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sabato 12 ottobre 2024

Il circo sport, che noia

Due-tre ore al giorno di tennis, in orari impervi, per 365 giorni l’anno, brandendo cinque-sei numeri 1, per fare cassa. Da gladiatori in pantaloncini – ora pure a colori da fierucola di via Sannio, residuati americani firmati. Un tennis dove la Wada corrotta, l’agenzia mondiale antidoping, squalificherà Sinner per un paio d’anni, informa il “New York Tines”. Ma non per punirlo: non gli toglierà le vittorie - eccetto una, che non fa testo. Per liberare il sito per altri concorrenti - Sinner è troppo forte. E lo fa perché l’antidoping americano glielo chiede, bisogna movimentare la scena: il tennis italiano occupa troppi posti in classifica, rilevava un mese fa il “New Yorker”,  con finto entusiasmo. E  questo non sta bene alla Usada, Us Antidoping Agency, che ha “ispirato” i due giornali di New York - due gior- e i eminentmente progressisti, della “società civile”, dei “belli-e-buoni”: il mercat americano è ben il più lauto, anche per il tennis.
E questo dice tutto dello sport - a parte la curiosità: tutti pensionati, tutti insonni?
Se non che il calcio tenta di copiralo, di copiare il sistema o circo tennis: tornei su tornei, partite ogni giorno, partire da 110-120 minuti. Con calcitori che si vedono al risparmio, oppure stremati, e un paio ogni volta infortunati.
Con arbitri, in Italia, che non hanno mai giocato. Si vede da come leggono i falli: non capiscono nulla della corsa, dei pesi ondeggianti, dell’intenzionalità, delle furbizie. Sanno a memoria i   regolamenti. Dio cui però non sanno  l’analisi logica. Che comunque gli vengono cambiati a ogni campionato. E dettagliano scemenze – il rigore assoluto, il rigorino ecceter a. E pretendono pure di fare i registi tnv (il Var è una diretta tv), come se non fosse un mestiere, anche compicato.
Il tutto valutato il giorno dopo da altri “arbitri”, avvocaticchi per lo più, giudici unici, i “designatori”, nominati da un potere casuale e occulto.
Per non parlare dell’avvocato Chiné, personaggio impensabile se non fosse reale – fa il giudice, ma giudica solo la Juventus. Un buon democristiano, capo di gabinetto di Lorenzin alla Salute e Bussetti all’Istruzione, ma giudice da Brecht, da commedia amara, per quanto antipatico possa essere Elkann col suo club.

Truman Show al maneggio

Un «Truman show» di Scandicci”, come lo stesso Pieraccioni si dice. Una rimpatriata di umorismo toscano, compiaciuto. Nel maneggio che lui gestisce.
Qualche anno fa due fratelli di Pisa, o dei dintorni, pare siano venuti alle cronache per avere esaudito il desiderio del padre moribondo di vedere Parigi scarrozzandolo per qualche giorno in tondo nella loro proprietà. Pieraccioni ne fa una serie di piccole gag. E più raccontate che rappresentate. Benché sorretto da una buona ventina di comici, anche di nome: Frassica, e mezza Toscana (Francini, Bevilacqua, Ceccherini, Gianna Giachetti, cattivissima vicina, Marta Richeldi, Giorgio Borghetti, Alessio Binetti….) - o forse per questo.  
Leonardo Pieraccioni, Pare parecchio Parigi, Sky Cinema, Now

venerdì 11 ottobre 2024

Andreotti a Bruxelles

Parte all’insegna degli andreottiani “due forni” il secondo governo Von der Leyen a Bruxelles. Eletta da una maggioranza di centro-sinistra, deve governare a destra. Sull’immigrazione. Sull’Ucraina. Sulla transizione verde.
È l’imperativo dei Popolari europei, il cui asse è la Germania: recuperare il voto moderato che è scivolato verso l’estrema destra. Non è un esercizio di poco conto, ma in Germania è essenziale. Esiziale: la crescita al 30 per cento minacciata da un’estrema rosso-bruna, inaffidabile, più neonazista che populista o nazionalista, non si valuta abbastanza fuori, ma la Germania la vive con paura.
Da qui la politica del “doppio forno”. Già avviata con la precedente legislatura. Specialmente indirizzata verso l’Italia, il perno mancante dei Popolari europei, se Fratelli d’Italia non va a occupare il centro perduto - Forza Italia è ritenuta di consistenza minoritaria dopo la morte di Berlusconi, anche se alle Europee ha guadagnato. La catalizzatrice è Meloni, per Weber, il capo dei Popolari europei e per Von der Leyen personalmente – e per Metsola, la presidente del Parlamento
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Cronache dell’altro mondo – abortive (296)

“I Democratici tendono a evitare le domande se questi aborti non dovrebbero essere controllati”  - gli aborti nel terzo trimestre di gravidanza. Negano anche di voler consentire l’aborto tardi nella gestazione, e spiegano che comunque sono rari, e per questo non pongomo problemi morali.
“Di fatto”, sostengono, “l’attenzione speciale sui ‘diritti di riproduzione’ ha aiutato a vincere le elezioni di medio termine (dopo la cancellazione dell’aborto libero da parte della Corte Suprema, n.d.r.), e ha generato entusiasmo per la campagna presidenziale di Kamala Harris. Kamala Harris farebbe bene a tenere da conto la questione”. (“The Atlantic”).
Per il settimanale, fortemente impegnato nella campagna anti-Trump, la questione non è marginale. Le statistiche degli aborti in Usa prima della pronuncia della Corte Suprema (avventatamente adita contro lo stato del Mississippi, che ha stabilito un limite di quindici settimane di gravidanza per avere diritto all’aborto, invece della pratica dell’aborto libero) ne registra il numero maggiore al mondo in rapporto agli abitanti, con casi di aborti perfino “perinatali”, subito dopo la nascita:
http://www.antiit.com/2022/05/cronache-dellaltro-mondo-abortive-186.html8
http://www.antiit.com/2022/05/il-mondo-come-446.html
 

La discesa all'inferno dell'americano bianco impoverito

“Ero al primo anno di liceo, e mi sentivo profondamente infelice”. Tra “le fughe e le liti”, dei vari genitori, naturali o acquisiti – la madre cambiava spesso marito o compagno - e “il carosello incessante di persone che dovevo incontrare, imparare ad amare e poi dimenticare”. Le memorie, sceneggiate e ragionate. di un uomo subito poi di successo, pubblicate nel 2016, dopo un lungo percorso di riscritture, a 32 anni – bestseller a lungo in America, in traduzione in ristampa continua dal 2017. Poi in politica, nel partito Repubblicano, come i suoi hillbilly, da due anni senatore, dapprima anti-Trump e ora candidato alla vice-presidenza di Trump. Lo hanno salvato i quattro anni nei Marines (sei mesi anche in Iraq, alle relazioni pubbliche con gli iracheni), con la necessità di discipinarsi e i risparmi per pagarsi poi l’università – molto hillbilly anche lui, Vance dubita sempre dei prestiti, anche agli studenti.
Una storia strappalacrime, in altro ambito e ambiente. Di un giovane dato in adozione dal padre a due anni, nella causa di divorzio, per non lasciarlo alla madre. La madre alcolizzata, drogata. Il padre uomo buono, cristiano, a cui J.D. non trova nulla da rimproverare, la volta che dopo qualche anno all’improvviso si rifà vivo, e la volta, morto il nonno materno, che J.D. decide di andare a vivere con lui, per non gravare sulla nonna – l’idillio dura solo un’estate. Il padre naturale. Quelli putativi si succedono, la madre è volubile, pochi anni o pochi mesi, ognuno diverso dagli altri.
Un ragazzo degli Appalachi, il mondo rurale povero dei bianchi americani. D’improvviso industrializzato, e poi deindustrializzato: della rust belt, la fascia arrugginita. Cresciuto dai nonni. E il mondo hillbilly, buzzurro, montanaro, cocciuto, in cui cresce. Un mondo di origini irlandesi e scozzesi, di ceppo duro, “non ci piacciono gli estranei e i diversi”. Un tempo solido, e lavoratore. Ora lavativo, attaccato ai sussidi. Un mondo disadattato, povero anche di spirito, tra alcol e droghe. A un certo punto Vance legge un’analisi sociologica che con grande precisione descrive la condizione dei suoi hillbilly, ma è un’indagine psico-socio-economica sui neri metropolitani.  
Una storia di sofferenza personale, seppure rivissuta da adulto “salvato”, mimando l’allegria del ragazzo, dell’adolescente. Ma un racconto che si vuole anche quadro sociale. Della vasta zona al cuore dell’America dal Kentucky all’Alabama. E un ritratto anche politico, della vasta area dei “bianchi poveri”, una decina di stati, che non lo erano e lo sono diventati. Un tempo democratica, ora repubblicana – ugualmente arrabbiata e combattiva, ma indefettibilmente povera, peggio,  impoverita. Gli Appalachi sono un modo di dire più che un’area geografica determinata, “una regione sterminata che si estende dall’Alabama alla Georgia del Sud”, grandi pianure, grandi fiumi, “e dall’Ohio ad alcune parti del Nord dello stato di New York”.
Vance, oggi uomo di destra, politico d’attacco, la foto senza barba del risvolto lo fa un pacioccone, di una psicologia più convincente della vita tribolata che ha avuto per vent’anni, unica áncora una nonna mezzo paralitica, sboccata, che sempre minaccia di prendere la pistola, ma intelligente e generosa. Ma è inevitabile leggerlo con la lente politica. Che già nel 2014-2015, quando scriveva il libro, e non c’era ancora Trump, ha netta: “È stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è un luogo d’infelicità”. La prima base di un quadro sociologico, concisa e “esatta”, che la pur dilagante sociologia politica americana non fa, semplice e chiara, persuasiva. Un ritratto e un’analisi originali – malgrado l’enorme pubblicistica americana socio-culturale - dei rapporti familiari e dei criteri sociali in famiglia e nella comunità (quartiere, villagio) americani. Dalla critica dura, ma motivata, alle politiche assistenziali, per cui il lavoratore povero paga, con le sue ritenute fiscali, le bistecche e il marameo al vicino, più speso la vicina, che non fa nulla. Alla fine della religione, nel cuore della Bible belt, della fascia bilica, bigotta: “Le istituzioni religiose rimangono una forza positiva nella vita delle eprsone” ma non sono d’aiuto nella crisi: “In una parte del Paese afflitta dalla deindustrializzazione, dala disoccupazione, dall’abuso di alcol e droghe e dal disgregarsi delle famiglie, la pratica religiosa è crollata”. Ci sono pure le “guerre di Natale”, le azioni legali di gruppi laici contro i sindaci che fanno il presepe, parte di  un’aggressività laica che fa - faceva? - sentire i cristiani, e gli hillbilly ex operai, gente comune, “buoni cristiani”, dei perseguitati: “Ho letto un libro di David Limbaugh, ‘Persecution’, sulle discriminazioni ai danni dei cristiani. Internet ribolliva d’indignazione per le mostre newyorchesi che esibivano immagini di Cristo o della Vergine Maria coperte di escrementi”. La lettura può anche servire a capire la divisione dell’America politica, tra fronti da guerra civile.
Un racconto e una riflessione curati, non di getto, anche se ne dà l’impressione: la scrittura è riveduta più volte, anche per contributi critici, si argisce dai ringraziamenti. Un racconto quindi non semplice, forse per questo mativo, la materia sensibile. Per una lettura impegnativa, riga dopo riga. Ma un racconto sem
pre pieno, anche se le disgarzie sono le stesse, ripetute ogni paio di pagine, ogni pagina. Appassionante come un vechio libro di scoperte, di esploratori.

Un racconto talmente “onesto”, di una scrittura cioè limpida, e di sintesi obiettive, comunque incontrovertibili, anche a fare la tara di un editing redazionale pesante, o la riscruttura di un collaboratore professionale anonimo, da suscitare meraviglia con l’immagine dell’uomo diventato nel frattempo, due anni fa, senatore Repubblicano, e ora candidato di Trump alla vice-presidenza.
Le ultime pagine sono in difesa di Obama, e contro il cospirazionismo dilagante. Prima di entrare in politica, Vance lavora anche per David Frum, editorialista di “The Atantic”, il sito e la rivista più ostili a Trump, con martellamento plurigiornaliero. Ma il fatto è che in America “non c’è gruppo etnico-sociale più pessimista dei bianchi della classe operaia”, p. 192 - la divisione dell’America non ce la raccontano giusta?
J.D.Vance, Elegia americana, Garzanti, pp. 255 €15

giovedì 10 ottobre 2024

La giustizia fuorilegge

Si condanna De Pasquale. Dopo Davigo. Per la gestione personalissima, e violenta, delle procedure penali. Una metà buona dei giudici di Mani Pulite che si sentivano sopra la legge.
Nel conto bisogna mettere anche Di Pietro, che non è mai stato condannato, anzi ha vinto centinaia di cause contro chi lo ha criticato. Ma semplicemente non è stato perseguito per la sospetta appropriazione indebita dei rimborsi elettorali al suo partito, l’Italia dei Valori – ha preferito lasciare la politica.
Gli altri due giudici di Mani Pulite, D’Ambrosio e Colombo, erano due comunisti che al solito non sapevano cosa facevano – salvo tenere il Pci fuori dalle inchieste. Mentre il procuratore capo Borrelli, furbo uomo di potere, non firmava nulla – lui suonava il piano, muoveva la tastiera.
Dire questa giustizia “politica” è forse sbagliato. Ma non si può più dire da Terzo Mondo.

Cronache dell’altro mondo – tennistiche (295)

Il Tas, tribunale arbitrale dello sport, squalificherà Sinner, “il n.1 del tennis mondiale e due volte campione Grand Slam”, per un anno. Oppure per due. Dopo che la Cas, Court of Arbitration for Sport, ha avallato l’appello della Wada, World AntiDoping Agency, allo stesso Tas, contro l’assoluzione pronunciata, sempre in arbitrato, dall’Itia, Inernational Tennis Integrity Agency. Ma lo squalificherà “senza l’annullamento di alcun risultato”, in aggiunta a quello disposto dall’arbitrato, il torneo di Indian Wells, “U.S. Open”, o “BNP Paribas Open”, il 10 marzo, con la cancellazione del titolo e dei punti ranking maturati con la vittoria, e la restituzione del premio (Sinner si era imposto su Taylor Fritz, speranza del tennis americano - ma già di 26 anni, Sinner ne ha 23, n.d.r.).
Il Tas trasformerà la sentenza dell’Itia da “nessuna colpa o negligenza” in “nessuna colpa o negligenza significativa”.
(Una lunga lista di commenti negativi all’assoluzione di Sinner segue, di tennisti in attività o in pensione, anche di condannati per doping).
La Wada si è mossa a seguito della polemica aperta a luglio dalla Usada, Us Antidoping Agency, in prossimità dell’olimpiade di Parigi. La Usada ha rispolverato il caso del 2021, alla vigilia dell’Olimpiade di Tokyo, quando la Wada non aveva dato seguito alle denunce di doping dei nuotatori cinesi.
(“The New York Times”)

Inventarsi portiere (di calcio) nell’Italia del boom

Trapiantato di colpo da Vigevano a Milano dal vecchio padrone, che ha deciso di vendere e godersi la vita a Bordighera, il giovane contabile diventa vittima di un padrone interista fanatico, che soprattutto dagli impiegati vuole che facciano la migliore squadra aziendale di calcio. Il giovane contabile sa tutto di tutto, a casa, a “Lascia o raddoppia” – è l’epoca in cui i vicini venivano con la sedia dopo cena la sera del Mike - sapeva le risposte sempre in anticipo, e anche a Milano è apprezzato, migliora subito i conti, m non sa nulla di calcio. Non sa nemmeno come muoversi. I colleghi perfidi lo mettono in porta, per farne un bersaglio. Ma un vecchio portiere, campione mancato e per questo soprannominato Zamora, il grande portiere spagnolo, un mezzo barbone, gli insegnerà come fare.
Un ritratto d’epoca: l’Italia del boom, semplice e fiduciosa. Un debutto felicissimo di Marcorè alla regia. Piana, quasi sottovoce, per un mondo che immagini e suoni fanno semplici, anche mediocri, senza declamazioni – il soggetto è alla Fantozzi, ma trattato con gli ingredienti più delicati della commedia all’italiana.
Marcorè stesso è misurato nei panni del fallito “Zamora”. Ma soprattutto tira fuori il meglio, in un ruolo impossibile, per Alberto Paradossi, debuttante poco più che ventenne nel ruolo di protagonista, e a una serie di ottimi caratteristi – nomi nuovi al cinema, ma evidentemente attori di pedigree a Milano. Insuperabile la serie dei “padroni” macchietta, l’interista Storti, il milanista Poretti, e Antonio Catania il vecchio “padrone” che non sa stare “a Bordighera” – tutt’e tre ben diretti, con le redini tirate, assurdi ma mai eccessivi. Marcorè si riserva il ruolo dello Zamora d’Italia - avendo anche l’altezza dei portieri, 1,90.
Un omaggio del fine produttore Agostino Saccà, ex Rai, a Roberto Perrone, il cronista sportivo che moriva settantenne mentre si cominciava a girare il film, colonna della “Gazzetta”, che della figura del portiere era specialista e appassionato (suo anche il libro su Buffon), e lo “Zamora” milanese aveva tratteggiato in un romanzo.
Neri Marcorè, Zamora, Sky Cinema, Now

mercoledì 9 ottobre 2024

Letture - 560

letterautore


Albergo
– “La camera d’albergo, con la sua doppia fugacità, quella del tempo e quella del luogo, è per me il posto che fa più provare il dolore dell’amore. Nello stesso tempo ho sempre avuto l’impressione che fare l’amore in albergo non impegna, perché, in certo modo, non vi si è nessuno. Per le stesse ragioni, è senza dubbio più facile morirvi, come Pavese, o Marco Pantani” – Annie Ernaux, “L’usage de la photo”, p.38.

 
Caravaggio
– “Caravaggio ha inventato l’illuminazione hollywoodiana. Ha inventato un modo di illuminare le cose  in maniera drammatica”, David Hockney, “I miei occhi su mondo”.
 
Cinema
– Paolo Kessissoglu, che fa anche cinema, ricorda della “megaproduzione internazionale Asterix alle Olimpiadi” come esperienza più grata: “Di diverso c’è che si apre l’ascensore e ci trovi Alain Delon…. O fai una scena con Depardieu e lui non c’è”. Come è possibile? “Perché lui fa solo i primi piani. Per tutto il resto ci sono le controfigure”.
 
Empatia
– È di Edith Stein, “Il problema dell’empatia”, tesi di dottorato preparata con Edmund Husserl, a venticinque anni, nel mezzo della Grande Guerra, 1916, mentre faceva l’infermiera volontaria nelle zone di combattimento.  Si parla molto di empatia, ormai entrata nel linguaggio comune al posto di simpatia, ma non della sua studiosa e teorica. Non se ne parla perché opera di suora, cattolica, “Teresa Benedetta della Croce”? Già atea. Anzi ebrea e atea, poi convertita e suora, carmelitana scalza. Arrestata con la sorella, terziaria carmelitana nel suo stesso convento, nel 1942 quando Hitler ordinò la caccia anche agli ebrei da tempo convertiti, e avviata a Auschwitz. Una santa di due religioni – v. in questo sito
http://www.antiit.com/search?q=empatia
 
Hollywood
– “In California a luce è molto limpida. A volte riesci a vedere a centinaia di km. di distanza.  È davvero limpidissima”, David Hockney, “I miei occhi sul mondo”. Ma Los Angeles è portata a esempio di citta più inquinata - dopo Shangai e le atre megalopoli cinesi, dove non si vedono le case di fronte.
 
Pasolini – “Dolciastro comunista” per Italo Calvino? Della ghiotta citazione che circola in rete non si trova la traccia, dove e quando Calvino l’avrebbe pronunciata o scritta. Sul “Corriere della sera” nell’ottobre del 1975, nella polemica sul “delitto del Circeo” – quindi alla vigilia della morte di Pasolini? In un’intervista del 1974? Però si attaglia.
 
Rembrandt – “Rembrandt ha messo nei volti più di qualunque altro, prima e dopo di lui, perché vedeva di più. Era una questione di occhio, e di cuore”, David Hockney, “I miei occhi sul mondo”: “Chiunque abbia disegnato capisce quanto siano meravigliosi i disegni di Rembrandt: c’è un’economia di mezzi che ti lascia senza fiato. Si vede la velocità” – si vede?
 
Togliatti – Un ritratto diverso ne fa Lisa Foa nel libro di memorie “È andata così” – un ritratto ancora inedito anche se il libro ha vent’anni: “Di Togliatti mi ha sempre colpito il viso segnato che gli conferiva un’espressione drammatica. Pensavo fosse la conseguenza di quella selezione staliniana che aveva subito passando attraverso il lavoro nell’Internazionale, la vita a Mosca, la guerra civile in Spagna. Altri dirigenti comunisti, con esperienze non dissimili, avevano mantenuto invece un viso sereno, quasi giulivo, come se la loro vita di militanti fosse stata un’allegra passeggiata. Lo stesso Longo, che pure aveva qualche dote umana – era bello, con gli occhi azzurri – era passato attraverso esperienze pesanti e aveva combattuto in Spagna, ma non ne aveva conservato segni sul viso. Togliatti, non che sembrasse avere dei rimorsi, ma non era passato indenne attraverso tutte quelle vicende. Era in fondo sopravvissuto per caso. Ci si chiedeva a volte perché Togliatti non fosse stato ammazzato anche lui, da Stalin. Ricordo la tesi di Karol che diceva: «Un professore, con un’aria un po’ petulante, forse Stalin non lo considerava un tipo pericoloso»” – lo scrittore franco-polacco K.S.Karol, analista politico dell’Europa orientale durante la guerra fredda, editorialista del “Manifesto” e del “Nouvel Observateur”, compagno di Rossana Rossanda. 
Lisa Foa, redattrice di “Rinascita” al momento della trasformazione da mensile in settimanale, nel 1962, quale specialista delle economie dei paesi dell’Est Europa, lo ha frequentato negli ultimi due anni di vita, nelle riunioni redazionali per programmare il settimanale, cui Togliatti teneva molto, con precedenza su ogni altro impegno.

 
Velo – A proposito della parrucca che ha indossato durante e dopo la chemioterapia per un tumore della mammella, Annie Ernaux nota, “L’usage de la photo”, p. 37: più che un accessorio, “per la verità, un segno, quello del cancro, come il velo è quello della religione islamica. Da qui l’abbandono dell’uno e dell’altro come puri accessori di moda femminile, quali sono stati fino alla chemioterapia e allo sviluppo dell’Islam”.
 
Viaggiare – “Dove stiamo andando in realtà? Sempre a casa”, Novalis.
 
“Chi viaggia lontano vede spesso cose\ …\ che quando ne parla tornando a casa\ lo fanno spesso accusare di mentire” - Herman Hesse, “Viaggio in Oriente”.
 
Luchino Visconti – Di lui Lisa Foa, memorialista senza riguardi - diretta come era nella vita - ricorda la signorilità: “Un vero signore, cordiale, alla mano, e potrei dire persino galante”, che “non era iscritto al Pci perché, essendo omosessuale, non lo avevano ammesso”. ….”.
Non si ricorda invece che non volle il premio Mosca, un festival di cui era giurato, per Comencini, per il capolavoro che è “Tutti a casa”, da ogni punto d vista, comico e drammatico, storico e “paesano”, di fine tessitura linguistico-psicologica, “dialettale”, perché era, a suo giudizio, in quanto “commedia all’italiana”, un film di consumo, di genere deprecabile. Aristocratico? Ma allora in senso stretto. O era la “concorrenza”?

letterautore@antiit.eu

La commedia del gender fluid

Un titolo già di culto per Veronesi, e per Pilar Fogliati, a poche settimane dall’uscita. Di commedia all’italiana innestata sull’attualità, del gender fluid, dell’indistinzione maschio-femmina. Feroce e compassionevole come il genere si vuole. Essendo riuscito anche a mantenersi salace malgrado i paletti del politicamente corretto. Sul fondo delle miserie, tante, e dei trionfi, pochi, del teatro - delle arti e dei mestieri teatrali. Una storia immaginata dallo stesso regista, col produttore Valsecchi, e da lui sceneggata, con Pilar Fogliati.
Fogliati che finisce prescelta in una lunga serie di provini. per una serie di equivoci, a fare Romeo, è un capolavoro, di trucco e di portamento, dizione, espressione. Il culmine è la scena da Romeo con il fidanzato, col quale ha appena deciso di fare un figlio: un attore-cane imbarcato per caso nella produzione come Mercuzio, che per mettere lei\lui a suo agio si professa “ambidestro” e quindi follemente gay, per cui il rapporto può continuare, senza necessità di spiegazioni. La chiave della commedia all’italiana: l’equivoco (derivato da Plauto?), per cui si è conformisti e – per essere – anticonformisti.
Una presa in giro, come vuole la commedia all’italiana del sesso, e un film d’epoca, una pietra miliare. Sergio Castellitto, il regista trombone ormai fuori dal giro e molto gay, tiene le fila dell’aggrovigliata vicenda, fino al “tutti contenti” finale.
Giovanni Veronesi, Romeo è Giulietta, Sky Cinema
 

martedì 8 ottobre 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (573)

Giuseppe Leuzzi


Il dopoguerra fu scandito a lungo in Calabria, e anche in Sicilia, dalle alluvioni. In Calabria per le terribili fiumare, piccoli corsi d’acqua che all’improvviso in autunno dilagavano, rompendo ponti e strade. Quella del 1951 danneggio 68 paesi, e due furono ricostruiti su siti più sicuri, San Luca e Africo. Poi le fiumare sono state arginate. Dieci anni più tardi frane, crolli, smottamenti a Napoli, sempre con le prime piogge. Da qualche decennio
 le alluvioni colpiscono il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, e ora la Romagna. Sono le piogge alluvionali che si sono spostate da Sud a Nord? Le alluvioni del Sud non devastavano paesi, non si costruiva a ridosso dei torrenti.

 
Si vuole che i traffici sui tifosi di Milan e Inter fossero di ‘ndrangheta. Poi viene fuori che i conti li gestivano tre gentildonne. Molto milanesi, di tratto e nei ragionamenti, ma pur sempre donne. La ‘ndrangheta ha rinunciato a essere maschilista - fare figli maschi, eccetera?
La sociologia della mafia sarebbe da stand up comedy, da ridere.
 
La giustizia, purtroppo, no – non è da ridere. Se non c’entrava un Bellocco le mafie di Milan e Inter, in attività da decenni, non sarebbero state incriminate. Pur agendo alla luce del sole. Le Procure si muovono solo se c’è odore di mafia. E dunque c’è una gerarchia nel crimine, anche se il codice dice di no, un delitto è un delitto: la mafia è già un nastrino, una medaglia, un onore.
 
Ricordando Comencini, per l’uscita del film biografico della figlia Francesca, Fofi esuma il dimenticato “Delitto d’amore”. Stefania Sandrelli è la sposa, meridionale, di Giuliano Gemma, settentrionale. Il quale, quando lei muore per i veleni respirati in fabbrica, si compra una pistola, va in fabbrica e uccide il padrone. La pistola unificava l’Italia.
 
Teo Teocoli, di Taranto, ricordando i primi incontri con Celentano, di Milano, a 14 anni, dice: “Pensavo si chiamasse Celendano con la d, la somiglianza era la faccia da terrone che avevamo tutti e due”. La faccia da terrone?
 
Taurianova, la Città del Libro 2024, fu famosa non molti anni fa, venticinque, tra il 1989 e il 1991, per l’ultima faida, che fu sanguinosissima, 32 morti. Tra le famiglie Zagari (coi parenti Avignone, Viola e Fazzalari) e Neri (con gli Asciutto e i Grimaldi). La faida divideva anche i due quartieri-paese che avevano dato vita a Taurianova, Iatrinoli (gli Zagari e parenti) e Radicena (la fazione dei Neri). Un “genere” già allora da tempo in discredito, ma che non si può non dire illustre - “Romeo e Giulietta” – e che ora Netanyahu e Israele rispolverano.
 
Il Sud è malato di pubblico
Sono tutte settentrionali, e tutte al di sopra dell’Appennino, con le eccezioni di Firenze e Siena, le prime dieci province del Benvivere, del “Rapporto 2024 sul BenVivere e la Generatività delle Province Italiane”, che la Federcasse BCC-CR (Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo e Casse Rurali) realizza ogni anno, col giornale “Avvenire”. E sono tutte al di sopra dell’Appennino, con l’eccezione di Rimini, le dieci province classificate per “generatività” – c’era Ragusa ma ne è uscita. Per “generatività” il rapporto intende “la capacità di un territorio di «accendere» il singolo affinché con la sue azioni e relazioni abbia un impatto positivo sulle altre persone” - la socialità, calcolata su questi indici: raccolta differenziata, start-up, tassi di nuzialità, e di natalità, riduzione dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano.
In termini di BenVivere (tredici indicatori, tra cui cooperative iscritte e età media delle madri al parto, suddivisi in Legalità e Sicurezza, Ambiente Cultura e Turismo, visto col segno positivo, Economia e Inclusione, Demografia e Famiglia), al fondo della classifica vengono Crotone e Reggio Calabria. Precedute da Taranto. Che viene dopo Caltanissetta, Foggia, Catania e Napoli. Le uniche oasi in tanto grigiore sono Isernia e Benevento, province minuscole.
Nela classifica della “generatività” invece, il Sud è più vivace. Catanzaro in particolare recupera in un anno 66 posizioni, sfiorando la top venti della classifica. Co un punteggio positivo in otto indicatori su tredici, per un globale 89,61 su cento. Più in generale, il rapporto individua una “generatività” più vivace al Sud che al Nord – mentre al Centro la dà in calo. In sintesi, si direbbe che il Sud sta male perché male amministrato, ma da solo si muove - i giovani scalciano, dove riescono a fare a meno del “pubblico”. Il Sud è malato di “pubblico”, del meridionalismo.
 
L’assistenza invece dell’operosità
In più punti di “Elegia americana”, il racconto della sua storia di “bianco povero”, in mezzo al popolo dei cafoni d’America, gli hillbilly, assimilabili ai terroni, figlio di genitori disadattati, nell’America impoverita degli Appalachi, dal Kentucky all’Alabama, J.D.Vance, ora candidato alla vice-presidenza con Trump, critica il modo di essere e di pensare di chi fa una professione di vivere dei sussidi pubblici: i fortunati sono ricchi di famiglia, o specialmente dotati. L’operosità non c’è, non c’è più. Se non a chiacchiere. Che Vance esemplifica con la “vicina di casa” che non ha “mai lavorato in vita sua”: “«Poiché tanti si approfittano del sistema, per le persone laboriose diventa impossibile ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno», diceva”, scroccona a buon diritto.
La critica dei sussidi è normale a destra. Ma Vance, all’epoca del libro peraltro non ancora di destra, non ne fa un caso politico. Oppure sì, ma al contrario: gli hillbilly, lavoratori da sempre Democratici, passano con i Repubblicani, che non amano il welfare, quando l’assistenza pubblica si fa invasiva – gli anni di Bush jr. e di Obama: il lavoratore povero paga, con le sue ritenute fiscali, le bistecche e il marameo al vicino, più spesso la vicina, che non fa nulla.
Il lungo, dettagliato, ripetitivo racconto è del grande e improvviso deperimento dei volitivi irlandesi-scozzesi degli Appalachi, degli hillbilly, già teste dure se mai ce n’erano (i nonni che lo crescono, i bisnonni), faticatori, orgogliosi, per la deindustrializzazione degli anni 1990, ma anche per i divorzi a catena, l’alcolismo, così comune, le droghe. E ne indaga tentativamente le cause. Ma ha capito che non se ne esce a motivo dei sussidi pubblici.
L’assistenza si è sempre detta necessaria al Sud nei tanti decenni ormai della Repubblica, dalle finte pensioni di invalidità al reddito di cittadinanza. Indispensabile? Una medicina che non cura. Ma non un palliativo: diseducativa, e deprimente – l’assistenza fa male, è una medicina poco salutare.
 
Quando la mafia divenne mito
Sembra che ci sia sempre stata, tanto è pervasiva, ma la mafia è mito da una trentina d’anni, quaranta. Da “La piovra”, la serie Rai che dal 1984 ne ha fato una potenza invincibile, in piena era Riina, della mafia cioè delle stragi, a ripetizione. Impunite, è vero, ma questo è un altro discorso. Mentre era solo sanguinaria. E ancora non aveva i pentiti “eroi”, il genere Buscetta dialettico, o i sanguinari Spatuzza, i Brusca, autori di centinaia di assassinii, anche crudeli (il ragazzino Di Matteo sciolto nell’acido, le stragi con le autobombe), che dicono tutto quello che si vuole dicano.
Il successo della “Piovra”, ben fatto da Damiano Damiani, rese il genere popolare in America, nel business delle serie tv. Portato anche lì in casa con successo, dalla serie dei “Sopranos”, di cui ora Sky offre tutta la serie, tanto è di culto, e celebra con un film documentario, “La vera storia”, con elogi sperticati. Alla regia e alla produzione, ma che inevitabilmente si ripercuotono sul soggetto – come di recente è avvenuto per “Gomorra”, il film scuramente magistrale, e poi la serie, tanto “dura” e tanto esibita, anche negli interpreti che venivano dal male e sono finiti male.
Ma, poi, la mafia diventa monumento in casa, in tv su Rai 1 e in America, cioè nel “mondo”, dopo la serie del “Padrino”. Invenzione dunque di Francis Ford Coppola. Che però, dopo i tre padrini, non si è più ripreso, non ha saputo fare granché – compreso, apre, l’ultimo film, “Megalopolis” (un remake non riuscito di Rosi, “Mani sulla città”?). E si vuole a tutti i costi lucano, della terra dei suoi nonni paterni, un meridionale familista.
Un cerchio che si chiude. Sul Sud come una morsa: tutti ci guadagnano, il Sud ci perde.
 
La squalifica del Sud
La questione meridionale nasce con l’unità - ovvio, prima dell’unità non poteva. Ma dopo è nata per un motivo preciso: per come è stata fatta l’unità. Amministrativamente ma anche culturalmente.
Prima dell’unità, cioè fino a metà Ottocento, il Sud era bello e brutto, buono e cattivo, ma non era “il Sud”. Viaggiatori, economisti e politici parlavano di Napoli, Palermo, delle Puglie come parlavano di Firenze, peraltro molto decaduta, Milano, allora poca cosa, o Torino come si fa di ogni soggetto o materia d’indagine: per quello che sono, senza graduatorie.
Non c’era “il Sud”, non c’era il preconcetto. Gladstone era un politico, e parlava da politico.  Goethe scrisse di Venezia scandalizzato dalla sporcizia – una città che pure “potrebbe essere pulita come qualunque città olandese”, il mare non inquina. Mentre trovava la Sicilia “chiave di tutto” e Napoli un “paradiso….  Essenza e oblio di se stessa”. 
Il Sud diventa “Affrica” con gli impiegati piemontesi, sia pure col grado di generale.
Non c’è da scandalizzarsi. Oggi il Sud è mafia a maggior gloria di Saviano, Gratteri, e altri meridionali scrittori di bestseller analoghi ai loro – i “gomorra” tirano al mercato.
 
Cronache della differenza: Napoli
“Un paradiso abitato da diavoli” non è di Goethe, Croce spiegava nel 1932, dopo lunga, e al solito accurata, ricerca bibliografica – la prima traccia trovava nel Cinquecento, in uno scrittore polacco. Ma è vero che Napoli è celebrata per iperboli. Dallo stesso Goethe: “Un paradiso, essenza e oblio di sé stessa” - essenza e oblio insieme? O Malaparte: “La più misteriosa città d’Europa, la sola città del mondo antico che non sia perita, come Ilio, come Ninive, come Babilonia”.  Ma in tante fantasie letterarie scompare, fisicamente. In “Malacqua”, il racconto di Nicola Pugliese, per lo stesso Malaparte, “La pelle”.
 
“Vittoria”, la madre di Torre Annunziata che vuole una figlia femmina dopo i tre maschi, e ci riesce, o “Nata per te”, su Luca Trapanese, infermiere single e omossessuale che riesce ad adottare e accudisce Alba, nata con sindrome di Down, due film di largo richiamo, cambiano un po’ l’immagine di Napoli – Torre Annunziata non è Napoli, ma Napoli è metonimia dominante. Come i due ultimi film di Sorrentino. Da qualche tempo vengono fuori da Napoli storie fuori quadro, niente camorra e guapperia, niente grande core e core ‘ngrato. Cioè sì, ma su un fondo di impegno applicato e continuativo.
Significativo anche che Vittoria e Trapanese non sono dichiarati “eroi”, come il linguaggio corrente vorrebbe.  
 
Torna in circolo la storia di Totò, che la figlia avrebbe raccontato, che la mattina usciva di casa con un fascio di banconote in tasca, perché “c’è sempre qualche napoletano disoccupato da aiutare”. Certamente falsa, perché Totò non era demente, e non “usciva di casa la mattina”, le celebrità non possono – serve a dire il napoletano di buon cuore? Ma è vero che a lungo c’erano a Napoli i “disoccupati organizzati”. Parte del folklore. Il cambiamento potrebbe essere questo: Napoli non privilegia più il folklore.
 
In carattere è invece la scoperta di una chiesa fatta da un “archeologo” clandestino: una chiesa dell’anno Mille, a otto metri di profondità, nel centro storico. Una struttura cioè rilevabile, con strumentazioni semplici, come l’ha rilevata lo scavatore clandestino, se non per documenti. Uno in realtà non clandestino, solo non autorizzato, era ben uno scavo in piena città, all’aperto. Di una capacità di fare dove il resto del mondo è ingessato – le Belle Arti, l’archeologia accademica.
 
Rosella Postorino, “Nei nervi e nel cuore”, ha un tassista napoletano che la lascia, per un ingorgo, lontano dall’albergo dove lei ha bisogno di passare, non si fa pagare la corsa, e promette di aspettarla per portarla al suo appuntamento. Lei ci mette mezz’ora e forse un’ora per rassettarsi, e all’uscita dall’albergo si pone il quesito: vado all’appuntamento con un altro taxi o cerco di rintracciare il primo? E se se ne è andato? Ma il taxista l’aspetta, “appoggiato a un muro”, e la porta all’appuntamento.
 
È vero che “il taxista forse veniva da fuori anche lui, perché ebbe bisogno d’impostare via Chiaia sul navigatore”. Ma comunque lavorava a Napoli, con i canoni di Napoli. È vero anche che col cellulare si fa presto anche a tenere i contatti, anche negli ingorghi napoletani. Ma l’aneddoto resta ugualmente ben costruito e il taxista “napoletano” credibile – tutto è possibile a Napoli. 
 
Il primo carico di vasetti di Nutella “verde” o vegana, prodotta dalla Ferrero a Sant’Angelo dei Lombardi, in Irpinia, è stato venduto “in un negozietto che si affaccia su uno dei vicoli del centro storico di Napoli”. Era stato rubato all’uscita dallo stabilimento. Peccato, Napoli faceva di meglio, contraffaceva la merce – contraffare la Nutella “verde”? un impero.
 
Piange, dicono le cronache, Dino De Laurentiis celebrando i suoi vent’anni di gestione del Napoli calcio, portato fuori dal fallimento, ripotato in serie A, e da protagonista, in Italia e in Europa. L’uomo d’affari, sbrigativo e cinico, a Napoli è sempre coinvolto personalmente? Sarà questo che fa la differenza con Milano: quanto spreco di energia (nostalgie, rimorsi, scuse, vanti…) senza return, senza utile.
Bisognerebbe istituire un dividendo sentimentale?


leuzzi@antiit.eu

Annie senza veli

In apertura il sesso senza più, in albergo di passo, a ore, un fatto fisico come per l’uomo (un racconto del 1998 “scritto per un giornale femminile italiano”), un ricordo sull’onda di odori e macchie di sperma: una frenesia che è una sorta di rivendicazione paritaria – si può “desiderare il membro di un uomo”. Nelle pause dell’accudimento della madre, alla fine dei suoi giorni nel cronicario. Tre ricordi della madre seguono in altrettante brevi prose. Un altro racconto sexy chiude la piccola raccolta, “La fëte”, con molto “fumo” e molta promiscuità. Due temi fra i più ricorrenti della narrativa di Ernaux: la guerra mai composta con i genitori, pur amabili, ma vecchia Francia, con la loro memoria, e il desiderio femminile.
Altri testi sono il ricordo di Jeanne Calment, “la donna più longeva di sempre”, morta nel 1997, di 122 anni. Di Pierre Bourdieu. Di viaggi a Mosca, al tempo della perestrojika, un anno prima del crollo del Muro, e a Lipsia, un anno dopo la riunificazione tedesca – viaggi su invito degli istituti francesi di cultura, ma con poco genio.
Più a genio negli scritti critici – Ernaux a lungo ha insegnato al liceo. Quello su Pavese è, pur nella brevità, quanto di meglio si sia letto sullo scrittore piemontese. “L’ammirabile di Pavese è in questa sospensione del senso e in questa reclusione in un presente senza scampo” – a proposito di Ginia de “La bella estate”: “Ginia attraversa la sua prima estate di ragazza nel piacere e i guai senza misurare la portata dei suoi desideri, delle sue frequentazioni”. Pavese scrittore tragico, di scrittura essenziale.
In “Perdersi”, il racconto di un amore folle e molto fisico per uno sconosciuto russo, la narratrice s’immagina “quella festa in cui io non ci sarò. O Pavese…”. Pavese ritorna spesso in Annie Ernaux, pur non avendo un posto speciale oltralpe. Per la sua scrittura di “assoluta necessità”. Partendo dall’incipit famoso della “Bella estate”: “A quei tempi era sempre festa”. Che Ernaux vuole antifrastico: la festa non ha luogo, oppure finisce male. Come del resto nel racconto di Pavese.
Il saggio inizia annotando, dopo apposita ricerca, che il 27 agosto 1950, quando Pavese decide di morire, è “giorno di festa”, una domenica. Due i nodi pavesiani che Ernaux enuclea. “La festa è la forma del tragico di Pavese, forma dichiarata d’anticipo”. Un tragico che “sembra nascere dal funzionamento naturale della vita”. E la “scrittura trasparente, intesa, come Pavese dice, a «presentare senza descrivere»”, una scrittura che “mostra senza analizzare né giudicare”. Sospensione del senso e presente-prigione sono forse artifici tecnici, “ma si può bene impiegare questo termine, che è una impossibilità di raggiungere mai l’Altro (vedi il Diario: «La donna è un popolo nemico come il popolo tedesco»)”.
L’altro saggio, sempre breve, “”Littérature et politique”, è una contestazione di Claude Simon, il Nobel francese prima di Ernaux, della sua pretesa, a proposito del libro “L’Invitation” pubblicato all’inizio del 1989, di ritorno dalla Russia (anche lui su invito dell’Istituto di Cultura?), che non parla di Gorbaciov né della perestrojika, “se non in termini allusivi”. Pretendendo che “la letteratura non ha niente a che vedere con la politica”. Una contestazione dell’“estetismo”, presentato cone “un valore etico: sarebbe la libertà, l’indipendenza”. Indigeribile. “La concezione di una letteratura specchio di se stessa…..non la capsico, mi è quasi dolorosa”. Al contrario, la scrittura “può, sul lungo termine, impregnando l’immaginario del lettore, renderlo sensibile a delle realtà che ignorava, o condurlo a vedere altrimenti ciò che considerava sempre sotto lo stesso angolo”.
Dodici testi brevi, quattro racconti e alcune note di viaggio e critiche, riprese dal volume “Écrire la vire”, un “tutto Ernaux” Gallimard del 2011. Scritti degli anni tra il 1984 e il 2006, riproposti a parte come iniziazione alla scrittrice, ai suoi temi “più ossessivi e fondatori”.
Annie Ernaux, Hotel Casanova et autres textes brefs, Folio, pp. 98 € 2

lunedì 7 ottobre 2024

Problemi di base biblici - 824

spock


Se occhio per occhio dente per dente è precetto biblico, allora la guerra è perpetua?
 
Ma allora la faida era un rito biblico?
 
Bisognerà riabilitare la faida – non era selvaggia?
 
È la guerra un dovere per ebrei e cristiani?
 
Non c’è amore nella Bibbia, è per caso?
 
Neanche una carezza, un segno?

spock@antiit.eu

Professori sì, ma col gusto del fare

Ci sono piccoli furti a scuola, e la scuola - una istituzione “a tolleranza zero”, non si stanca di ripeterci la dirigente - s’infogna nelle procedure standard, seminando torti. Finché la tecnologia, una privatissima videosorveglianza, non scopre la verità, sorprendente: la migliore delle persone, efficiente, preveniente, instancabile, può essere cleptomane. Il solito bailamme scolastico si scatena: le leggi, i regolamenti, le circolari, i genitori pontificanti, in rete whatsapp e in assemblea (le caratterizzazioni dei genitori in assemblea sono un piccolo capolavoro), i “giornalisti” del giornalismo scolastico, saputelli che si esercitano alla politicanteria, e i ragazzi, imprevedibili, amichevoli e violenti.
Il vecchio film sulla scuola con la velocità del giallo – mozzafiato: preparazione (suspense), tanto più minacciosa quanto vaga, evento, finale a sorpresa. Grazie anche alla concentrazione: è una rappresentazione teatrale, senza le divagazioni che la serialità ha imposto, su come vivono e con chi i personaggi, cosa mangiano, quali turbe si procurano, e l’inevitabile scena di letto. In una Germania multietnica: si parla anche turco, polacco e inglese, e il regista, turco di origine, introduce un ritmo mediterraneo nella compassatezza.
Un film che solo in Italia, praticamente senza promozione (le critiche si contano), ha incassato un milione e mezzo: si vede che gli (le) insegnanti vanno ancora al cinema. Guizzante e, in ambiente e tematiche trite e ritrite, a ogni momento avvolgente. Con un’interpretazione capolavoro della protagonista, Leonie Benesch, vittima, detective, e ancora vittima, ma indomabile: benché amburghese, fa una perfetta tedesca polacca (non per caso è di scuola inglese), diretta come un treno, inattaccabile, instancabile.
Ilker Čatak, La sala professori, Sky Cinema, Now

domenica 6 ottobre 2024

Ombre - 740

È un anno domani che Israele è in guerra, a Gaza, in Libano, contro l’Iran, migliaia di pagine “coprono l’evento”, e non una sola analisi di come, perché, a che fine. Un progetto di pace viene presentato fra Zelensky e Biden, che lascia alla Russia i territori occupati, un quinto dell’Ucraina.  Davvero? Possibile? C’è come un’ignoranza sopravvenuta del mondo, in mezzo alle tante “notizie”. Come se il mondo fosse di tweet.
  

Israele va al 7 ottobre, a un anno di guerra, esperienza senza precedenti, senza una strategia. Ora confronta Teheran, dopo avere umiliato gli ayatollah con gli assassinii eccellenti in casa loro. Ma non può bombardarne i porti per non far crescere i prezzi petroliferi. Né può bombardarne i siti nucleari. Cosa allora, le città? Per ridate fiato e seguito agli ayatollah? La sola strategia è mantenere Netanyahu al potere.


Il Real Madrid denuncia “Le Monde” per un articolo che ritiene diffamatorio. Un tribunale spagnolo gli dà ragione, e condanna “Le Monde” a 400 mila euro di danni. La Francia si rifiuta di eseguire la condanna spagnola. La Corte di Giustizia europea dà ragione alla Francia. Ci fosse un articolo di “Le Monde” contro una squadra italiana tipo Real, tre quarti degli italiani brinderebbero, con i giudici mobilitati ad avviare processi sulle “prove” dell’articolo. È per questo che la Spagna ha migliore immagine e più affidabile, non vive di odio (invidia) come la giustizia e i media italiani. 
 
Dopo un anno di guerra, e migliaia di corrispondenze, dice che succede una lettera di uno scrittore, Edgar Keret: “Un massacro senza precedenti nei kibbutz della fascia vicino a Gaza”, e questo lo sapevamo. Poi: “Un anno in cui il primo ministro d’Israele non sente la necessità di prendersi la responsabilità per il fallimento degli apparati di sicurezza” il 7 ottobre, e “rifiuta di farsi intervistare”, di “istituire una commissione d’inchiesta”, di “spiegare come vede Gaza”, di “fissare una data per le elezioni”, mentre “un anno dopo aver destituito il suo ministro della difesa il suddetto ministro è ancora in carica”,
 
A un anno dall’attacco di Hamas è rumoroso il silenzio delle piazze arabe. Fa rumore anche il distacco dei governi arabi, non per Hamas e nemmeno per i palestinesi di Cisgiordania. Si vuole questo un silenzio sunnita, contro i nemici sciiti, contro cioè l’Iran. Ma questa è roba di governi. Tacciono le piazze, i media si vogliono imparziali. Cioè freddi.


Si vuole la guerra mondiale - lo dice il papa, si denuncia un antisemitismo dilagante - ma è la guerra di Israele. Il resto del mondo è stato risparmiato dal terrorismo arabo-islamico. Mentre Israele si muove con convinta risolutezza. Anche contro gli interessi, per esempio, degli Stati Uniti in questa vigilia elettorale, di cui terremota imprevedibilmente il voto ebraico e il voto arabo.      
 
Maurizio Scanavino a “Repubblica”, è lo spicciafaccende di John Elkann. Ingegnere come Elkann, ma soprattutto aggiustatore dei conti. Come alla Juventus, caricherà su Gedi (“la Repubblica”) tutte le passività, presenti e future, sul primo bilancio. Ma ripulire per rilanciare, o non per liquidare? Alla Juventus ha rilanciato – 20 milioni di rosso al secondo bilancio. Ma il segnale è brutto per un giornale: nei giornali non si investe, si taglia.
 
Roma è schierata contro Briatore per le fioriere della sua pizzeria a via Veneto. Solo contro di lui. A opera dello stesso gruppo di vigili urbani che non vedono fioriere e addobbi a Prati e a Campo dei Gori, da molti anni prima. Perché Briatore viene messo a destra e il Campidoglio sta a sinistra? Perché Briatore non paga?
 
L’Italia ci prova da una decina d’anni, dal governo Renzi, a invogliare i capitali stranieri. Ma i soli che rispondono sono per il calcio: Gerry Cardinale (Milan), il fondo Oaktree (Inter), i fratelli Hartomo (Como), Rocco Commisso (Fiorentina), Dan Friedkin (Roma), Joey Saputo (Bologna) - tutti più ricchi dei ricchi italiani del calcio, Elkann, gli eredi Berlusconi, i Percassi. Il calcio non è così attrattivo in Italia, né sportivamente né economicamente. E allora? Commisso, Cardinale e Saputo si può capirli, hanno origini italiane. Ma i fratelli Hartomo a Como, preso in serie B, due ottantenni, indonesiani, ricchi più di tutti gli altri ricchi della serie A messi assieme? Il vecchio proprietario asiatico (indonesiano, anche lui) dell’Inter ci guadagnava facendo credito al club.
 
Alla convenzione repubblicana prima, e poi al dibattito tv col candidato vice di Kamala Harris, si scopre che J.D .Vance, il candidato vice di Trump, ha una moglie di origine indiana. Come lo è Kamala Harris. Era un secolo fa, poco più, che la politica americana sull’immigrazione si faceva arcigna, respingendo le navi dall’India. Non su base razzista, su quella equivalente dell’eugenismo (ispirerà Hitler), teneva la porta aperta ai “nordici”, limitando l’afflusso di latini e slavi, e la sbarrava agli asiatici. Nella forma di una nave sovraccarica di indiani cu si negò l’attracco.
 
Oggi gli americani di origine indiana sono poco meno di tre milioni, il 6 per cento dei cittadini nati all’estero o di genitori nati all’estero. E sono il secondo maggiore gruppo etnico dopo i messicani, ma il più affluente e influente. Kamala Harris e Usha Vance sono entrambe donne di diritto, giudice e avvocata (laureata di Yale). Entrambe di genitori upper class, professori universitari, e rispettabili – anche se il padre di Harris si è estraniato dalla moglie e dalla figlia. La riapertura delle frontiere agli indiani è stata fatta con un’accurata cernita dei titoli d’istruzione.
 

Maschio è meglio

Una madre isterica con la figlia intrattabile, un nonno posato con una nipote violenta. La figlia è diventata intrattabile per i troppi sedativi, che ormai per lei sono una droga, dopo un incidente d’auto, forse da lei provocato forse no. Si addomesticherà frequentando il nonno della ragazza violenta, che ne diventa il futuro suocero.
L’eccezionalità della normalità, col dramma in agguato. Non una grande storia, se non perché inverte i “ruoli” sociali, tra bianchi e neri. La famiglia disgregata, madre single e isterica e figlia drogata, è bianca, il nonno che si batte saggio sui due fronti è nero - è Morgan Freeman, che è tutto dir e.
Braff, attore dalla comicità lieve, ci riprova, con lo steso sottile filo ironico, da regista. Con Morgan, che aveva già diretto in “Insospettabili sospetti” (con Michael Caine), sempre nel ruolo bonario di risolutore, qui delle nevrosi. Ruoli rovesciati anche tra generi: un maschio solo argine alle molte nevrosi femminili.
Zach Braff, A good person, Sky Cinema, Now