, è ricordata come un gesto violento. Mentre era, e non poteva che essere, concordata. E si faceva quando l’innamorato non era gradito per un qualche motivo alla famiglia dell’innamorata – il rapimento violento è ricorso come materia di racconto, ma non era nella pratica.
La Bibbia, in questo passo, la ammette di preferenza a ogni altro tipo di legame matrimoniale, giacché esclude in questo caso il ripudio – il diritto maschile al ripudio.  
 
Il Sud vittima di se stesso
Una curiosa classifica, vagante in rete, compilata dalla società immobiliare Idealista, da il quadro grafico del costo della Tari per regione (nel 2018), assortito dall’elenco delle città più care e di quelle meno care, che mostra come le regioni e le città più sporche siano le più care. E queste regiorni e città sono del Sud. In cima la Campana, allora per 422 euro, seguita da Sicilia, 399, Sardegna, 353, Puglia, 373, Calabria, 296. Nelle altre regioni la tassa è – era – più bassa, mediamente di un terzo.
Anche in Toscana e Liguiria la tassa è elevata, sui 320 euro, ma il risultato si vede, la pulizia si fa.
Mediamente, nota lo sudio, “a livello di aree geografiche, i rifiuti costano meno al Nord (in media 256 euro), segue il Centro (301 euro), infine il Sud (357 euro). Mentre per quanto riguarda le province, le dieci città più costose, con una spesa annua che supera i 400 euro, sono tutte collocate al Sud. E nella top ten delle più economiche figurano solo due meridionali, Vibo Valentia e Isernia”.
I meridionali producono più spazzatura? Sono più disordinati, buttano più roba in giro, per la strada, nei giardini, sui marciapiedi? È possibile. Certo è che la nettezza urbana, compito tipicamente pubblico, è al Sud parte della disamministrazione. Che a prima vita non si nota, quello che i Comuni (non) fanno non è dato sapere o vedere, non senza studi approfonditi. La sporcizia invece è in mostra, sotto gli occhi di tutti.
Questa la classifica delle province più care:

Provincia                                           Costo Tari
Trapani                                                 € 571
Cagliari                                                 € 514
Salerno                                                 € 468
Trani                                                     € 461
Benevento                                            € 460
Reggio Calabria                                   € 456
Napoli                                                  € 446
Siracusa                                                € 442
Catania                                                 € 435
Ragusa                                                  € 427 

E quella delle meno care:

Provincia                                            Costo Tari
Belluno                                                € 153 
Udine                                                   € 160
Vibo V.                                                 € 181
Brescia                                                 € 182
Bolzano                                                € 182
Pordenone                                            € 183
Isernia                                                  € 185
Verona                                                 € 193
Trento                                                  € 195
Trapani                                                 € 195

Violento è il Nord
È il Nord più violento, più del Sud mafioso. È un dato statistico che si sottace, ma quest’anno gli indici li pubblica e li commenta “Il Sole 24 Ore” – il giornale milanese è in polemica con Milano.
Milano è la città meno sicura d’Italia: nel 2023 ha registrato 7.100 denunce per ogni 100 mila abitanti. Segue Roma, e poi Firenze, Rimini, Torino, Bologna, Prato, Imperia, Venezia e Livorno. Rapine per lo più (scippi soprattutto) e percosse, furti nelle abitazioni, e ora truffe informatiche. Il Sud al solito al fondo della classifica, ma qui con merito: il posto più sicuro è Oristano, prima vengono Potenza e Benevento.
Viene ai primi posti per criminalità, non si direbbe, la Liguria: Imperia, e anche La Spezia - ha il primo posto per traffico e spaccio di stupefacenti, il “Corriere della sera” tiene d’occhio il porto di Gioia Tauro, mentre La Spezia si fa gli affari. Dopo La Spezia c’è Livorno.
Napoli viene al 14mo o 15mo posto. Palermo al 21mo. La famigerata Foggia delle cronache al 23mo. Neanche Caserta brilla, che pure sarebbe l’area più disastrata d’Italia.
0Fra le ultime dieci della classifica ci sono naturalmente Belluno e Aosta, ma anche Enna, Benevento, Oristano, e poco più su Brindisi, Campobasso, Crotone, Vibo Valentia.
 
Cronache della differenza: Sicilia
La storia semileggendaria di Eufemio da Messina vuole che l’isola sia stata invasa dai mussulmani in alleanza con un funzionario bizantino di questo nome, ostracizzato per avere rapito una vergine in convento. È una storia molto siciliana. O la Sicilia è diventata com’è per avere vissuto storie di questo genere?
 
Il cardinale Ravasi cita sulla “Domenica” del “Sole 24” ore il poeta arabo-siculo Ibn Hamdis (poeta arabo in “lingua arabo-sicula”: c’è un arabo di Sicilia?), nato a Siracusa o a Noto e morto a Maiorca, a cavaliere del 1100, per dire di “due culture che non si scontravano ma stavano in armonia fra di loro”. Mai probabilmente un solo giorno, quando l’isola fu in parte occupata dagli arabi. Si mitizza un passato che non c’è stato –analogamente si fa per il regno di Granada. Per mitizzare l’islam? Non ne ha bisogno, non ha complessi. O è una maniera come un’altra per dirsi insoddisfatti, dire insoddisfacente lo stato della Sicilia – che però, tutto sommato, never had it so good.
 
Un dato sembra realistico-autentico nella vicenda romanzata dei “Leoni di Sicilai”, i Florio. Che a un certo pnto la bottega di spezie aperta a Palermo da Paolo Florio, arrivato con la famiglia a Palermo da Bagnara, piccolo borgo di pescatori in Calabria, e subito di successo, suo fratello trova che invece è al fallimento perché “nessuno paga”. Paolo aveva moltiplicato le vendite, e l’accettazione sociale, col credito. E nessuno pagava – riteneva a buon diritto di non dover pagare. Molto siciliano.
 
Siciliano – non pagare i debiti – in quanto non trucco furbesco, da fregatura, ma disdegno per gli affari, il commercio, la putigha. Per gli affari altrui come per i propri.
Più sdegno sociale e di classe, d’altra parte, più credito – sonante, monetario, vile. Una arrière-pensée c’è: tutti nobili-principi in Sicilia. Quanto onorevole?
 
Ci sono Catania e Siracusa dietro Palermo, nei primi posti della criminalità in Sicilia secondo lo studio che ne ha fatto “Il Sole 24 Ore”: era la Sicilia “babba”, non lo è più. Non nei primi posti in Italia, nel terzo decile, ma molto peggio che Trapani, Agrigento, Enna.


leuzzi@antiit.eu


Mastroianni redivivo

Chiara Mastroianni, stanca di fare “la figlia”, s’immedesima nel padre: cappello, occhiali, sigaretta, appare e scompare, trascura gli amici, fraternizza con gli sconosciuti.
Un tour de force brillantissimo per l’attrice. Coadiuvata dalla madre Catherine Deneuve, da Fabrice  Luchini, soprattutto, e dalla regista Nicole Garcia, che accettano di farle da sparring partner, e da molti altri attori noti e meno noti.
Una celebrazione per il centenario della nascita di Marcello Mastroianni, ma piena di verve. Con una colonna sonora ricchissima, di motivi vecchi e nuovi. Un po’ gigionesco, ma la gigioneria fa parte della narrazione, dei superego sullo schermo – specialmente reso da Luchini.
Due ore di svago e risate. Che però non sono piaciute ai critici, a Cannes e nei media francesi – perché omaggio a un attore italiano? In Italia invece è piaciuto ai critici, ma nessuno o quasi lo ha visto in sala. In Francia, malgrado l’acidità dei critici, è rimasto in sala per sei settimane, ha avuto 190 mila spettatori, per un incasso di 1,1 milioni. In Italia, apprezzato dalla critica, una settimana, in cinque o sei sale, per un incasso di 190 mila euro.
Christophe Honoré, Marcello mio, Sky Cinema, Now

domenica 29 settembre 2024

Ombre - 739

La Wada fa ricorso contro Sinner senza motivo – nessuna motivazione. Per finta. L’agenzia anti-doping ha un distinto record di corruzione – creata dal Cio, Cominato olimpico internazionale, è semi privata. Specie da parte della Cina, che non lesina per vincere medaglie - caso abnorme fu il papocchio per escludere Schwazer dalla marcia all’Olimpiade brasiliana del 2016. L’Italia finanzia la Wada con un milione, più di un milione. Soldi che sarebbero dieci buoni stipendi, ma evidentemente è poco.
 
Netanyahu parla a un’assemblea Onu vuota per due terzi, parla cioè ai suoi sostenitori, e usa toni e termini minacciosi. Ha paura di se stesso?
 
Gli assassinii mirati dei leader di Hamas, Hezbollah, Pasdaran con bombardamenti aerei o altri “scoppi fortuiti”, a Teheran, a Damasco, Beirut sono creduti. Siamo tutti critici esperti sui social, ma non c’è limite alla credulità.
Israele d’altra parte vuole dare un’immagine di potenza, più che di sagacia: una guerra di un anno a Gaza, territorio piccolo, peraltro già controllato, con i bombardieri e i carri armati pesanti non ha senso militare, solo politico – lo ha militare nel senso di esibizione di potenza.
 
Per Continental no a Pirelli, per Opel no a Marchionne (sì a Peugeot), a Carlo De Benedetti solo un marchietto di macchine da scrivere semimorto: c’è forte in Germania un senso di superiorità, tecnica, economica, quando si parla dell’Italia. Hypovereinsbank fu passata a Unicredit perché tecnicamente fallita - ed era la banca della regione più industriosa e ricca della Germania.
 
Commerzbank, una banca che nessuno vuole, in difficoltà da trent’anni, diventa un campione nazionale quando Unicredit la compra. Con una curiosa inversione dei termini dell’affare: Unicredit, che ha rinunciato a Mps, l’analogo italiano di Commerzbank, non la compra perché ci vede prospettive reddituali inespresse e quindi di crescita, ma come conquista selvaggia (il cancelliere Scholz, e l’immortale Weidmann – il ragazzo di segreteria di Angela Merkel fatto capo della Bundesbank per due mandati). Le due economie hanno pesi diversi ma la Germania continua a considerare l’Italia un concorrente inopportuno, indigesto.
 
Il “New Yorker” si chiede: “Come ha fatto Kamala Harris a passare dall’essere vista come superficiale e priva di autenticità a competitiva e di richiamo?” E si risponde col “political charm”, il fascino della politica - l’effetto potere?
 
“Gualtieri”, il sindaco di Roma, “fa sgomberare una tendopoli. Il Pd”, il suo partito, “lo attacca”. La tendopoli sgomberata prende il viale Pretorio, tra l’università La Sapienza e la stazione Termini. Il Pd non chiede più rifugi Caritas o congeneri per i senzatetto, è solo a difesa degli umili: serve a coprire gli affarucci?
 
L’immigrazione e il Mediterraneo sono ora un “problema della Germania” – dopo che la stessa Germania per molti anni ne ha impedito una qualche regolamentazione, p.es. a favore dei rifugiati politici, e anche dei migranti “economici”. Manfred Weber, il capo dei Popolari (democristiani) europei non fa che ripeterlo da qualche anno ormai. È sempre in Italia a parlarne col governo Meloni. E ha organizzato a Napoli le giornate di studio sull’immigrazione del suo partito. Solo in Italia la questione si discute, e “si risolve”, pro o contro Meloni.
 
È curioso che sia Bonaccini, per molti anni presidente della Regione Emilia Romagna, sia i suoi vice Schlein e Priolo, ora presidente pro tempore, che all’evidenza non hanno fatto nulla per la protezione ambientale, se la prendano col governo di Roma per le due dannosissime alluvioni successive. Sono critiche politiche, il Pd contro la destra. Ma suppongono stupidi i loro amministrati?
 
“L’Istat ricalcola il pil: 130 miliardi in più” negli ultimi tre anni. Dici niente. Ma diventano una bazzecola - caso mai il governo se li intestasse. Non si fa informazione se non si può dare addosso al governo, se di destra – oggi Meloni come già Berlusconi.
 
“Sulle aziende tasse al 60 per cento, sulle banche al 20”, studio Unimpresa – il cittadino non conta?
In realtà il carico fiscale sarebbe al 60 per cento solo per le piccole imprese, quando non lavorano in nero. Per aziende e lavoratori (anche pensionati) è “stabilmente superiore al 42 per cento”. No, è al 48-49 per cento – il conto è semplicissimo, tra quanto si percepisce e quanto si paga per le tasse, comprese le varie “patrimonialine” (una dozzina, tra banca, forniture energetiche e “servizi" comunali).
 
Macron e Sant’Egidio in conferenza, periodica, a Roma o a Parigi. Il laicismo e il clericalismo uniti nella lotta? È la pax del papa argentino?
 
Elkann non è simpatico, neanche ai ferraristi, ma l’accusa di evasione fiscale basata sulle bozze del libro di memorie della nonna è da cabaret – da stand-up comedy. Purtroppo avanzata in un Tribunale, e riportata con sussiego dai giornali. Solo perché è il padrone (anche) di un giornale concorrente, “la Repubblica”?
 
Il Campidoglio non sa più dove celebrare i matrimoni civili, che sono ormai molte decine, quasi un centinaio, ogni giorno. A fine agosto sono stati 4.500, gli stessi che per tutto il 2023 - 200 in più dell’intero 2022. Il matrimonio non è finito, la famiglia: è finita la religione.
 
Formidabile la promessa di Orcel di creare valore per gli azionisti Unicredit con l’investimento in Commerzbank. Perché la banca in Germania è come era in Italia trent’anni fa, prima della razionalizzazione impressa dalla Banca d’Italia di Fazio. Anzi - con l’occhio di favore della Bce di Francoforte - peggio: una miriade di banche e banchette, casse di risparmio, popolari, cooperative, rurali, con solo sue banche nazionali, Deutsche e Commerzbank – più la banca regionale della Baviera, riconvertita da Unicredit.

La guerra delle donne

Una località reale per titolo, nelle Alpi trentine, di una vicenda realistica: il figlio sbandato dopo l’8 settembre che è tornato a casa col commilitone cui deve la vita. Un giovane taciturno, di un posto sconosciuto, la Sicilia. I due giovani sono tenuti nascosti per sfuggire ai rastrellamenti, per i campi di lavoro in Germania. L’attrazione è inevitabile della sorella maggiore per il giovane siciliano - unico maschio in circolazione. Mentre le sorelle minori seguono i dettami insindacabili del padre, che è il maestro del villaggio, e le amiche prendono strade diverse, lontano.
La vita dura dei masi – allora come oggi - dall’alba al tramonto. E di notte di dialoghi intesi – bisbigliati, accennati, lo spettatore li segue con i sottotitoli. Di un mondo tutto donne, per la guerra. Eccetto l’autorevole padre, contrappunto obbligato, siamo sempre in regime patriarcale – anche se incongruo: il padre-maestro è sempre perfetto nell’abbigliamento, il tratto e la capigliatura, e s’immagina anche pulito, nella fatica, la povertà, la stalla, le intemperie – mai un raggio di sole per tutta la lunga storia. Con un carnet di donni ne sconce al fondo del cassetto, e le sigarette altrimenti introvabili in guerra.
Premio probabilmente obbligato a Venezia, per una regia al femminile, e per una vicenda tutta di donne malgrado la guerra – la guerra delle donne. E il più apprezzato dagli spettatori nei primi giorni di programmazione - anche se in numero dimezzato rispetto agli spettatori fine settembre un anno fa. Con una promozione intelligente: solo 25 copie, a seguire al martellamento stampa (Venezia, leone d’argento, Maura Delpero, candidature Oscar), per le grandi città, che facciano il record al botteghino il primo week-end, la domanda poi fatalmente salirà – successo chiama successo (e ieri, il primo giorno del week-end, è andata bene: di gran lunga primo per incassi di ogni altro film italiano, e di ogni altro debutto della settimana).
Maura Delpero, Vermiglio