giovedì 17 ottobre 2024
Leso Berlinguer
Spari, non a salve, contro il ministro della Cultura Giuli, reo di non avere presenziato alla prima dell’(ennesimo) “Berlinguer”, alla Festa del Cinema di Roma. Il “Corriere della sera” ci fa una pagina. Di Elly Schlein non si parla, che se l’è filata adducendo riunioni internazionali. Cannoni puntati invece sul ministro, che giustitica, pare, l’assenza col ritardo del volo – tornava, pare, da Francoforte. È un giornalismo un po’ così.
Povera Sicilia, e ritardata
Trentatré
“storie di vita”, selezionate per la pubblicazione, su suggerimento di Italo
Calvino, dal sociologo triestino trapiantato in Sicilia tra il 1952 e il 1960,
che le aveva trascritte. “Alcuni racconti”, nelle parole dello stesso Dolci
alla prima edizione nel 1963, “che ho raccolto dal 1952 al 1960 tra la povera
gente di quella parte della Sicilia in cui operiamo”, fra Trapani e Palermo, a
Trappeto e Partinico. In una “nuova edizione accresciuta”, annuncia l’editore
(ma senza spiegare come), con un’introduzione del pedagogista Franco Lorenzoni,
e una nota su Dolci, “il Gandhi italiano”, e la sua “avventura” in Sicilia,
dello storico Giuseppe Barone.
Storie
“in assenza di giudizio”, nota il prefatore Franco Lorenzoni, e “un esempio
particolarmente riuscito di storia orale”. In realtà il giudizio è già nella
scelta del soggetto, della speciale testimonianza, cioè di un punto di vista, e
nella trascrizione – è il problema della storia orale, una pre-scelta. E i racconti
sono di povertà e arretratezza.
“Un
documento di un passato prossimo inverosimile” premette l’editore. Un documento storico? Non ne ha l’impianto.
L’intenzione è di “documentare” una situazione di degrado estremo. I racconti
sono di personaggi e situazioni borderline.
Anche dove la situazione è storicizzata: il feudo, la mezzadria, le leggi Gullo
non applicate, sulla redistibuzione del reddito in mezzadria, i Carabinieri schierati
dalla parte dei padroni - si tende a riabilitare Scelba come quello, ministro e
presidente del consiglio, che fiaccò la deriva sovietica dell’Italia, ma fu
anche quello della polizia che spara ai cafoni (lo farà fino al 1968, sembra
strano che lo facesse in pieno centro-sinistra, che aveva debuttato nel 1963
con la proposta di disarmo della Polizia nelle manifestazioni, ma lo fece, con i
morti di Avola - negli stessi vigneti su cui poi, finito il “feudo”, si è impiantato
il Nero d’Avola di tanto sucesso). E l’autonarraziome, minuta, dettaglista, divagante,
ripetitiva, per pagine e pagine, di
persone sempre dalla parte del giusto, per le violenze giudiziarie, domestiche,
sanitarie, padronali, ecetera, ma per
qualche motivo semrpe estreme, tolgono il fiato – e la voglia.
Motivo
principale dell’impressione di trovarsi in racconti in realtà monotematici, e
di casi limite, è dato dallo stesso impianto delle narrazioni. Divaganti ma
ripetitive –pochi racconti sono sintetici, chi parla tende a divagare e
ripetersi. Oltre che dalla scelta dei casi più oltraggiosi, l’uno dietro l’altro,
senza mai un intervallo. Si comincia col carcere, “Vincenzo”, di un abigeatario
presumibilmente, che si racconta con storie da pìcaro ma di buona coscienza. interminabilmente. “Rosario” vive di
verdure selvatiche, che raccatta dove può: sa trattarle, e ci guadagna, anche
se non abbastanza per sopravvivere. Pii c’è chi vive applocandl mignatte, “La
patata”. “Santo” è uno che, sapendo un po’ leggere, scopre dai manifesti che la
legge Gullo dà ai mezzadri la parte maggiore del raccolto, e se ne fa una bandiera.
“Gaspare” esemplifica le angherie cui si deve sotttoporre il povero bisognoso
di cure. “Ciolino”, figlio di emigrati di ritorno, non riesce a quadrare la sua
vita. “Nonna Nedda” argomenta se e quando è giusto litigare col marito,
picchirlo ol farsene picchiare. C’è anche l’esproprio per fare la diga, “Zu
Felice”. E pochi sono brevi – fulmineo esordisce il nettubino di Palermo: “Come
bellezza è bellissima ma sudicia è”.
Non
grandi avventure. C’è molto sindacalismo. E un principio di ambientalismo: il
pescatore di frodo con le “bombe”, “Antonio”, ha la coscienza di distruggere
più, molto di più, di quanto ne ricava. “L’unico ritratto non autobiografico è
quello di Placido Rizzotto”, avverte il prefatore, “perché il segretario della
Camera del Lavoro di Corleone fu ammazzato dalla mafia nel 1948”: lo racconta
un amico, “L’amico di Placido” (che potrebbe essere lo stesso Dolci, perché
no), e allora non ci sono geremiadi, ma un caso sindacale e politco.
Di
altro stampo gli ultimi racconti. Salvatore Vilardo fa, sessant’anni fa, la
sociologia dello stadio, del tifo come “coscienza” comune – di cui si comincerà
a parlare molto più tardi, dopo la famosa Ialia-Germania 4-3, quando la gente
passò la notte in piazza - più e meglio di “Santa Rosalia”, la grande festa per
la santa di Palermo, che lascia tutto sporco, e c’è anche “una coscienza ippica
elevagtissima”, e una ciclistica. Un indimenticabile “Cavalier Volpe”, infaticabile
e riuscito creatore di cooperative, sin da 1919, già senatore a vita del Duce,
di cui è sempre ammiratore, e ora protagonista del movimento cooperativo della
Repbblica. L’incredibile “Onorevole Calò”, onorevole Dc, pedagogista principe
prima e dopo la guerra, anche lui infaticabile e irresistibile creatore di cooperative,
nonché gestore dei sussidi, che spiega come la politica è ridotta ai favori, e
tutto, tutto è “arretrato”. L’“economia latifondistica” correttamente spiegando
non come vincolo esclusivo coercitivo ma come mentalità – lo spiegava già sessanta,
settant’anni fa, mentre tuttora sociologi e storici si attardano sul “latifondo”
al Sud: la campagna siciliana “ha una base comune che si chiama arreratezza, con
tipo di economia latifondistica, non come estensione del latifondo ma come
indirizzo agricolo, monoculturale, povero, senza irrigazione dove pure ce n’è la
possibilità, con poche conoscenze di concimazione ecetera”: Si finisce con una
principessa, Sonia Alliata di Salaparuta –“nella campaga non vive non vive più
nessuno dell’aristocrazia, solo io o la principessa Paternò” – sul buon tempo antico,
in cui i contadini erano familiari.
La
riproposta è però sorprendente in quanto fa riscoprire Dolci, oggi dimenticato.
Un uomo che da solo riuscì a creare una sorta di movimento di liberazione siciliano. Premio Lenin già nel 1956, un anno
dopo la pubblicazione della sua prima testimonianza, “Banditi a Partinico”. Mobilitatore
di molte energie – Goffredo Fofi gli si aggregò a 18 anni - e di una larga
opinione europea. Testimone anche del rischio, da lui avviato, di fare della
mafia il Sud, piuttosto che un’attività - e forse una organizzazione (ma gli
assassinii sono per lo più tra malviventi - criminale. “Il 22 settembre 1965”,
ricorda Barone, “nel corso di un’affollata conferenza stampa successiva a un’audizione
della Commissione antimafia, Dolci denuncia per collusione con la criminalità
organizzata il ministro del Commercio con l’Estero Bernardo Mattarella, il
sottosegretario alla Sanità Calogero Volpe, il senatore Girolamo Messeri e numerosi
notabili siciliani”. Mattarella e Volpe si querelarono e Dolci fu condannato.
Messeri non risulta condannato e nemmeno indagato. Volpe fu deputato alla
Costituente e per sette legislature, cioè fino al 1979. Di Mattarella la
memoria è stata curata dalla famiglia, i figli Piersanti, presidente della
Regione Sicilia, assassinato dalla mafia, e Sergio, e dai nipoti: a vent’anni
con don Sturzo, segretario di sezione dei Popolari a Castellamare di Stabia,
partecipe delle riunioni clandestine con De Gasperi a Roma a partire dal 1942,
sottosegretario dei due governi del Cln presieduti da Bonomi, vice-segretario della
neo-costituita Dc, con Dossetti e Piccioni, deputato della Costituente,
ministro di molti governi a partire dal 1953.
Danilo
Dolci, Racconti siciliani, Sellerio,
pp. 435 €15
mercoledì 16 ottobre 2024
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (574))
Giuseppe Leuzzi
La definzione dei Lep,
“livelli essenziali delle prestazioni”, centrali nella nuova legge ipearutonomista
– la ri-definizione dei Lep, che sono in Costituzione già da una ventina di
anni - i leghisti elegantemente assegnano a una ipereleghista, Elena D’Orlando.
Una giurista, che ha lavorato per Zaia e Calderoli. L’eleganza della Lega non
sorprende, si divora anche le briciole, ma com’è che questo governo si regge
sui voti del Sud?
I
treni che si fermano per il chiodo nel filo riportano dritto al brigante Musolino,
che finita la latitanza per avere inciampato, braccato dai Carabinieri, in un
filo avrebbe eslamato: “Malidittu chillu filu” – o avrebbe avuto tempo di dirlo
dopo l’arresto, o di raccontarlo ai compagni di carcere. È l’Italia che è
diventata meridionale,calabrese, aspromontana? O è l’Italia dei fili?
Va
al Sud il record delle tv locali, secondo il censimento AerAnti-Corallo, anche
se il mercato pubblicitario vi è ristretto, per non dire irrisorio. Delle 254
emittenti locali censite, 115 sono al Sud, 59 al Centro e 80 al Nord. La Lombardia
ne ha 27, la Campania 31, la Sicilia 34.
Sul
totale dei ricavi, 189 milioni, meno di un milione a emittente, due terzi vanno
al Nord, 124, e solo 35 al Meridione, quindi un quarto di milione per ogni
emittente. Di che vivono allora tutte queste tv? Degli “altri ricavi e
proventi”: i contributi pubblici e il mercato delle frequenze – che sono
anch’esse pubbliche. Gli “altri ricavi” rendono di più, 264 milioni. Un mercato, insomma, sempre di sussidi.
Che nturalmengte vanno soprattutto al Nord, per più della metà, 147 milioni. Al
Sud ne vanno 87, e questo basta – sono più del doppio dei ricavi industriali,
Pavese calabrese
– più che un caso (5)
Su
Pavese a Brancaleone molto è stato raccolto, con un paio di testimonianze anche
di prima mano, da Domenico Zappone, lo scrittore calabrese, in un reportage
sulla “Gazzetta del Sud” l’1 agosto 1958. Molto che richiama “Il carcere”, la
novella del confino, ma molto anche di prima mano.
Il
paese era nel 1958 come ai tempi di Pavese venti anni prima – oggi è un centro
turistico marino: “Una lunga strada parallela alla spiaggia fiancheggiata di
basse case tutte stinte, corrose dalla salsedine, anonime e precarie così come
si legge ne ‘Il carcere’”. Di Pavese non c’è nessun ricordo. I vecchi in piazza
ci provano, ma il nome non dice loro nulla né la condizione – “i confinati
erano tanti”. Il maresciallo dei Carabinieri che lo controllava, Mariano
Riccioppo, “è morto da tempo. Sono morti il suo padrone di casa e alcuni dei
suoi allievi (Pavese passava alcune ore della mattina insegnando a una mezza
dozzina di ragazzi, nella sua stessa camera-abitazione, n.d.r.). Le lettere che
scrisse agli amici sono state perdute”. Ma due suoi scolari – ragazzi in età,
che furono anche suoi amici all’osteria (ce n’è traccia ne “Il carcere”) sono
vivi e ricordano bene. Oreste Politi, “che oggi fa l’impresario edile”,
mantenne i contatti fino al ferale 1950: “«La tua cassetta natalizia mi ha
ricordato i giorni e gli odori di Brancaleone» mi scriveva nel gennaio del
1950, e prometteva un suo ritorno per l’estate per studiare da vicino questa
parte della Calabria, certo la più povera e la più negletta. Diceva di volere
arrivare fino a Africo, a Chorìo e a Roghudi per ambientarvi un racconto.
«Voglio farmi una mangiata di lumache e svuotare una bottiglia di vino greco»
scriveva ancora, ed era il giugno dello stesso anno.Prometteva che sarebbe
venuto ai primi di settembre”.
Politi
lo ricorda “di una compostezza sconcertante” quando insegnava, “non sorrideva
né scherzava mai”. Fuori invece s’intratteneva volentieri, “si divertiva alla
nostra spensieratezza, ai nostri bizzarri umori di ragazzi”. Erano peraltro
allievi già adulti: “Con Domenico Mangraviti e Angelo Palermiti fui tra i suoi
primissimi allievi”, continua Politi: “C’era con noi anche la figlia del
maresciallo, ma a questa dava lezioni in caserma”. Le lezioni erano di lettere
e lingue straniere – un modo per passare il tempo, dice Politi, e per
raggranellare qualcosa: “Noi ci mettevamo seduti sulle tavole del letto, mentre
lui occupava l’unica sedia”.
Con
Politi il legame fu stabile nei mesi del confino: “Noi due eravamo coetanei e
delle stesse idee politiche”, e “impiegammo ben poco a simpatizzare, per quanto
avesse un carattere tutt’altro che
facile”. Evitava gli altri confinati, ma non la politica. Polemizzava coi
fascisti, “senza acredine”, ma “a volte s’accendeva in viso e gesticolava”.
Pietro
Spinella, altro allievo e amico, ricorda che divenne “professore” in paese per
automatismo: “Non già per la posizione di confinato e per gli occhiali spessi,
cerchiati di tartaruga, massicci, che lo facevano decisamente uomo di studi,
quanto per quel suo fumare la pipa, pur essendo così giovane. Ai nostri paesi
fumano la pipa soltanto i vecchi, che, pertanto, sono considerati saggi”.
Politi
lo ricorda socievole, ma malinconico. “A mezzogiorno andava all’osteria di
Giovanni Bello…. Naturalmente con la pipa in bocca. Era di una frugalità spartana.
Cortese con tutti, pure evitava di intavolare discorsi con la gente” – ne “Il
carcere”, invece , all’osteria incontra gente, soprattutto giovani, che lo
interessano. Faceva il bagno il pomeriggio, “essendo a quell’ora la spiaggia
quasi deserta”. Faceva lunghe escursioni nei dintorni, talvolta in bicicletta:
“Quasi sempre lo accompagnavamo noi ragazzi, facevamo gare spassosissime di
velocità, noi a piedi e lui in bicicletta”. Spensierato (“felice”) lo ricorda
una sola volta, alla “Festa del riposo”. Una festa inventata dal medico di
Brancaleone, il dottor Vincenzo De Angelis, “antifascista irriducibile”, quando
Mussolini abolì il Primo Maggio, la Festa del lavoro. Il medico allora fece una
festa “sul cocuzzolo del paese vecchio” – un posto che anche Pavese ricorda,
dove c’era un confinato molto impegnato politicamente, che lui evitava – e la chiamò Festa del riposo:
“Distribuì centinaia di fischietti, i cui sibili implicitamente erano diretti
al fascismo”, e vino a fiumi. “Pavese fischiò con gli altri e fu contento”,
racconta Politi: “Rientrato a casa, confessò di avere trascorso un giorno
bellissimo”.
Scriveva
anche. Secondo Politi “traduceva senza pentimenti e senza vocabolari,
riempiendo dozzine di quadernetti da due
soldi che poi legava in volume”. A proposito dei quali ha un Pavese anche
cospiratore: “Una volta ne fece recapitare uno a Torino per mezzo di un
allievo”, che evidentemente partiva per Torino, “a una sua amica”.
Raccomandando al ragazzo: “Non andare da mia sorella, non dire il tuo nome, né
chi sei, dici solo che vieni da Brancaleone e nulla più”. E perché si
ricordasse l’indirizzo dell’amica glielo crittografò: “Segnò come errori, in
blu, certe parole di un compito, avendo cura che le iniziali, lette di seguito”,
fornissero l’indirizzo, e “quanto al numero civico, segnò le ultime due cifre
dell’anno di nascita di Napoleone”.
Zappone
è un narratore, più che un reporter, quindi come testimone a volte è
inattendibile. Ma i nomi che menziona, cinque o sei, sono reali – e leggevano la
“Gazzetta del Sud”, un quotidiano allora molto diffuso. E non tutte le
circostanze da lui registrate poteva trovarle ne “Il carcere”.
Primi in classifica, della povertà
Il Sud cresce di più del
dato Italia, il Sud esporta di più (aumenta di più le esportazioni in un anno,
in realtà esporta sempre poco e pochissimo), il Sud è “ripartito”. Poi arriva il
Rapporto Eurostat 2024 e certifica che nel 2023 il Sud Italia
è stato tra le aree dell’Unione europea con il più alto tasso di persone a
rischio povertà o esclusione sociale. Con eccezioni, ma il dato complessivo è
quello.
Peggio: l’ufficio statistico europeo assegna alla Calabria
la palma di regione in Europa a più alto rischio di povertà o di esclusione
sociale. Veramente l’ultimissima, col 49,5 per cento di indigenza, uno su due, è
la Guyana francese, un “territorio” tra Brasile e Suriname, quello della
Cayenna, ma conta solo 300 mila persone. La Calabria in realtà non è da meno, anch’essa ha
un povero su due, seppure con una percentuale leggermente minore, il 48,6 per
cento.
Il Sud si può dire non sfigura, in questa classifica
della povertà potenziale. Nel 2023, attesta il rapporto sulle condizioni di
vita in Europa dell’Ufficio statistico dell’Ue, la quota di persone a rischio
di povertà o esclusione sociale più elevata, di almeno il 35,0 per cento, è
stata rilevata in 19 regioni dell’Unione. Tre di queste sono del Sud Italia –
del Sud di uno dei Sette Grandi dell’Occidente: la Calabria è seguita dalla
Campania, col 44,4 per cento, e dalla Sicilia, col 41,4. Poco sotto la linea di
guardia la Sardegna (32,9 per cento), la Puglia (32,2 per cento) e l’Abruzzo
(28,6).
Per converso Eurostat attesta che delle cinque regioni
europee più ricche ben due sono italiane, dell’Italia settentrionale: l’Emilia
Romagna, con appena il 7,4 per cento di povertà potenziale, e la provincia di
Bolzano col 5,8.
Basta poco
Alla ricerca di Corrado
Alvaro nei suoi luoghi natii, negli anni 1960-1970, lo scrittore Domenico Zappone
(“Il pane della Sibilla”) si imbatte in un problema: il legame costante nelle narrative dello scrittore col luogo natale, dal quale però si separò presto e
al quale non tornò mai, se non in morte del padre. Un retaggio “naturale”? “Di
questo paese povero di risorse e ricco di fantasie, incuneato in un angolo
angusto di montagna…..per un dono divino, assommati in sé miti, fantasie e leggende
della sua gente, ne ha fatto parlare gli abitanti come antichi eroi”. Più facile
arguire che Alvaro, scrittore realista di grande fantasia, collocasse le sue
creazioni in un luogo a lui noto ma remoto – San Luca e dintorni, lo Jonio, la
Montagna come location, si
direbbe oggi.
Zappone se ne dà un’altra
ragione, da cronista che riferisce le cose, anche questa per altra ragione
persuasiva: “Si badi alla leggiadria dei nomi delle valli, delle grotte, e dei
monti, al paesaggio sconvolto e popolato di enigmi pietrificati, disseminato di
spaventosi macigni affioranti dalle creste come vestigia di mostri, si ponga
mente alle fantasiose leggende di cui sopra si parla, agli eroi che vi passarono,
al Cristo di cui si dice come di persona conosciuta dai padri, all’esodo delle
popolazioni, ed ecco in parte spiegati molti caratteri magici dell’arte di Alvaro”. Stiamo parlando di San Luca, il posto
rude di “Gente in Aspromonte”, il pozzo senza fondo dei rapimenti di persona e della
mafia della droga. E del “discorso della mafia”. Basta poco per cambiare la
“natura” delle cose. Soprattutto parlandone –le parole non costano, anche se
sono un’arma pericolosa: nei cinema, nelle televisioni, nelle carriere dei
giudici – non c’è altra realtà che la parola che la dice.
“Qui tutto è bello e gentile”, può insistere lo stesso
Zappone in altra occasione, parliamo sempre del temibilissimo San Luca: “I nomi
delle grotte, ad esempio, sono fra i più graziosi: ce n’è una che è detta di
«Sant’Anastasia», un’altra dei «Colombi», un’altra della «Sibilla». Suggestivi
quelli delle valli; della «Castanìa», degli «Oleandri». Strani i nomi delle pietre
(«prache»): «Pietra Longa», «Pietra di Febo
«Pietra Cappa», «di Mariantonia», dell’«Aquila», ed
hanno forma di torri, di castelli, di fiori…”
leuzzi@antiit.eu
L’occhio fa il pittore
Un’antologia
di citazioni del pittore e scenografo inglese, molto pop art e molto gay, oggi poco meno che novantenne. Sugli argomenti
più diversi. Casuali, come da conversazione – l’editore la dice “una sorta di
biografia intellettuale in formato mignon”.
Detti
e contradetti, esumati da scritti, o raccolti nel tempo, dal critico Martin
Gayford – altri, online, sono stati raccolti da Sarah Ransome. Sull’arte prevalentemente:
la pittura, la luce, i pittori. E sui grandi temi: la vita, la morte.
“L’arte
ci aiuta a vedere da almeno trentamila anni”. L’arte aiuta a “vedere”, a
capire, ma “non c’è mai una visione oggettiva, mai”. Tutto è immagine: “L’educazione visiva viene considerata
irrilevante, ma tutto quello che vediamo intorno a noi influenza ogni aspetto
della nostra vita”. “Bisogna programmare di essere spontanei”. “Ci vuole tempo per
farla semplice”. O “ci vogliono anni per esere spontanei”. “È il presente a essere
eterno. Bisogna essere nel qui e ora”. “L’occhio è in continuo movimento; se
non si muove sei morto”. “Sono sempre stato un guardone…. è quello che gli
artisti fanno”. Di Caravaggio, Cézanne, Walt Disney soprattutto.
Molto
illustrate dalle sue opere, le citazioni sono raggruppate tematicamente: Hockney
e Hockney… una volta, Hockney
e la vita, Hockney e l’arte, Hockney e l’ispirazione, Hockney e la creazione
artistica, Hockney e la natura, Hockney e la fotografia, Hockney e la
tecnologia, Hockney e Hockney… oggi.
David
Hockney, I miei occhi sul mondo, Johan and Levi, pp. 176, ill. € 20
martedì 15 ottobre 2024
Problemi di base di verità - 825
spock
Viviamo d’impressioni e immagini, che chiamiamo realtà?
L’errore implica la verità?
Errare humanun est, cioè
solo dell’uomo?
Ma se anche Dio ha sbagliato – unde malum?
E la verità della Bibbia, è cristiana oppure ebraica?
L’errore è il complemento della verità, l’imperfezione della
perfezione, etc…: si va “per tentativi ed errori”, ma poi come si giunge in
fondo?
Non c’è altra realtà che la parola che la dice?
spock@antiit.eu
Ecobusiness
A quanto ammontano annualmente
gli “oneri di sistema” che il governo impone sulle bollette della luce e del
gas – i tre quarti di costo della bolletta, insieme con le “spese di
trasporto”? Non si può sapere. Ma vanno dai sei miliardi in sù. Non una “patrimonialina”.
E quanto di questi
“oneri” sui consumatori vanno ai produttori di “energia alternative”,
soprattutto alle pale eoliche? Altro segreto. Ma le pale eoliche sono un affare
molto redditizio già prima di entrare in funzione, almeno questo si sa.
Con le prime
applicazioni, si prevedeva che l’Intelligenza Artificiale avrebbe da sola
consumato nel 2050 la metà dell’energia a disposizione. Da due anni, con l’IA
generativa, in grado cioè di generare testo, immagini, video, musica, o altri mdia,
in risposta a richieste libere dette prompt
(ChatGPT, Bard, Bedrock, xAI….- sono innumerevoli), il fabbisogno di energia
crescerà di tre volte entro il 2030, e nel 2040 avrà bisogno di tutta l’energia
a disposizione – di cui è stata programmata
la disponibilità. Google e le altre big tech americane si preparano con nuove centrali nucleari. E chi non ha impianti nucleari?
Attorno all’Aspromonte, la Calabria reinventata
Santino
Salerno ha raccolto alcune prose sparse dello scrittore suo conterraneo
dedicate ai “luoghi di Corrado Alvaro”: i luoghi dell’infanzia, e la famiglia,
il fratello sacerdote, don Massimo, la madre che gli sopravvisse, Antonia
Giampaolo. Scritti degli anni 1950-1960. Corredandole di altri scritti su
Polsi, il lungo di culto oggetto del primo scritto di Alvaro, sedicenne,
indotto dallo zio prete, fratello della mamma, che gli insegnava il latino, e
da lui fatto stampare, a firma “Corrado Alvaro, studente liceale”.
Il
filo su cui Zappone si interroga a lungo, ma che riesce a sciogliere, è il peso
enorme del luogo natio nell’opera di Alvaro, aneddoti, personaggi, fantasie,
mitologie, e la sua lontananza dal paese, dove è tornato in trent’anni due o tre
volte, per poche ore, l’ultima in morte del padre – mentre tornerà dopo più
volte, nella vicina Caraffa del Bianco, dove il fratello Massimo era parroco,
per fare visita alla madre. È un mistero su cui Zappone - che per una stagione
lavorò a Roma e una notte conobbe Alvaro, che s’intrattenne con lui come con una
vecchia conoscenza – non risolve. Oppure sì, con la fantasia.
Zappone,
reduce mutilato di guerra, non si ambientò a Roma, e tornò a vivere a Palmi.
Scrivendo racconti, e corrispondenze per vari giornali, Scrittore per una breve
stagione apprezzato e premiato, da ultimo al Cinzano nel 1957 (con Umberto Saba
alla memoria), corrispondente o inviato inventivo, umorale, faceto, è page turner come pochi. La morte, in un
momento di sconforto, a 74anni, il 6 novembre 1976, lo ha seppellito anche nella
memoria.
Salerno
ne ha recuperato alcune sapide corrispondenze, e qualche testo inedito. Corredando
la raccolta di un’introduzione breve e sapidissima, biografica e anamnestica. E
di note brevi che si leggono anch’esse come racconti. La prima, su due lettere
di Sciascia a Zappone, dice quanto la corrispondenza e la biografia di Sciascia
manchino.
Fuori
raccolta altri pezzi di varia curiosità. La Maga Sibilla a Polsi e il “Guerin
Meschino” volgarizzato da Andrea di Barberino. La Madonna di Mileto contesa
ogni anno a luglio – contesa a bastonate – tra i marinai di Mileto e i caprai
di Pentedattilo, allora abitata. Il famoso “bandito” Giuseppe Musolino, interlocutore
compito, già oratore (in sua difesa) di rara eloquenza, nel manicomio di Reggio
dove era stato rinchiuso.
Una
narrativa e un mondo dentro e attorno all’Aspromonte, che si apprezza perché
senza la cappa delle mafie. Molto c’è di San Luca, dei sanlucoti abigeatari
irresistibili. Un Comune peraltro molto ricco, padrone di 10 mila ettari di
bosco. E un paese che non ha mai smesso di farsi il pane in casa, le stesse donne
lo preferiscono - lo preferivano quando Zappone ne scriveva, 50-60 anni fa, e
ancora adesso – allora accendevano il fuoco “ strofinando l’acciarino contro la
polvere del legno secco”. Se non è roba dell’immaginifico Zappone. Che fu famoso
internazionalmente per le storie del pesce spada che si suicida per amore, e di
Bobby, il cucciolo che attraversa lo Stretto a nuoto per tornare dal padrone,
che lo aveva abbandonato a Messina per non poter pagare la tassa comunale sui
cani. Il pesce spada invece si era lasciato morire spiaggiato alla Tonnara di
Palmi per seguire la compagna morta arpionata. Non vere, ma “vere”.
Una
Calabria reinventata. Con molte curiosità. Pentedattilo com’era. Il sensale di matrimoni.
Garibaldi che sempre sbarca a Melito, il 19 agosto 1860 dalla Sicilia, e il 25
agosto 1862 fatale per i suoi disegni risorgimentali. Il vento “terrano”. La
marasca, la varietà di ciliegia – da cui a Zara fanno, o facevano, il
maraschino. Una speciale¸salamoia per le olive. I riti e i miti di Polsi – prima
del sanitarizzazione, a fine Novecento: balli tumultosi, salve di doppiette in
continuazione, e molti capretti sacrificati. E soprattutto Pavese a Brancaleone,
con i ricordi dei “ragazzi” – in realtà quasi tutti suoi coetanei – a cui si
prestava per passatempo a dare lezioni di inglese.
Fanno
racconto pure le note del curatore, per quanto brevi. L’“altro” Sciascia di due – fra le tante - lettere a Zappone. Un articolo disperso di Alvaro, “La
fibbia”. Le sue due poesiole del 1914, anche queste disperse, pubblicate a
Catanzaro, su “Il nuovo birichino calabrese”. La “”banda pelosa”, di strumenti
tradizionali (zampogna, tamburo, piffero di canna, triangolo) suonati da
pastori, caprai, pecorai, vestiti di tela grezza e calzati di “calandrelle”, calzature
di pelle grezza, col pelo. La “discesa” a Polsi da Carmelia.
Domenico
Zappone, Il pane della Sibilla,
Rubbettino, pp. 142 € 12
lunedì 14 ottobre 2024
Sovranismo europeo
Fitto,
il vice-presidente della Commissione di Bruxelles con la delega alla Coesione e
alle Riforme, ha specificamente, nella “lettera di missione” ricevuta dalla
presidente von der Leyen, l’incarico di analizzare e realizzare in particolare
il rapporto Draghi sulla competìtività. Un piano, come si sa, per rilanciare
l’Europa nei mercati e nella politica mondiali. È in questo incarico che si situa
l’invito di Meloni allo stesso Draghi a palazzo Chigi all’indomani della
lettera di nomina di Fitto. Che a palazzo Chigi si dice sia stata chiesta con
quelle specifiche dalla stessa presidente del consiglio con la presidente della
Commissione.
Meloni,
come è noto, si rifiuta di far passare il Consiglio Europeo (il governo
europeo) dal principio dell’unanimità a quello della maggioranza. Di favorire cioè
una governabilità europea, al di sopra delle suscettibilità nazionali. E
questo la differenzia da Draghi. Ma per ogni altro aspetto si troverebbe sulla
stessa lunghezza d’onda. Il debito comune. La transizione verde pragmatica. Il
controllo dell’immigrazione. L’atlantismo riaffermato e il sostegno all’Ucraina.
Von der Leyen guarda a destra
L’euroatlantismo sposta da subito l’orientamento
politico della nuova Comissione di Bruxelles. Von der Leyen è stata
riconfermata da una maggioranza di centro-sinistra. Ma nella composizione del
suo nuovo esecutivo ha spostato i pesi a destra. Per un programma politico che,
teoricamente, troverà più risposte positive a destra che a sinistra. Ai primi posti
l’immigrazione e la transizione ecologica, con freni per l’una e per l’alra. Ma
soprattutto il crinale già si pone nella politica estera, sulla guerra inUcraina.
L’opzione
euro atlantica, col sostengo a Kiev senza condizioni, è dirimente. E qui l’esecutivo
trova appoggi più a destra che fra i Verdi e su altri partiti che hanno portato
alla riconferma di von der Leyen . i 5 Stelle fra essi e anche il Pd.
Il
tema consente anche alla Commssione di isolare Orbàn e i pochi altri filorussi.
Dividendo la destra, e asummendosene una buona parte.
Immigrazione sì, ma scelta
Finito nel porto delle
nebbie per la parte finanziaria, che era la più promettente (l’Europa hub di capitali, sul modello Usa, co l’emissione
di treasury Ue, di titoli europei, di
una sorta di Tesoro europeo), il Rapporto Draghi tiene banco, a Bruxelles e nei paesi membri, per la parte immigrazione.
È anche la parte
del Rapporto più scontata. La popolazione europea in età di lavoro, calcola Draghi,
con gli indirizzi demografici attuali, si ridurrà di 41 milioni in meno di mezzo
secolo, al 2070 – un calo del 15 per cento abbondante. Con tutta l’immigrazione
prevedibile in base ai flussi storici. Senza gli immigrati – quella quota di immigrati
di cui le economie europee hanno bisogno e che hanno la capacità di integrare –
il deficit demografico a mezzo secolo data si allargherebbe di altri 46
milioni.
All’orizzonte del mezzo
secolo, 2020, l’Europa si troverebbe con un centinaio di milioni di persone in
meno. Ma già oggi molte imprese “stanno affrontando significative carenze di
competenze. Non riuscendo a “trovare o ad attrarre” le competenze di cui hanno
bisogno.
Da qui la necessità
di una politica attiva dell’immigrazione, selettiva. Che è la carta da visita
internazionale di Meloni e il suo governo. E di von der Leyen, che su questo terreno
ha da tempo un’intesa con Meloni. Ma ora è un’esigenza anche della Germania.
Nostalgia del padre
In cinque episodi, Francesca bambina e “Pinocchio” (la balena divoratrice e il film), Francesca adolescente, contestatrice e perduta, l’esilio forzato a Parigi col padre e il recupero, Francesca regista come il padre, da lui assistita, e la fine di un padre infine amato che s’invola nel cielo di Venezia. Un corpo a corpo di Francesca col padre, loro due soli, isolati dalla madre, dalla famiglia, dal contesto (se non per alcune scene dei terribili anni Settanta, di droghe mentali e materiali). Nella nostalgia - nostalgia del padre, chi lo avrebbe detto, del padre-padre, paterno.
Una
storia personale, dapprima idilliaca poi drammatica. Come un risarcimento, al
padre, e una liberazione. Tutta sulle espressioni di Francesca nelle sue due
età, la bambina Elena Mangiocavallo, e Romana Maggiora Vergano. E di Fabrizio
Gifuni, sempre misurato nel ruolo di padre accudente. Giocata con esperienza,
scena dopo scena – poche le sbavature al montaggio.
Una
curiosità, che disturba ma non molto, è Gifuni che rinvia inevitabile all’Aldo
Moro di Bellocchio, il produttore del film. Nelle sonorotià e nelle
figurazioni, la taglia inevitabile, ma anche i primi piani di sbeico, lo sguardo
ironico, la calma inflessibile, da pressione bassa, e da decenni di sgambetti
politici. Mentre Comencini, narratore faceto, in una famiglia di tutte donne,
cosmopolita e poliglotta, molto attivo nell’industria e nell’estetica del
cinema, s’immagina meno posato e più come-tutti. E sempre molto attivo, molto
fuori, socievole, “inventore” della commedia all’italiana, con una cinquantina
di film all’attivo e una decina di serie tv, im quarantì’anni di vita attiva.
Francesca
Comencini, Il tempo che ci vuole
domenica 13 ottobre 2024
Ombre - 741
Il
quotidiano israeliano “Haaretz” documenta abusi militari di Israele a Gaza e in
Cisgiordania. A Gaza col “piano dei
generali”, di fare terra bruciata nella fascia settentrionale, bombardando
anche i campi profughi. In Cisgiordania con “fattorie illegali” di tipo nuovo,
campi di rieducazione per minori variamente condannati, il cui compito è
angariare i palestinesi - “il governo Netanyahu non solo permette il terrore
ebraico in Cisgiordania, ma lo finanzia”. Ma di questo si sa da “Haaretz”, che si pubblica anche in inglese, non dai tanti
inviati e corrispondenti italiani. Unica eccezione oggi “Il Sole 24 Ore” – e la “Gazzetta del
Sud”.
Dei
26,38 miliardi di aiuti a Israele stanziati dal Congresso americano il 20 aprile,
9,2 erano destinati a “scopi umanitari, anche nella Striscia di Gaza e nella
Cisgiordania occupata”. Il Congresso “ciurla nel manico”, o imbroglia se
stesso?
Elkann
ha venduto la Fiat a Peugeot (Stellantis). Che produce sempre meno auto in
Italia perché il lavoro in Italia è caro. È l’effetto di una politica sindacale
sbagliata – in Italia si possono fare automobili solo nel segmento lusso e
corse, in Germania, dove il metalmeccanico non è meno protetto dell’italiano e
anzi guadagna di più, si fanno anche la utilitarie. Ma Salvini e Orsini,da
destra, fanno della politica aziendale di Stellantis - pena la scomparsa - un
caso di lesa nazione. Un doppio fronte perdente - una doppia stupidità?
Le
piccole e medie imprese versano al fisco una cifra 120 volte superiore a quella
versata dai “giganti del web” con sede in Italia – per
la parte di attività italiana. Solo le Entrate non se ne sono accorte? L’evasione
è soprattutto un problema di organizzazione – le norme non mancherebbero.
Negli
ultimi 150 giorni 28 sbarchi a Roccella, uno ogni cinque giorni – ma negli ultimi
venti giorni il ritmo si è intensificato: sette sbarchi. Di un
centinaio di persone a sbarco – con molti nuclei familiari, e molti, una ventina
a sbarco, di minori soli. Non un traffico eccezionale, ma è la “rotta turca”, organizzato
dalla Turchia. Da un paese cioè che è pagato dall’Unione Europea per cifre
enormi, altro che Albania, per controllare il mercato dei clandestini. E dove i
controlli di polizia sono minuti, e duri – qualunque turista lo sa.
Paul
Biya, 91 anni, uno dei due presidenti che il Camerun ha avuto
dall’indipendenza, dal 1960, negli ultimi anni “ha vissuto spesso in hotel di lusso
a Ginevra”. E ora “non si fa vedere da un mese”. Sarà morto? I “successori” si fanno
la lotta? Ma è normale in Africa, il ludibrio del politico: nessun paese, nemmeno il Sud Africa, ha un
regime politico – un regime democratico.
Non
si può parlare male dell’Unifil, quindi dell’Onu. Ma ogni guerra ne rileva
l’irrilevanza. L’Unifil schiera 12 mila uomini, di 50 paesi diversi. Poiché
l’Italia ne schiera mille, restano 11 mila uomini di 49 paesi diversi. Per una
missione-vacanza “estrema”?
E
cosa ha fatto l’Onu dal 1967, dall’annessione della Cisgiordania, ha sanzionato
Israele?
Un
anno di guerra, per distruggere Gaza, 360 kmq, un decimo della provincia di
Frosinone, senza liberare gli ostaggi, e senza distruggere il nemico Hamas. Ora
il Libano – non il Sud, non la frontiera o il Litani: Beirut è bombardata ogni
giorno. Per fare che? La guerra per la guerra, la vendetta.
Lo
scandalo del ragioniere pugliese che collezionava informazioni sui conti correnti
può essere come lui dice, per curiosità. Lo scandalo non è “per che” e “per chi”,
ma che lo abbia potuto fare. A Banca Intesa si “lavora” così? Tutto il giorno? Settemila
intromissioni richiedono molte ore, moltissime. Lo faceva da casa? Con gli strumenti
della banca? Lo faceva dalla banca? Non aveva altro da fare? E soprattutto:
siamo tutti nudi in rete - il ragionier Coviello non è un hacker, uno speciale manipolatore della rete?
L’incursione
del ragionier Coviello è per passatempo, come lui sostiene. Se i famosi sono 77
in tutto - gli altri settemila sono correntisti anonimi, compresi parenti,
amici e conoscenti. “L’allarme per gli investigatori è scattato”, spiega
Bianconi, “soprattutto quando sono emersi gli accessi relativi al ministro
Crosetto e alla moglie”. Cioè quando i Carabinieri sono arrivati al loro ministro
– i Carabinieri sono militari.
Schlein
propone la patrimoniale, e accusa Meloni di aumentare le tasse – per tre o quattro
centesimi sul gasolio da trazione. Non si sa che pensare: voleva alzare una palla
facile alla presidente del consiglio?
Schlein
parla di patrimoniale come di “tassa sui ricchi”. Non sa che in Italia si applicherebbe
a tutti, gli italiani risparmiano in beni tangibili, mobili e immobili. È la sola,
forse – è proprio “svizzera”, educata in una scuola svizzera, quale si usa(va)
nelle buone famiglie, si direbbe una extraterrestre.
S’è
arrabbiato perfino il cardinale del Vicariato: per rifare un marciapiedi cantiere
di mesi. Cantiere di anni per rifare una strada, e quando si riapre alla prima
pioggia si riempie di pozzanghere. È perfino offensiva la corruzione a Roma in
appalti – o solo più visibile, per i ricorrenti “eventi speciali”? Lautamente finanziati, questi, dal governo: costi esorbitanti e nessun controllo. Un problema che non è solo di
Roma: come è possibile che gli appalti pubblici siano così costosi, e raramente
a regola d’arte?
Singolare
il pronunciamiento di Todde, la presidente della Regione Sardegna,
contro Grillo, cui deve la sua “esistenza in vita” politica, col premio della presidenza,
seppure per pochi voti: “Beppe fa il comico”, per dire di Grillo. Uno che non
capisce nulla di politica, intende.
La storia della vittoria non è onorevole
Gorla, periferia estrema di Milano (lo è ancora oggi), ricorda il 20 ottobre 1944, quado le bombe alleate sulla scuola uccisero 184 bambini, tra i 4 e gli 11 anni, 15 insegnanti e 4 bidelli. Lo ricorda in tono minore, ma la storia della guerra va ancora fatta.
Crimine
contro l’umanità è certamente Hiroshima – che si ricorda col Nobel, ma senza
condannare l’attacco. E lo sono i bombardamenti delle popolazioni, comprese le
scuole e gli ospedali, a scopo intimidatorio – il “piano dei generali” israeliani
non è una novità.
La
guerra aerea non è onorevole – e non fa vincere. I bombardamenti non sono
leali, prendono chi prendono - già con l’artiglieria, peggio con i bombardieri.
Non ci sono bombe “di precisione” -l’“Enola Gay” girò un’ora su Hiroshima, non
la trovava. Ma ci sono strategie, e queste non sono un caso. Gli Stati Uniti
hanno sganciato sul Vietnam del Nord, grande quanto il New England, la loro regione
più piccole, più bombe d’aereo che su tutta la Germania, l’Italia, il Giappone
e la Corea messe assieme.
Il
generale americano CurtisLeMay, che nel Pacifico teorizzò e utilizzò le bombe incendiarie,
la sua “dottrina” diceva “omicida”, diretta contro le persone più che contro gli
obiettivi bellici - il suo allora sergente George Wallace lo avrebbe voluto nel
1968 suo vice nella corsa alla candidatura alle presidenziali. Ma LeMay si tenne
convenientemente alla larga. La sua dottrina era che “non ci sono civili innocenti”. In
sei mesi in Giappone distrusse 64 città con le bombe incendiarie, “missioni”
facili perché le case erano prevalentemente in legno, e Hiroshima e Nagasaki,
che erano in cemento, con l’atomica, un
milione di morti. Mentre professava: “Se non vinciamo saremo criminali di guerra”
– i grandi criminali sono-fanno i cinici.