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giovedì 17 ottobre 2024

Leso Berlinguer

Spari, non a salve, contro il ministro della Cultura Giuli, reo di non avere presenziato alla prima dell’(ennesimo) “Berlinguer”, alla Festa del Cinema di Roma. Il “Corriere della sera” ci fa una pagina. Di Elly Schlein non si parla, che se l’è filata adducendo riunioni internazionali. Cannoni puntati invece sul ministro, che giustitica, pare, l’assenza col ritardo del volo – tornava, pare, da Francoforte. È un giornalismo un po’ così.
Ora, il ministro sarà “marinettiano” come lo vuole Ronconi nel paginone critico, ma è difficile fare un eroe nazionale di Berlinguer. Come invece fa sempre il “Corriere della sera” con una recensione incensatoria di Mereghetti, da film capolavoro, da quattro o cinque stelle – povero Paolo, quantum mutatus… Di un personaggio sicuramente onesto ma modesto, così poco tragico in sé, più sul burocratico. E così divisivo politicamente, da Moro a Craxi, lo spaccasinistre quando si apriva una prateria per una fortissima socialdemocrazia in Italia, il solo Paese in Occidente che non ne ha una – unico interlocutore ha privilegiato  Andreotti…. (che lo ha fregato, nelle borgate). Ultimo integralista in un mondo – povero Bobbio – “pluralista”. Uno che col “compromesso storico” pensava di catturare i “cattolici”, che invece lo hanno stritolato, in vita e dopo morto (di veda la storia del Pd, voti comunisti a trazione democristiana, appalti compresi).
P.S. Più sobria curiosamente – guardinga? – “la Republbica”, l’altro campione nazionale del giornalismo, solitamente molto agguerrita per ciò che concerne il governo Meloni. Dà notizia di Schein assente. Non processa Giuli ritardatario. E sul film fa ben due pagine, ma senza osannarlo, limitandosi a lunghi sproloqui di autori e interpreti – un’intervista non si nega a nessuno.

Povera Sicilia, e ritardata

Trentatré “storie di vita”, selezionate per la pubblicazione, su suggerimento di Italo Calvino, dal sociologo triestino trapiantato in Sicilia tra il 1952 e il 1960, che le aveva trascritte. “Alcuni racconti”, nelle parole dello stesso Dolci alla prima edizione nel 1963, “che ho raccolto dal 1952 al 1960 tra la povera gente di quella parte della Sicilia in cui operiamo”, fra Trapani e Palermo, a Trappeto e Partinico. In una “nuova edizione accresciuta”, annuncia l’editore (ma senza spiegare come), con un’introduzione del pedagogista Franco Lorenzoni, e una nota su Dolci, “il Gandhi italiano”, e la sua “avventura” in Sicilia, dello storico Giuseppe Barone.
Storie “in assenza di giudizio”, nota il prefatore Franco Lorenzoni, e “un esempio particolarmente riuscito di storia orale”. In realtà il giudizio è già nella scelta del soggetto, della speciale testimonianza, cioè di un punto di vista, e nella trascrizione – è il problema della storia orale, una pre-scelta. E i racconti sono di povertà e arretratezza.
“Un documento di un passato prossimo inverosimile” premette l’editore.  Un documento storico? Non ne ha l’impianto. L’intenzione è di “documentare” una situazione di degrado estremo. I racconti sono di personaggi e situazioni borderline. Anche dove la situazione è storicizzata: il feudo, la mezzadria, le leggi Gullo non applicate, sulla redistibuzione del reddito in mezzadria, i Carabinieri schierati dalla parte dei padroni - si tende a riabilitare Scelba come quello, ministro e presidente del consiglio, che fiaccò la deriva sovietica dell’Italia, ma fu anche quello della polizia che spara ai cafoni (lo farà fino al 1968, sembra strano che lo facesse in pieno centro-sinistra, che aveva debuttato nel 1963 con la proposta di disarmo della Polizia nelle manifestazioni, ma lo fece, con i morti di Avola - negli stessi vigneti su cui poi, finito il “feudo”, si è impiantato il Nero d’Avola di tanto sucesso). E l’autonarraziome, minuta, dettaglista, divagante, ripetitiva, per pagine  e pagine, di persone sempre dalla parte del giusto, per le violenze giudiziarie, domestiche, sanitarie,  padronali, ecetera, ma per qualche motivo semrpe estreme, tolgono il fiato – e la voglia.
Motivo principale dell’impressione di trovarsi in racconti in realtà monotematici, e di casi limite, è dato dallo stesso impianto delle narrazioni. Divaganti ma ripetitive –pochi racconti sono sintetici, chi parla tende a divagare e ripetersi. Oltre che dalla scelta dei casi più oltraggiosi, l’uno dietro l’altro, senza mai un intervallo. Si comincia col carcere, “Vincenzo”, di un abigeatario presumibilmente, che si racconta con storie da pìcaro ma di buona coscienza. interminabilmente. “Rosario” vive di verdure selvatiche, che raccatta dove può: sa trattarle, e ci guadagna, anche se non abbastanza per sopravvivere. Pii c’è chi vive applocandl mignatte, “La patata”. “Santo” è uno che, sapendo un po’ leggere, scopre dai manifesti che la legge Gullo dà ai mezzadri la parte maggiore del raccolto, e se ne fa una bandiera. “Gaspare” esemplifica le angherie cui si deve sotttoporre il povero bisognoso di cure. “Ciolino”, figlio di emigrati di ritorno, non riesce a quadrare la sua vita. “Nonna Nedda” argomenta se e quando è giusto litigare col marito, picchirlo ol farsene picchiare. C’è anche l’esproprio per fare la diga, “Zu Felice”. E pochi sono brevi – fulmineo esordisce il nettubino di Palermo: “Come bellezza è bellissima ma sudicia è”.
Non grandi avventure. C’è molto sindacalismo. E un principio di ambientalismo: il pescatore di frodo con le “bombe”, “Antonio”, ha la coscienza di distruggere più, molto di più, di quanto ne ricava. “L’unico ritratto non autobiografico è quello di Placido Rizzotto”, avverte il prefatore, “perché il segretario della Camera del Lavoro di Corleone fu ammazzato dalla mafia nel 1948”: lo racconta un amico, “L’amico di Placido” (che potrebbe essere lo stesso Dolci, perché no), e allora non ci sono geremiadi, ma un caso sindacale e politco.
Di altro stampo gli ultimi racconti. Salvatore Vilardo fa, sessant’anni fa, la sociologia dello stadio, del tifo come “coscienza” comune – di cui si comincerà a parlare molto più tardi, dopo la famosa Ialia-Germania 4-3, quando la gente passò la notte in piazza - più e meglio di “Santa Rosalia”, la grande festa per la santa di Palermo, che lascia tutto sporco, e c’è anche “una coscienza ippica elevagtissima”, e una ciclistica. Un indimenticabile “Cavalier Volpe”, infaticabile e riuscito creatore di cooperative, sin da 1919, già senatore a vita del Duce, di cui è sempre ammiratore, e ora protagonista del movimento cooperativo della Repbblica. L’incredibile “Onorevole Calò”, onorevole Dc, pedagogista principe prima e dopo la guerra, anche lui infaticabile e irresistibile creatore di cooperative, nonché gestore dei sussidi, che spiega come la politica è ridotta ai favori, e tutto, tutto è “arretrato”. L’“economia latifondistica” correttamente spiegando non come vincolo esclusivo coercitivo ma come mentalità – lo spiegava già sessanta, settant’anni fa, mentre tuttora sociologi e storici si attardano sul “latifondo” al Sud: la campagna siciliana “ha una base comune che si chiama arreratezza, con tipo di economia latifondistica, non come estensione del latifondo ma come indirizzo agricolo, monoculturale, povero, senza irrigazione dove pure ce n’è la possibilità, con poche conoscenze di concimazione ecetera”: Si finisce con una principessa, Sonia Alliata di Salaparuta –“nella campaga non vive non vive più nessuno dell’aristocrazia, solo io o la principessa Paternò” – sul buon tempo antico, in cui i contadini erano familiari.
La riproposta è però sorprendente in quanto fa riscoprire Dolci, oggi dimenticato. Un uomo che da solo riuscì a creare una sorta di movimento di liberazione  siciliano. Premio Lenin già nel 1956, un anno dopo la pubblicazione della sua prima testimonianza, “Banditi a Partinico”. Mobilitatore di molte energie – Goffredo Fofi gli si aggregò a 18 anni - e di una larga opinione europea. Testimone anche del rischio, da lui avviato, di fare della mafia il Sud, piuttosto che un’attività - e forse una organizzazione (ma gli assassinii sono per lo più tra malviventi - criminale. “Il 22 settembre 1965”, ricorda Barone, “nel corso di un’affollata conferenza stampa successiva a un’audizione della Commissione antimafia, Dolci denuncia per collusione con la criminalità organizzata il ministro del Commercio con l’Estero Bernardo Mattarella, il sottosegretario alla Sanità Calogero Volpe, il senatore Girolamo Messeri e numerosi notabili siciliani”. Mattarella e Volpe si querelarono e Dolci fu condannato. Messeri non risulta condannato e nemmeno indagato. Volpe fu deputato alla Costituente e per sette legislature, cioè fino al 1979. Di Mattarella la memoria è stata curata dalla famiglia, i figli Piersanti, presidente della Regione Sicilia, assassinato dalla mafia, e Sergio, e dai nipoti: a vent’anni con don Sturzo, segretario di sezione dei Popolari a Castellamare di Stabia, partecipe delle riunioni clandestine con De Gasperi a Roma a partire dal 1942, sottosegretario dei due governi del Cln presieduti da Bonomi, vice-segretario della neo-costituita Dc, con Dossetti e Piccioni, deputato della Costituente, ministro di molti governi a partire dal 1953.  
Danilo Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, pp. 435 €15

mercoledì 16 ottobre 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (574))

Giuseppe Leuzzi
 
La definzione dei Lep, “livelli essenziali delle prestazioni”, centrali nella nuova legge ipearutonomista – la ri-definizione dei Lep, che sono in Costituzione già da una ventina di anni - i leghisti elegantemente assegnano a una ipereleghista, Elena D’Orlando. Una giurista, che ha lavorato per Zaia e Calderoli. L’eleganza della Lega non sorprende, si divora anche le briciole, ma com’è che questo governo si regge sui voti del Sud?
 
I treni che si fermano per il chiodo nel filo riportano dritto al brigante Musolino, che finita la latitanza per avere inciampato, braccato dai Carabinieri, in un filo avrebbe eslamato: “Malidittu chillu filu” – o avrebbe avuto tempo di dirlo dopo l’arresto, o di raccontarlo ai compagni di carcere. È l’Italia che è diventata meridionale,calabrese, aspromontana? O è l’Italia dei fili?
 
Va al Sud il record delle tv locali, secondo il censimento AerAnti-Corallo, anche se il mercato pubblicitario vi è ristretto, per non dire irrisorio. Delle 254 emittenti locali censite, 115 sono al Sud, 59 al Centro e 80 al Nord. La Lombardia ne ha 27, la Campania 31, la Sicilia 34.  
Sul totale dei ricavi, 189 milioni, meno di un milione a emittente, due terzi vanno al Nord, 124, e solo 35 al Meridione, quindi un quarto di milione per ogni emittente. Di che vivono allora tutte queste tv? Degli “altri ricavi e proventi”: i contributi pubblici e il mercato delle frequenze – che sono anch’esse pubbliche. Gli “altri ricavi” rendono di più,  264 milioni. Un mercato, insomma, sempre di sussidi. Che nturalmengte vanno soprattutto al Nord, per più della metà, 147 milioni. Al Sud ne vanno 87, e questo basta – sono più del doppio dei ricavi industriali,
 
Pavese calabrese – più che un caso (5)
Su Pavese a Brancaleone molto è stato raccolto, con un paio di testimonianze anche di prima mano, da Domenico Zappone, lo scrittore calabrese, in un reportage sulla “Gazzetta del Sud” l’1 agosto 1958. Molto che richiama “Il carcere”, la novella del confino, ma molto anche di prima mano.
Il paese era nel 1958 come ai tempi di Pavese venti anni prima – oggi è un centro turistico marino: “Una lunga strada parallela alla spiaggia fiancheggiata di basse case tutte stinte, corrose dalla salsedine, anonime e precarie così come si legge ne ‘Il carcere’”. Di Pavese non c’è nessun ricordo. I vecchi in piazza ci provano, ma il nome non dice loro nulla né la condizione – “i confinati erano tanti”. Il maresciallo dei Carabinieri che lo controllava, Mariano Riccioppo, “è morto da tempo. Sono morti il suo padrone di casa e alcuni dei suoi allievi (Pavese passava alcune ore della mattina insegnando a una mezza dozzina di ragazzi, nella sua stessa camera-abitazione, n.d.r.). Le lettere che scrisse agli amici sono state perdute”. Ma due suoi scolari – ragazzi in età, che furono anche suoi amici all’osteria (ce n’è traccia ne “Il carcere”) sono vivi e ricordano bene. Oreste Politi, “che oggi fa l’impresario edile”, mantenne i contatti fino al ferale 1950: “«La tua cassetta natalizia mi ha ricordato i giorni e gli odori di Brancaleone» mi scriveva nel gennaio del 1950, e prometteva un suo ritorno per l’estate per studiare da vicino questa parte della Calabria, certo la più povera e la più negletta. Diceva di volere arrivare fino a Africo, a Chorìo e a Roghudi per ambientarvi un racconto. «Voglio farmi una mangiata di lumache e svuotare una bottiglia di vino greco» scriveva ancora, ed era il giugno dello stesso anno.Prometteva che sarebbe venuto ai primi di settembre”.
Politi lo ricorda “di una compostezza sconcertante” quando insegnava, “non sorrideva né scherzava mai”. Fuori invece s’intratteneva volentieri, “si divertiva alla nostra spensieratezza, ai nostri bizzarri umori di ragazzi”. Erano peraltro allievi già adulti: “Con Domenico Mangraviti e Angelo Palermiti fui tra i suoi primissimi allievi”, continua Politi: “C’era con noi anche la figlia del maresciallo, ma a questa dava lezioni in caserma”. Le lezioni erano di lettere e lingue straniere – un modo per passare il tempo, dice Politi, e per raggranellare qualcosa: “Noi ci mettevamo seduti sulle tavole del letto, mentre lui occupava l’unica sedia”.
Con Politi il legame fu stabile nei mesi del confino: “Noi due eravamo coetanei e delle stesse idee politiche”, e “impiegammo ben poco a simpatizzare, per quanto avesse un carattere  tutt’altro che facile”. Evitava gli altri confinati, ma non la politica. Polemizzava coi fascisti, “senza ac
redine”, ma “a volte s’accendeva in viso e gesticolava”.

Pietro Spinella, altro allievo e amico, ricorda che divenne “professore” in paese per automatismo: “Non già per la posizione di confinato e per gli occhiali spessi, cerchiati di tartaruga, massicci, che lo facevano decisamente uomo di studi, quanto per quel suo fumare la pipa, pur essendo così giovane. Ai nostri paesi fumano la pipa soltanto i vecchi, che, pertanto, sono considerati saggi”.
Politi lo ricorda socievole, ma malinconico. “A mezzogiorno andava all’osteria di Giovanni Bello…. Naturalmente con la pipa in bocca. Era di una frugalità spartana. Cortese con tutti, pure evitava di intavolare discorsi con la gente” – ne “Il carcere”, invece , all’osteria incontra gente, soprattutto giovani, che lo interessano. Faceva il bagno il pomeriggio, “essendo a quell’ora la spiaggia quasi deserta”. Faceva lunghe escursioni nei dintorni, talvolta in bicicletta: “Quasi sempre lo accompagnavamo noi ragazzi, facevamo gare spassosissime di velocità, noi a piedi e lui in bicicletta”. Spensierato (“felice”) lo ricorda una sola volta, alla “Festa del riposo”. Una festa inventata dal medico di Brancaleone, il dottor Vincenzo De Angelis, “antifascista irriducibile”, quando Mussolini abolì il Primo Maggio, la Festa del lavoro. Il medico allora fece una festa “sul cocuzzolo del paese vecchio” – un posto che anche Pavese ricorda, dove c’era un confinato molto impegnato politicamente, che lui evitava – e la chiamò Festa del riposo: “Distribuì centinaia di fischietti, i cui sibili implicitamente erano diretti al fascismo”, e vino a fiumi. “Pavese fischiò con gli altri e fu contento”, racconta Politi: “Rientrato a casa, confessò di avere trascorso un giorno bellissimo”.
Scriveva anche. Secondo Politi “traduceva senza pentimenti e senza vocabolari, riempiendo  dozzine di quadernetti da due soldi che poi legava in volume”. A proposito dei quali ha un Pavese anche cospiratore: “Una volta ne fece recapitare uno a Torino per mezzo di un allievo”, che evidentemente partiva per Torino, “a una sua amica”. Raccomandando al ragazzo: “Non andare da mia sorella, non dire il tuo nome, né chi sei, dici solo che vieni da Brancaleone e nulla più”. E perché si ricordasse l’indirizzo dell’amica glielo crittografò: “Segnò come errori, in blu, certe parole di un compito, avendo cura che le iniziali, lette di seguito”, fornissero l’indirizzo, e “quanto al numero civico, segnò le ultime due cifre dell’anno di nascita di Napoleone”.
Zappone è un narratore, più che un reporter, quindi come testimone a volte è inattendibile. Ma i nomi che menziona, cinque o sei, sono reali – e leggevano la “Gazzetta del Sud”, un quotidiano allora molto diffuso. E non tutte le circostanze da lui registrate poteva trovarle ne “Il carcere”.
  
Primi in classifica, della povertà
Il Sud cresce di più del dato Italia, il Sud esporta di più (aumenta di più le esportazioni in un anno, in realtà esporta sempre poco e pochissimo), il Sud è “ripartito”. Poi arriva il Rapporto Eurostat 2024 e certifica che nel 2023 il Sud Italia è stato tra le aree dell’Unione europea con il più alto tasso di persone a rischio povertà o esclusione sociale. Con eccezioni, ma il dato complessivo è quello.
Peggio: l’ufficio statistico europeo assegna alla Calabria la palma di regione in Europa a più alto rischio di povertà o di esclusione sociale. Veramente l’ultimissima, col 49,5 per cento di indigenza, uno su due, è la Guyana francese, un “territorio” tra Brasile e Suriname, quello della Cayenna, ma conta solo 300 mila persone. La Calabria in realtà non è da meno, anch’essa ha un povero su due, seppure con una percentuale leggermente minore, il 48,6 per cento.
Il Sud si può dire non sfigura, in questa classifica della povertà potenziale. Nel 2023, attesta il rapporto sulle condizioni di vita in Europa dell’Ufficio statistico dell’Ue, la quota di persone a rischio di povertà o esclusione sociale più elevata, di almeno il 35,0 per cento, è stata rilevata in 19 regioni dell’Unione. Tre di queste sono del Sud Italia – del Sud di uno dei Sette Grandi dell’Occidente: la Calabria è seguita dalla Campania, col 44,4 per cento, e dalla Sicilia, col 41,4. Poco sotto la linea di guardia la Sardegna (32,9 per cento), la Puglia (32,2 per cento) e l’Abruzzo (28,6).
Per converso Eurostat attesta che delle cinque regioni europee più ricche ben due sono italiane, dell’Italia settentrionale: l’Emilia Romagna, con appena il 7,4 per cento di povertà potenziale, e la provincia di Bolzano col 5,8.
 
Basta poco
Alla ricerca di Corrado Alvaro nei suoi luoghi natii, negli anni 1960-1970, lo scrittore Domenico Zappone (“Il pane della Sibilla”) si imbatte in un problema: il legame costante nelle narrative dello scrittore col luogo natale, dal quale però si separò presto e al quale non tornò mai, se non in morte del padre. Un retaggio “naturale”? “Di questo paese povero di risorse e ricco di fantasie, incuneato in un angolo angusto di montagna…..per un dono divino, assommati in sé miti, fantasie e leggende della sua gente, ne ha fatto parlare gli abitanti come antichi eroi”. Più facile arguire che Alvaro, scrittore realista di grande fantasia, collocasse le sue creazioni in un luogo a lui noto ma remoto – San Luca e dintorni, lo Jonio, la Montagna come location, si direbbe oggi.
Zappone se ne dà un’altra ragione, da cronista che riferisce le cose, anche questa per altra ragione persuasiva: “Si badi alla leggiadria dei nomi delle valli, delle grotte, e dei monti, al paesaggio sconvolto e popolato di enigmi pietrificati, disseminato di spaventosi macigni affioranti dalle creste come vestigia di mostri, si ponga mente alle fantasiose leggende di cui sopra si parla, agli eroi che vi passarono, al Cristo di cui si dice come di persona conosciuta dai padri, all’esodo delle popolazioni, ed ecco in parte spiegati molti caratteri magici dell’arte di Alvaro”. Stiamo parlando di San Luca, il posto rude di “Gente in Aspromonte”, il pozzo senza fondo dei rapimenti di persona e della mafia della droga. E del “discorso della mafia”. Basta poco per cambiare la “natura” delle cose. Soprattutto parlandone –le parole non costano, anche se sono un’arma pericolosa: nei cinema, nelle televisioni, nelle carriere dei giudici – non c’è altra realtà che la parola che la dice.
“Qui tutto è bello e gentile”, può insistere lo stesso Zappone in altra occasione, parliamo sempre del temibilissimo San Luca: “I nomi delle grotte, ad esempio, sono fra i più graziosi: ce n’è una che è detta di «Sant’Anastasia», un’altra dei «Colombi», un’altra della «Sibilla». Suggestivi quelli delle valli; della «Castanìa», degli «Oleandri». Strani i nomi delle pietre («prache»): «Pietra Longa», «Pietra di Febo «Pietra Cappa», «di Mariantonia», dell’«Aquila», ed hanno forma di torri, di castelli, di fiori…”

leuzzi@antiit.eu

L’occhio fa il pittore

Un’antologia di citazioni del pittore e scenografo inglese, molto pop art e molto gay, oggi poco meno che novantenne. Sugli argomenti più diversi. Casuali, come da conversazione – l’editore la dice “una sorta di biografia intellettuale in formato mignon”.
Detti e contradetti, esumati da scritti, o raccolti nel tempo, dal critico Martin Gayford – altri, online, sono stati raccolti da Sarah Ransome. Sull’arte prevalentemente: la pittura, la luce, i pittori. E sui grandi temi: la vita, la morte.
“L’arte ci aiuta a vedere da almeno trentamila anni”. L’arte aiuta a “vedere”, a capire, ma “non c’è mai una visione oggettiva, mai”. Tutto è immagine:  “L’educazione visiva viene considerata irrilevante, ma tutto quello che vediamo intorno a noi influenza ogni aspetto della nostra vita”. “Bisogna programmare di essere spontanei”. “Ci vuole tempo per farla semplice”. O “ci vogliono anni per esere spontanei”. “È il presente a essere eterno. Bisogna essere nel qui e ora”. “L’occhio è in continuo movimento; se non si muove sei morto”. “Sono sempre stato un guardone…. è quello che gli artisti fanno”. Di Caravaggio, Cézanne, Walt Disney soprattutto.
Molto illustrate dalle sue opere, le citazioni sono raggruppate tematicamente: Hockney e Hockney… una volta, Hockney e la vita, Hockney e l’arte, Hockney e l’ispirazione, Hockney e la creazione artistica, Hockney e la natura, Hockney e la fotografia, Hockney e la tecnologia, Hockney e Hockney… oggi.
David Hockney,
I miei occhi sul mondo, Johan and Levi, pp. 176, ill. € 20
 

martedì 15 ottobre 2024

Problemi di base di verità - 825

spock

Viviamo d’impressioni e immagini, che chiamiamo realtà?
 
L’errore implica la verità?
 
Errare humanun est, cioè solo dell’uomo?
 
Ma se anche Dio ha sbagliato – unde malum?
 
E la verità della Bibbia, è cristiana oppure ebraica?
 
L’errore è il complemento della verità, l’imperfezione della perfezione, etc…: si va “per tentativi ed errori”, ma poi come si giunge in fondo?
 
Non c’è altra realtà che la parola che la dice?

spock@antiit.eu

Ecobusiness

A quanto ammontano annualmente gli “oneri di sistema” che il governo impone sulle bollette della luce e del gas – i tre quarti di costo della bolletta, insieme con le “spese di trasporto”? Non si può sapere. Ma vanno dai sei miliardi in sù. Non una “patrimonialina”.
E quanto di questi “oneri” sui consumatori vanno ai produttori di “energia alternative”, soprattutto alle pale eoliche? Altro segreto. Ma le pale eoliche sono un affare molto redditizio già prima di entrare in funzione, almeno questo si sa.
 
Con le prime applicazioni, si prevedeva che l’Intelligenza Artificiale avrebbe da sola consumato nel 2050 la metà dell’energia a disposizione. Da due anni, con l’IA generativa, in grado cioè di generare testo, immagini, video, musica, o altri mdia, in risposta a richieste libere dette prompt (ChatGPT, Bard, Bedrock, xAI….- sono innumerevoli), il fabbisogno di energia crescerà di tre volte entro il 2030, e nel 2040 avrà bisogno di tutta l’energia a disposizione – di cui è stata  programmata la disponibilità. Google e le altre big tech americane si preparano con nuove centrali nucleari. E chi non ha impianti nucleari?

Attorno all’Aspromonte, la Calabria reinventata

Santino Salerno ha raccolto alcune prose sparse dello scrittore suo conterraneo dedicate ai “luoghi di Corrado Alvaro”: i luoghi dell’infanzia, e la famiglia, il fratello sacerdote, don Massimo, la madre che gli sopravvisse, Antonia Giampaolo. Scritti degli anni 1950-1960. Corredandole di altri scritti su Polsi, il lungo di culto oggetto del primo scritto di Alvaro, sedicenne, indotto dallo zio prete, fratello della mamma, che gli insegnava il latino, e da lui fatto stampare, a firma “Corrado Alvaro, studente liceale”.
Il filo su cui Zappone si interroga a lungo, ma che riesce a sciogliere, è il peso enorme del luogo natio nell’opera di Alvaro, aneddoti, personaggi, fantasie, mitologie, e la sua lontananza dal paese, dove è tornato in trent’anni due o tre volte, per poche ore, l’ultima in morte del padre – mentre tornerà dopo più volte, nella vicina Caraffa del Bianco, dove il fratello Massimo era parroco, per fare visita alla madre. È un mistero su cui Zappone - che per una stagione lavorò a Roma e una notte conobbe Alvaro, che s’intrattenne con lui come con una vecchia conoscenza – non risolve. Oppure sì, con la fantasia.
Zappone, reduce mutilato di guerra, non si ambientò a Roma, e tornò a vivere a Palmi. Scrivendo racconti, e corrispondenze per vari giornali, Scrittore per una breve stagione apprezzato e premiato, da ultimo al Cinzano nel 1957 (con Umberto Saba alla memoria), corrispondente o inviato inventivo, umorale, faceto, è page turner come pochi. La morte, in un momento di sconforto, a 74anni, il 6 novembre 1976, lo ha seppellito anche nella memoria.
Salerno ne ha recuperato alcune sapide corrispondenze, e qualche testo inedito. Corredando la raccolta di un’introduzione breve e sapidissima, biografica e anamnestica. E di note brevi che si leggono anch’esse come racconti. La prima, su due lettere di Sciascia a Zappone, dice quanto la corrispondenza e la biografia di Sciascia manchino.
Fuori raccolta altri pezzi di varia curiosità. La Maga Sibilla a Polsi e il “Guerin Meschino” volgarizzato da Andrea di Barberino. La Madonna di Mileto contesa ogni anno a luglio – contesa a bastonate – tra i marinai di Mileto e i caprai di Pentedattilo, allora abitata. Il famoso “bandito” Giuseppe Musolino, interlocutore compito, già oratore (in sua difesa) di rara eloquenza, nel manicomio di Reggio dove era stato rinchiuso.
Una narrativa e un mondo dentro e attorno all’Aspromonte, che si apprezza perché senza la cappa delle mafie. Molto c’è di San Luca, dei sanlucoti abigeatari irresistibili. Un Comune peraltro molto ricco, padrone di 10 mila ettari di bosco. E un paese che non ha mai smesso di farsi il pane in casa, le stesse donne lo preferiscono - lo preferivano quando Zappone ne scriveva, 50-60 anni fa, e ancora adesso – allora accendevano il fuoco “ strofinando l’acciarino contro la polvere del legno secco”. Se non è roba dell’immaginifico Zappone. Che fu famoso internazionalmente per le storie del pesce spada che si suicida per amore, e di Bobby, il cucciolo che attraversa lo Stretto a nuoto per tornare dal padrone, che lo aveva abbandonato a Messina per non poter pagare la tassa comunale sui cani. Il pesce spada invece si era lasciato morire spiaggiato alla Tonnara di Palmi per seguire la compagna morta arpionata. Non vere, ma “vere”.  
Una Calabria reinventata. Con molte curiosità. Pentedattilo com’era. Il sensale di matrimoni. Garibaldi che sempre sbarca a Melito, il 19 agosto 1860 dalla Sicilia, e il 25 agosto 1862 fatale per i suoi disegni risorgimentali. Il vento “terrano”. La marasca, la varietà di ciliegia – da cui a Zara fanno, o facevano, il maraschino. Una speciale¸salamoia per le olive. I riti e i miti di Polsi – prima del sanitarizzazione, a fine Novecento: balli tumultosi, salve di doppiette in continuazione, e molti capretti sacrificati. E soprattutto Pavese a Brancaleone, con i ricordi dei “ragazzi” – in realtà quasi tutti suoi coetanei – a cui si prestava per passatempo a dare lezioni di inglese.

Fanno racconto pure le note del curatore, per quanto brevi. L’“altro” Sciascia di due – fra le tante - lettere a Zappone. Un articolo disperso di Alvaro, “La fibbia”. Le sue due poesiole del 1914, anche queste disperse, pubblicate a Catanzaro, su “Il nuovo birichino calabrese”. La “”banda pelosa”, di strumenti tradizionali (zampogna, tamburo, piffero di canna, triangolo) suonati da pastori, caprai, pecorai, vestiti di tela grezza e calzati di “calandrelle”, calzature di pelle grezza, col pelo. La “discesa” a Polsi da Carmelia.   
Domenico Zappone, Il pane della Sibilla, Rubbettino, pp. 142 € 12

 

lunedì 14 ottobre 2024

Sovranismo europeo

Fitto, il vice-presidente della Commissione di Bruxelles con la delega alla Coesione e alle Riforme, ha specificamente, nella “lettera di missione” ricevuta dalla presidente von der Leyen, l’incarico di analizzare e realizzare in particolare il rapporto Draghi sulla competìtività. Un piano, come si sa, per rilanciare l’Europa nei mercati e nella politica mondiali. È in questo incarico che si situa l’invito di Meloni allo stesso Draghi a palazzo Chigi all’indomani della lettera di nomina di Fitto. Che a palazzo Chigi si dice sia stata chiesta con quelle specifiche dalla stessa presidente del consiglio con la presidente della Commissione.
Meloni, come è noto, si rifiuta di far passare il Consiglio Europeo (il governo europeo) dal principio dell’unanimità a quello della maggioranza. Di favorire cioè una governabilità europea, al di sopra delle suscettibilità nazionali. E questo la differenzia da Draghi. Ma per ogni altro aspetto si troverebbe sulla stessa lunghezza d’onda. Il debito comune. La transizione verde pragmatica. Il controllo dell’immigrazione. L’atlantismo riaffermato e il sostegno all’Ucraina.

Von der Leyen guarda a destra

L’euroatlantismo sposta da subito l’orientamento politico della nuova Comissione di Bruxelles. Von der Leyen è stata riconfermata da una maggioranza di centro-sinistra. Ma nella composizione del suo nuovo esecutivo ha spostato i pesi a destra. Per un programma politico che, teoricamente, troverà più risposte positive a destra che a sinistra. Ai primi posti l’immigrazione e la transizione ecologica, con freni per l’una e per l’alra. Ma soprattutto il crinale già si pone nella politica estera, sulla guerra inUcraina.
L’opzione euro atlantica, col sostengo a Kiev senza condizioni, è dirimente. E qui l’esecutivo trova appoggi più a destra che fra i Verdi e su altri partiti che hanno portato alla riconferma di von der Leyen . i 5 Stelle fra essi e anche il Pd.
Il tema consente anche alla Commssione di isolare Orbàn e i pochi altri filorussi. Dividendo la destra, e asummendosene una buona parte. 

Immigrazione sì, ma scelta

Finito nel porto delle nebbie per la parte finanziaria, che era la più promettente (l’Europa hub di capitali, sul modello Usa, co l’emissione di treasury Ue, di titoli europei, di una sorta di Tesoro europeo), il Rapporto Draghi tiene banco, a Bruxelles e nei paesi membri, per la parte immigrazione.
È anche la parte del Rapporto più scontata. La popolazione europea in età di lavoro, calcola Draghi, con gli indirizzi demografici attuali, si ridurrà di 41 milioni in meno di mezzo secolo, al 2070 – un calo del 15 per cento abbondante. Con tutta l’immigrazione prevedibile in base ai flussi storici. Senza gli immigrati – quella quota di immigrati di cui le economie europee hanno bisogno e che hanno la capacità di integrare – il deficit demografico a mezzo secolo data si allargherebbe di altri 46 milioni.
All’orizzonte del mezzo secolo, 2020, l’Europa si troverebbe con un centinaio di milioni di persone in meno. Ma già oggi molte imprese “stanno affrontando significative carenze di competenze. Non riuscendo a “trovare o ad attrarre” le competenze di cui hanno bisogno.
Da qui la necessità di una politica attiva dell’immigrazione, selettiva. Che è la carta da visita internazionale di Meloni e il suo governo. E di von der Leyen, che su questo terreno ha da tempo un’intesa con Meloni. Ma ora è un’esigenza anche della Germania.

Nostalgia del padre

In cinque episodi, Francesca bambina e “Pinocchio” (la balena divoratrice e il film), Francesca adolescente, contestatrice e perduta, l’esilio forzato a Parigi col padre e il recupero, Francesca regista come il padre, da lui assistita, e la fine di un padre infine amato che s’invola nel cielo di Venezia. Un corpo a corpo di Francesca col padre, loro due soli, isolati dalla madre, dalla famiglia, dal contesto (se non per alcune scene dei terribili anni Settanta, di droghe mentali e materiali). Nella nostalgia - nostalgia del padre, chi lo avrebbe detto, del padre-padre, paterno.

Una storia personale, dapprima idilliaca poi drammatica. Come un risarcimento, al padre, e una liberazione. Tutta sulle espressioni di Francesca nelle sue due età, la bambina Elena Mangiocavallo, e Romana Maggiora Vergano. E di Fabrizio Gifuni, sempre misurato nel ruolo di padre accudente. Giocata con esperienza, scena dopo scena – poche le sbavature al montaggio.
Una curiosità, che disturba ma non molto, è Gifuni che rinvia inevitabile all’Aldo Moro di Bellocchio, il produttore del film. Nelle sonorotià e nelle figurazioni, la taglia inevitabile, ma anche i primi piani di sbeico, lo sguardo ironico, la calma inflessibile, da pressione bassa, e da decenni di sgambetti politici. Mentre Comencini, narratore faceto, in una famiglia di tutte donne, cosmopolita e poliglotta, molto attivo nell’industria e nell’estetica del cinema, s’immagina meno posato e più come-tutti. E sempre molto attivo, molto fuori, socievole, “inventore” della commedia all’italiana, con una cinquantina di film all’attivo e una decina di serie tv, im quarantì’anni di vita attiva.   
Francesca Comencini,
Il tempo che ci vuole

domenica 13 ottobre 2024

Ombre - 741

Il quotidiano israeliano “Haaretz” documenta abusi militari di Israele a Gaza e in Cisgiordania. A  Gaza col “piano dei generali”, di fare terra bruciata nella fascia settentrionale, bombardando anche i campi profughi. In Cisgiordania con “fattorie illegali” di tipo nuovo, campi di rieducazione per minori variamente condannati, il cui compito è angariare i palestinesi - “il governo Netanyahu non solo permette il terrore ebraico in Cisgiordania, ma lo finanzia”. Ma di questo si sa da “Haaretz”,  che si pubblica anche in inglese, non dai tanti inviati e corrispondenti italiani. Unica eccezione  oggi “Il Sole 24 Ore” – e la “Gazzetta del Sud”.
 
Dei 26,38 miliardi di aiuti a Israele stanziati dal Congresso americano il 20 aprile, 9,2 erano destinati a “scopi umanitari, anche nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata”. Il Congresso “ciurla nel manico”, o imbroglia se stesso?
 
Elkann ha venduto la Fiat a Peugeot (Stellantis). Che produce sempre meno auto in Italia perché il lavoro in Italia è caro. È l’effetto di una politica sindacale sbagliata – in Italia si possono fare automobili solo nel segmento lusso e corse, in Germania, dove il metalmeccanico non è meno protetto dell’italiano e anzi guadagna di più, si fanno anche la utilitarie. Ma Salvini e Orsini,da destra, fanno della politica aziendale di Stellantis - pena la scomparsa - un caso di lesa nazione. Un doppio fronte perdente - una doppia stupidità?
 
Le piccole e medie imprese versano al fisco una cifra 120 volte superiore a quella versata dai “giganti del web” con sede in Italia – per la parte di attività italiana. Solo le Entrate non se ne sono accorte? L’evasione è soprattutto un problema di organizzazione – le norme non mancherebbero.
 
Negli ultimi 150 giorni 28 sbarchi a Roccella, uno ogni cinque giorni – ma negli ultimi venti giorni il ritmo si è intensificato: sette sbarchi. Di un centinaio di persone a sbarco – con molti nuclei familiari, e molti, una ventina a sbarco, di minori soli. Non un traffico eccezionale, ma è la “rotta turca”, organizzato dalla Turchia. Da un paese cioè che è pagato dall’Unione Europea per cifre enormi, altro che Albania, per controllare il mercato dei clandestini. E dove i controlli di polizia sono minuti, e duri – qualunque turista lo sa.
 
Paul Biya, 91 anni, uno dei due presidenti che il Camerun ha avuto dall’indipendenza, dal 1960, negli ultimi anni “ha vissuto spesso in hotel di lusso a Ginevra”. E ora “non si fa vedere da un mese”. Sarà morto? I “successori” si fanno la lotta? Ma è normale in Africa, il ludibrio del politico:  nessun paese, nemmeno il Sud Africa, ha un regime politico – un regime democratico.
 
Non si può parlare male dell’Unifil, quindi dell’Onu. Ma ogni guerra ne rileva l’irrilevanza. L’Unifil schiera 12 mila uomini, di 50 paesi diversi. Poiché l’Italia ne schiera mille, restano 11 mila uomini di 49 paesi diversi. Per una missione-vacanza “estrema”?
E cosa ha fatto l’Onu dal 1967, dall’annessione della Cisgiordania, ha sanzionato Israele?
 
Un anno di guerra, per distruggere Gaza, 360 kmq, un decimo della provincia di Frosinone, senza liberare gli ostaggi, e senza distruggere il nemico Hamas. Ora il Libano – non il Sud, non la frontiera o il Litani: Beirut è bombardata ogni giorno. Per fare che? La guerra per la guerra, la vendetta.
 
Lo scandalo del ragioniere pugliese che collezionava informazioni sui conti correnti può essere come lui dice, per curiosità. Lo scandalo non è “per che” e “per chi”, ma che lo abbia potuto fare. A Banca Intesa si “lavora” così? Tutto il giorno? Settemila intromissioni richiedono molte ore, moltissime. Lo faceva da casa? Con gli strumenti della banca? Lo faceva dalla banca? Non aveva altro da fare? E soprattutto: siamo tutti nudi in rete - il ragionier Coviello non è un hacker, uno speciale manipolatore della rete?
 
L’incursione del ragionier Coviello è per passatempo, come lui sostiene. Se i famosi sono 77 in tutto - gli altri settemila sono correntisti anonimi, compresi parenti, amici e conoscenti. “L’allarme per gli investigatori è scattato”, spiega Bianconi, “soprattutto quando sono emersi gli accessi relativi al ministro Crosetto e alla moglie”. Cioè quando i Carabinieri sono arrivati al loro ministro – i Carabinieri sono militari.
 
Schlein propone la patrimoniale, e accusa Meloni di aumentare le tasse – per tre o quattro centesimi sul gasolio da trazione. Non si sa che pensare: voleva alzare una palla facile alla presidente del  consiglio?
 
Schlein parla di patrimoniale come di “tassa sui ricchi”. Non sa che in Italia si applicherebbe a tutti, gli italiani risparmiano in beni tangibili, mobili e immobili. È la sola, forse – è proprio “svizzera”, educata in una scuola svizzera, quale si usa(va) nelle buone famiglie, si direbbe una extraterrestre.
 
S’è arrabbiato perfino il cardinale del Vicariato: per rifare un marciapiedi cantiere di mesi. Cantiere di anni per rifare una strada, e quando si riapre alla prima pioggia si riempie di pozzanghere. È perfino offensiva la corruzione a Roma in appalti – o solo più visibile, per i ricorrenti “eventi speciali”? Lautamente finanziati, questi, dal governo: costi esorbitanti e nessun controllo. Un problema che non è solo di Roma: come è possibile che gli appalti pubblici siano così costosi, e raramente a regola d’arte?

 
Singolare il pronunciamiento di Todde, la presidente della Regione Sardegna, contro Grillo, cui deve la sua “esistenza in vita” politica, col premio della presidenza, seppure per pochi voti: “Beppe fa il comico”, per dire di Grillo. Uno che non capisce nulla di politica, intende.

La storia della vittoria non è onorevole

Gorla, periferia estrema di Milano (lo è ancora oggi), ricorda il 20 ottobre 1944, quado le bombe alleate sulla scuola uccisero 184 bambini, tra i 4 e gli 11 anni, 15 insegnanti e 4 bidelli. Lo ricorda in tono minore, ma la storia della guerra va ancora fatta.

Crimine contro l’umanità è certamente Hiroshima – che si ricorda col Nobel, ma senza condannare l’attacco. E lo sono i bombardamenti delle popolazioni, comprese le scuole e gli ospedali, a scopo intimidatorio – il “piano dei generali” israeliani non è una novità.

La guerra aerea non è onorevole – e non fa vincere. I bombardamenti non sono leali, prendono chi prendono - già con l’artiglieria, peggio con i bombardieri. Non ci sono bombe “di precisione” -l’“Enola Gay” girò un’ora su Hiroshima, non la trovava. Ma ci sono strategie, e queste non sono un caso. Gli Stati Uniti hanno sganciato sul Vietnam del Nord, grande quanto il New England, la loro regione più piccole, più bombe d’aereo che su tutta la Germania, l’Italia, il Giappone e la Corea messe assieme.

Il generale americano CurtisLeMay, che nel Pacifico teorizzò e utilizzò le bombe incendiarie, la sua “dottrina” diceva “omicida”, diretta contro le persone più che contro gli obiettivi bellici - il suo allora sergente George Wallace lo avrebbe voluto nel 1968 suo vice nella corsa alla candidatura alle presidenziali. Ma LeMay si tenne convenientemente alla larga. La sua dottrina era che “non ci sono civili innocenti”. In sei mesi in Giappone distrusse 64 città con le bombe incendiarie, “missioni” facili perché le case erano prevalentemente in legno, e Hiroshima e Nagasaki, che erano in cemento,  con l’atomica, un milione di morti. Mentre professava: “Se non vinciamo saremo criminali di guerra” – i grandi criminali sono-fanno i cinici.

Annie erotica, col cancro al seno

Sotto l’insegna di Bataille, “l’erotismo è l’approvazione della vita fin nella morte”, il racconto del rapporto convulso, urgente, da strapparsi di dosso gli indumenti, che i due autori hanno avuto nei mesi in cui lei affrontava un tumore alla mamella. Attraverso la rilettura del dopo, la mattina dopo, un’ora dopo, fotografando il disordine cerato dall’urgenza.
Un racconto a due voci, del 2003, l’anno del tumore. Un esercizio in feticismo? Un “diario intimo” quale ha coniato Baudelaire - “dell’amore e la morte”, Marc Marie annota in fine. Un testo breve lei, uno lui - che ha avuto l’idea di fotografare il “dopo”. Di annotazioni, ricordi, riflessioni. Erotizzanti. Quali sono a lei congeniali: non c’è altroscrittore-scrittrice altrettanto capace di fare rivivere il corpo, l’urgenza del sesso (“Perdersi”, “Passione semplice”,  “Hotel Casanova”, “Il ragazzo”).
Lui ha quarant’anni, 22 meno di lei. I mesi della passione sono quelli del tumore, della chemio, la depilazione spontanea di tutto il corpo, la parrucca, le capsule e i cateteri sottopelle, la lunga convalescenza dopo l’operazione. E della menopausa. E niente, “questo non ci impediva di fare l’amore”. Col comento sacrilego: “Se mi riferisco alla preghiera dei vecchi messali, «Sul buon uso delle maalttie», il mio, di uso, mi pare il migliore che abiba potuto dare al cancro”. Così, con allegria. E senza necrofilia, nemmeno lamentazioni. Vent’anni prima, nel febbraio 1986, lei ricorda a proposito di Bruxelles, dove lui è cresciuto, era a letto “con Z., e mia madre doveva morire all’improvviso due mesi dopo”, all’hotel Amigo.
All’Amigo, “ora del gruppo Forte”, ritornerà con lui, in una delle pause che il tumore le lascia – ma di preferenza andranno in Italia, a Venezia d’estate, e a Roma a Natale. Con l’elogio dell’amore in albergo, in ambiente impersonale, il sesso per il sesso. Nel 1984 l’ha fatto con un innominato a Parigi in un hotel de passe, un alberghetto a ore, un non luogo buono per “l’amore senza conseguenze”. E una filosofia: “La camera d’albergo, con la sua doppia fugacità, quella del tempo e quella del luogo, è per me il posto che fa più provare il dolore dell’amore. Nello stesso tempo ho sempre avuto l’impressione che fare l’amore in albergo non impegna, perché, in certo modo, non vi si è nessuno. Per le stesse ragioni, è senza dubbio più facile morirvi, come Pavese, o Marco Pantani”, p. 39.  
La storia di un rapporto fisico, di letto. Insistito fino all’idea di immortalarne con la fotografia i resti. Che Ernaux apre con un colpo di cui è maestra, sintetico e spiazzante. Commentando la prima foto, di lui presa da lei “l’11 febbraio, dopo una colazione rapida” – “dovevo prendere il Rer per andare a  Parigi”, l’espresso regionale per pendolari, “non avevamo avuto il tempo di fare l’amore. La foto era qualcosa di sostitutivo”. Ma quella può descriverla, non pubblicarla: “Il sesso di profilo è in erezione”. È il suo Courbet, insiste, “L’origine du monde”. Ma non solo, la foto “presenta anche molte analogie con una scena di cui sono stata la spettatrice l’estate dei miei 23 anni, alla stazione Termini a Rma, mentre mangiavo un hot-dog, appoggiata al finestrino aperto del treno in partenza- Nel treno fermo dall’altro lato della banchina un membro eretto fuori dai pantaloni era violentemente masturbato dalla mano di un uomo nascosto fino alla vita dalla tendina, che aveva abbassato a metà, di uno scompartimento di prima”.
Un racconto di amore e morte. Sotto l’alea del tumore, con cateteri e sensori anzi attaccati o dentro il busto, si fa l’amore con furore, proprio come vuole la rima. Ovunque, all’Amigo come nella pensione su tetti di Venezia. E a casa di lei, un lungo percorso in Rer a 40 km da Parigi, su ogni superficie, per l’eccitazione sempre convulsa, in cucina, nel corrisoio, sul tappeto, sulla scrivania perfino, sancta sanctorum della scritrice. E dopo, un’ora dopo, la mattina dopo, si fotografa la testimonianza della frenesia, scarpe, calze, gonne, camicette, slip, reggiseni, maglioni e magliette sparsi in disordine, abbandonati sul pavimento, su un canapé, ai piedi del letto al momento della passione. Fotografarli ricrea l’eccitazione – non per il lettore:  nature morte fredde, tra molte pagine bianche, le riproduzioni come al solito sono povere, spente quando si farciscono i libri di foto come pagine (le immagini,anche le più sguarnite, hanno bisogno di luce, di carta patinata).
Il tempo dell’evoluzione del tumore, anzi della remissione, poi il rapporto - l’urgenza, che voleva la di lui pazienza? - svanisce. Con i viaggi in Italia, a Roma e a Venezia. Molta Venezia, evocata e vissuta. Marie lega l’idea delle foto al dipinto di De Chirico “La torre rossa”, di cui ha avuto  da ragazzo in camera la riproduzione a grandezza naturale, l’originale ritrovando al Guggenheim di Venezia.
Un libro intimo aperto. Dispiegato, come la centerfold, la foto centrale che ornava “Playboy”, con la pin-up a gambe divaricate. Per Annie la fotografia ha un potere erotico: “Lo scatto dell’apparecchio è una strana stimolazione del desiderio, che spinge ad andare più lontano”. E dà alla donna il potere erettile dell’uomo: “Quando sono io che prendo la foto, la regolazione dello zoom è un’eccitazione particolare, come se avessi un sesso maschile – credo che molte donne provano questa sensazione. E ogni volta lo scatto dell’appaecchio mi fa trasalire il cervello di piacere”.
Annie Ernaux-Marc  Marie, 
Annie erotica, col cancro al seno, pp. 160, ill. € 16