skip to main |
skip to sidebar
letterautore
Čechov – I suoi personaggi
vanno visti come i viaggiatori compulsivi, secondo Graham Greene – a margine
del suo “In viaggio con la zia”. Nei tanti punti morti che ogni viaggio comporta:
“C’è tanta stanchezza e disappunto nei viaggi che le persone devono aspettarsi
– nelle stazioni, sui ponti dei traghetti, sotto le palme nel cortile degli
alberghi in un giorno di pioggia Devono passare il temo in qualche modo, e possono
passarlo solo con se stesse. Come i personaggi di Čechov esse non hanno
riserve, si vengono a sapere i segreti più intimi”.
L’accostamento più verosimile nella considerazione successiva: “Si riceve
l’impressione di un mondo popolato di eccentrici, di strane professioni, di
stupidità quasi incredibili e, per riequilibrarla, di sopportazioni sorprendenti”.
Danza – È sacra e
popolare – popolare per essere sacra, Ernst Jünger, “Anatomia e linguaggio”:
“La danza è strettamente legata al gioco e al canto”.
“Uomini e animali hanno in comune le danze e la melodia. Danze e canti
accompagnano, in una successione naturale, il lavoro e il ciclo annuale delle
feste”.
“La realizzazione più libera della vita ctonia è la danza. In essa si
concentra tutto ciò che dispensa il potere della terra – il ritmo delle semine e della mietitura,
la voluttà profonda del vino e del sesso”.
Fantascienza – “Venom-The
last Dance” e “Il robot selvaggio” (“The Wild Robot”), due film di fantascienza,
uno Marvel (azione-horror) e uno d’animazione, hanno incassato nelle due
settimane tra fine ottobre e inizio novembre sei milioni di euro, l’uno - più
di “Parthenope”, il film d’autore più visto, 5 milioni.
Indelicatezza – Una colpa da
tempo scomparsa, inattuale. L’ultimo riferimento si trova in Camus, “Il primo
uomo”, al capitolo “La scuola”, a proposito del maestro di Camus alle
elementari poi sempre ricordato e celebrato, Monsieur Bernard, al secolo Louis
Germani: “Non condannava che con più forza ciò che non ammetteva in discussione,
il furto, la delazione, l’indelicatezza, la sporcizia”.
Italianità – Tre musicisti del
Novecento son ricordati, incidentalmente, solo dal maestro Pappano, nelle sue memorie,
“La mia vita in musica”: Anton Coppola, lo zio del regista, in realtà Antonio
Francesco Coppola, detto Anton, l’autore dell’opera “Sacco e Vanzetti”, e Anton
Guadagno, di Castellammare del Golfo (Palermo), direttore del Metropolitan di
New York e della Wiener Staatsoper per l’opera italiana, che in America, negli
anni 1970-1980 “riuscivano miracolosamente a mettere su un allestimento nel
giro di pochi giorni” – un allestimento d’opera, opera complessissima. E Giusy
Devinu, la soprano cagliaritana che fu Violetta in mezza Europa negli anni
1980, “scomparsa troppo presto”.
Leggere – “Il lettore
compare dell’autore” vuole E. Jünger in “Lettera dalla Sicilia all’uomo sulla
luna”.
Libero scambio – “La libertà economica è come la libertà politica – un ideale, al quale gli uomini possono con fiducia ambire, ma impossibile da realizzare finché non tutti pensano su linee ideali. Il detto: «È bene tutto quello che fa bene al mio paese» è criminale, il diritto e la giustizia si radicano in n principio divino”., Hjalmar Schacht, “Confessions of «The Old Wizard»”: “Dopo che la Gran Bretagna ebbe completato con successo la sua grande innovazione industriale e affermato la superiorità della sua flotta mercantile, gli economisti politici britannici cominciarono a elevare la libertà di commercio, cioè la concorrenza senza limiti, a teoria economica standard, culminando con la clausola della nazione più favorita che avrebbe assicurato la supremazia economica della Gran Bretagna per sempre, se altri paesi non si fossero infine ribellati, per mera necessità”. Da Ricardo a Marx, e a Sraffa, l’amico di Gramsci?
La lamentazione è – era – corrente fra gli economisti tedeschi, ma non per questo è meno vera. Ancora oggi, sostituendo all’Inghilterra gli Stati Uniti, e alla sterlina il dollaro.
Minotauro – Due racconti, “La
casa di Asterione”, Borges, e “Il minotauro, Dürrenmatt, e due testi teatrali, “I
re”, Cortázar, e “Chi non ha il suo Minotauro?”, Yourcenar, trova Erika Filardo
(online) nel Novecento: una predilezione per il “mostro”. Ma non ricorre anche in
Gide, Cvetaeva, Kazantzakis, Butor,
Tammuz. E in Richard Strauss, Picasso, Masson: il Novecento ne è stato ossessionato.
Dal mostro, o non piuttosto dai labirinti?
Dürrenmatt, da ultimo, 1985, subito dopo Tammuz, 1981, ne fa la sofferenza
del diverso. Non sessualmente, dell’alieno, del newcomer, del solitario
o abbandonato.
“Chi non ha il suo Minotauro?”, chiedeva Yourcenar. Rimproverando implicitamente
Freud, che il lato oscuro lega a Edipo. Ma è anche vero che nessuno prima di
lui se ne occupava – si occupava dell’inconscio.
Telefonate – Si mitizzano
periodicamente i tre minuti di telefonata di Stalin a Pasternak nel giugno del
1943. La telefonata fu fatta all’indomani dell’arresto di Osip Mandel’štam.
E si ipotizza che Stalin volesse il parere di Pasternak sull’arresto – si ipotizzava
in regime sovietico che Pasternak, pavido, non avesse dissuaso Stalin, o non
gli avesse dato buone ragioni per la liberazione. Ora un libro di Ismail Kadaré ipotizza quattordici possibili
conversazioni.
È il fatto più importante della vita di Pasternak, e questo inquieta. È
uno Stalin che ancora non era arrivato a concepire e comandare l’assassinio di
tutti i comunisti che gli facevano ombra – cioè, più o meno, tutti: gli arresti,
anche dei poeti, erano normali nella rivoluzione bolscevica. Ma era una
questione di qualche mese, o di settimane – le “purghe” erano già su strada. Una
telefonata per questo inquietante: Stalin, “lo” Stalin, ancora leggeva poesia.
E nient’altro.
L’ossessione sulla telefonata non mostra l’irrilevanza della poesia – di
Pasternak si ricorda poco o niente di altro?
Usa – “È un grande paese,
forte e disciplinato nella libertà, ma che ignora molte cose e anzitutto
l’Europa”, Albert Camus di ritorno dall’America scriveva al vecchio maestro
Louis Germain ad Algeri a settembre del 1946.
Vocali – “Le vocali
racchiudono una determinazione sessuale segreta delle parole, più istruttiva e
più necessaria che il loro genere grammaticale”, E. Jünger, “Anatomia e linguaggio”
(in “Il contemplatore solitario”). Tutto il lavoro di demolizione del genere
dovrà fare a meno delle vocali?
letterautore@antiit.eu
“Io mi rivolto,
dunque noi siamo”. La capacità – la possibilità di ribellarsi è la sola breccia nell’assurdo
che avvolge l’uomo, l’esistenza umana. Questo è assioma costante della
riflessione di Camus. “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no”, è l’incipit
di questo saggio: “Ma se si rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì,
fin da suo primo movimento. Uno schiavo, che ha ricevuto degli ordini tutta la
sua vita, giudica all’improvviso inaccettabile un nuovo comando”. Semplice.
Il contenuto di questo
“no” è da vedere. E qui si viene a sapere molto di ciò che si vuole salvifico e
non lo è - non nel senso di Camus, come uscita dall’assurdo dell’esistenza,
della nascita. L’incipit vero di questo lungo saggio, che è in realtà un lungo pamphlet,
le prime righe della prefazione, è devastante: “Ci sono crimini di passione e
crimini di logica. Il Codice penale li distingue, abbastanza comodamente, per la
premeditazione. Noi siamo al tempo della premeditazione e del crimine perfetto.
I nostri criminali non sono più quei ragazzi disarmati che invocavano la scusa
dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la
filosofia che può servire a tutto, anche a cambiare gli assassini in giudici”.
Il regalo di Landini,
reduce dall’appello alla “rivolta sociale”, alla capo del governo Meloni, bersaglio
dell’appello, è un controsenso. L’“uomo in rivolta” di Camus non è il barricadiero,
stile contestazione. Sono quattrocento pagine, piene, anche troppo, martellanti,
inflessibili, che mettono in discussione le rivoluzioni storiche.
Il capitolo “Le
rivoluzioni storiche” prende quasi la metà della trattazione: i regicidi, il terrore,
i deicidi, Hegel e Nietzsche compresi, il terrorismo individuale (Nečaev,
Bakunin, nichilismo), e quello organizzato, lo “scigalevismo” di Dostoevskij (“I
demoni”), il terrore di Stato (Napoleone, Stalin, Mussolini o “la santa religione
dell’anarchia”, Hitler), Marx (“Il terrore di Stato e il Terrore razionale”, “Il
regno dei fini”, e, sul sovietismo, “La totalità e il processo”). Il tema, del
capitolo e del libro, è come l’uomo, nel nome della rivoluzione, che pure è la
sua essenza, accetta e anzi propugna il crimine. Come la rivoluzione ha avuto sempre
esito nel Novecento in Stati di polizia e totalitari (“concentrazionari”)? Come
l’orgoglio umano ha potuto erigersi a violenza?
L’interrogativo è
insistito. Ben raccontato, tanto più che se le sue derivazioni sono state
tantissime, quelle di cui Camus tiene conto, ma alla fine deprimente. Come dire:
meglio non essere che rivoltarsi? Meglio non rivoltarsi, non in politica.
Le parti migliori,
leggibili oggi con qualche sorpresa, e anche nel senso che Landini forse
intendeva facendone omaggio provocatorio a Meloni, sono la parte iniziale, “La
rivolta metafisica”, e quelle finali, sotto l’insegna “Rivolta e arte”.
La pubblicazione del lungo saggio a fine
1951 fu una sorpresa nella sinistra politica in Europa, all’Ovest e all’Est,
dalla Jugoslavia di Tito alla Polonia e alla stessa Russia. Aprì una contesa
furibonda di buona parte dell’intellighentsia europea contro Camus. Specialmente
aspra fu la polemica in Francia. Aperta da Sartre, allora in fase bolscevica,
anzi staliniana - col supporto di de Beauvoir, mediatrice ma non convinta. L’amicizia
tra i due si ruppe senza nemmeno una grande discussion. La discussione ci fu ma
non risolutiva - e nemmeno di grande livello, col senno di poi, ma anche con
quello dell’epoca: Sartre in politica si può dire che non ne azzecca una.
Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, pp. 384 € 16
Le statistiche elettorali americane
tengono contro di due categorie di elettori, i Vap e i Vep, la Voting Age Population e la Voting Eligible
Population – la popolazione cioè di americani provvisti di cittadinanza, e di
diritti politici.
Gli statistici preferiscono i Vep per
calcolare l’affluenza alle urne - come base di calcolo della percentuale di votanti.
Perché molti residenti, soprattutto negli ultimi anni, non sono cittadini a tutti
gli effetti, non hanno diritto di voto.
L’affluenza è in declino da oltre
mezzo secolo, dal 1971 (Nixon), ed è “interamente” spiegata dall’incremento della
popolazione non eleggibile. Nel 1972 la popolazione americana senza cittadinanza
era meno del 2 per cento della popolazione in età di voto, nel 2004 era già dell’8,5
per cento, e successivamente è ancora cresciuta, al 10 per cento circa.
A questo 10 per cento bisogna aggiungere
i condannati a pene che compartano la perdita dei diritti politici. Una
percentuale ora dell’1 per cento dei Vap - era lo 0,5 per cento circa nel 1972.
Usando come base di raffronto la
popolazione eleggibile, l’affluenza alle urne è tornata nel 2020 e nel 2024 ai
livelli di partecipazione elevata, degli ani 1950 e 1960.
Nelle
statistiche statali, comunque, la base Vap, popolazione in età di voto, non è
utile (comparabile), perché gli “ineleggibili” non sono distribuiti
uniformemente. In California, per esempio, quasi il 20 per cento della
popolazione non è eleggibile, perché di condannati o non cittadini.
Un tutto Gadda (un po’“tutto”) che si può dire del Gadda milanese. Di cui
molto è nei racconti, e anche ne “La cognizione del dolore”, la Brianza fa bene
“Milano”. Di Milano com’era, e in fondo come è, anche ora con i grattacieli.
Una sorta di baedeker Gadda per nuovi lettori, ma con questa curiosa
filigrana. Forse non curiosa, l’ingegnere del romanesco era ben un lombardo a
Roma, e anzi un milanese. Molte delle sue nevrosi erano di ritegno ben lombardo.
Così come la permalosità. Da ultimo si preparava alla morte, ricorda Arbasino,
facendosi leggere Manzoni, il romanzo.
Un’edizione curata e presentata da Dante Isella, forse il suo miglior lettore
– Gran Lombardo anche lui, curatore, oltre che di Gadda, di Maggi, Parini,
Porta, Dossi, Tessa, Sereni. Col saggio famoso di Gianfranco Contini, “Lo strano
ingegner Gadda”. Raffaella Redondi cura “La Madonna dei filosofi” e “Il Castelo
di Udine” – con un’inedita “Appendice al «Castello di Udine»”. “L’Adalgisa” ha curato Guido Lucchini, “La cognizione del dolore” Emilio Manzotti.
Carlo Emilio Gadda, Romanzi e
racconti (La Madonna dei filosofi, Il castello di Udine, L’Adalgisa, La
cognizione del dolore), Garzanti. pp. 912 € 15
Il conteggio preciso del voto
popolare non sarà concluso prima dei primi di dicembre. Fino a ieri Trump aveva
vinto con 74,1 milioni di voti. Più di Harris ma meno che nel 2020 – l’elezione
contestata.
Nel 2016 Trump aveva vinto con 62.984.828 voti (il 46,1 per cento dei voti
espressi) contro i 65.853.514 di Hilary Clinton (48,2 per cento). Nel 2020
aveva perso con 74,2 milioni di voti (46,9 per cento dei voti espressi), contro
gli 81,1 di Biden (51,1 per cento).
Anche per la statistica, sono i Democratici
che hanno perso il voto del 5 novembre. Per astensione o per un voto d’opinione
sfavorevole. I calcoli variano, ma Kamala Harris non è andata oltre i 71
milioni di voti espressi. Un calo di ben 10 milioni rispetto a quattro anni fa –
un’elezione, si direbbe, a voto zero.
È dal primo dopoguerra che la
percentuale dei votanti alle elezioni politiche e presidenziali americane ogni
quattro anni si è ridotta, dall’80 al 50 per cento. Pert effetto dell’allargamento
del diriro di voto a tutta la popolazione. Con qualche puntata al 60 per cento –
1960, effetto Kennedy.
Le ultime due elezioni con Trump
hanno mobilitato l’elettorato Nel 2020, Trump-Biden, l’affluenza è risalita al
66,4 per cento, record del dopoguerra (e anche del primo dopoguerra). Il 4
novembre, secondo le proiezioni dell’università di Florida, la partecipazione
si è ridotta ma è sempre alta, il 62,3 per cento - il “Washington Post” invece
calcola una partecipazione al voto “vicina al record del 2020”.
"Kamala ha perso non soltanto perché
donna. Noi democratici in Pennsylvania abbiamo fatto una campagna vecchia,
porta a porta. Anche nei quartieri poveri. Ma non serve: o sono già convinti o
non ti votano comunque. L’unica cosa che sta loro a cuore è il prezzo della
benzina”, Margherita “Magalì” Sarfatti, “Corriere della sera”.
Per la prima volta in tre elezioni
Trump ha vinto anche il voto popolare – il voto nell’urna. E lo ha vinto –
effetto trascinamento - anche per i candidati repubblicani al Senato e alla Camera
dei Rappresentanti.
Hanno votato Trump in larga percentuale
i poveri. Veri o supposti - chi ha perso potere d’acquisto per la moltiplicazione
dei prezzi nel dopo-Covid, di due e anche di tre volte. E chi, nei servizi a basso
valore aggiunto (domestici, pulizie, ristorazione (lavapiatti, anche
camerieri), giardinaggio, guardianie, piccole riparazioni….), si è obbligato a
due, anche a tre occupazioni, per guadagnare il necessario, le paghe orarie contraendosi
(in termini reali ma anche, a New York, in termini monetari) per l’offerta esuberante
da nuova immigrazione.
Alta la percentuale per Trump negli
Stati poveri, anche se scarsamente popolati – agricoli, deindustrializzati,
decentrati, del “profondo Sud”: Wisconsin, Montana, Iowa, North Carolina, Oklahoma,
Mississippi, Arkansas.
Per la prima volta un repubblicano,
il newyorchese Trump, è riuscito ad aumentare i voti a New York - Staten
Island, Bronx, Queens, la parte meridionale di Brooklyn. Solo la ricchissima Manhattan
era e resta indefettibilmente tutta Democratica – malgrado il riuscito ultimo raduno
di Trump al Madison Square Garden (che ha riempito, luogo di celebrazione
alto-borghese, di afro, latinos, arabi, indiani, donne grasse e magri teen-ager).
Nel 2016 Hillary Clinton aveva staccato Trump nel voto popolare a New York di
63 punti. Biden nel 2020 di 54 punti. Kamala Harris ha visto il margine nella
Grande Mela ridotto al 37 per cento.
Reporter e
romanziere di tutte le guerre e guerriglie, Graham Greene non si è fato mancare
il Vietnam, “prima del Vietnam”- nel 1955, quando la guerra era d’Indocina,
della Francia che tentava di recuperare la colonia (ogni notte scoppiano bombe
a Saigon, ma anche di giorno). Di cui però sapeva anche gli sviluppi futuri. Al
punto da essere per questo dichiarato “persona non grata” negli Stati Uniti,
niente più visto d’ingresso - criticato perfino, per leso americanismo, dal “New
Yorker”, rivista progressista se mai ce ne sono state. G.Greene non sapeva di
Kennedy naturalmente, ma sapeva dell’ansia “umanitaria” americana di imporsi
nel resto del mondo. Come i vietnamiti sconfiggerlo gli Stati Uniti venti anni più tardi è scritto in poche righe qui, a pagina 52, al primo capitolo.
Il morto è anche lui al primo capitolo. Un racconto tanto
semplice, nello svolgimento, quanto intricato, perfino carognesco, nel ghiommero
dei personaggi. Che poi sono semplici anche loro, sono solo tre: Pyle, l’americano
del titolo, volontario della pace, Fowler, il giornalista inglese blasé,
fra oppio e alcol, e la ragazza Phuong vietnamita, nome vero di una vecchia
amica di Greene a Saigon. Con l’autore impersonato in uno dei personaggi del racconto, un “inviato
speciale” – quale del resto era – insabbiato, a metà tra oppio e amanti. Con l’elogio
della donna vietnamita.
Zadie Smith, che
presenta questa riedizione, dovendo dare a G. Greene un appellativo, è un Tolstoj?,
è uno Stendhal?, lo riduce a “più grande giornalista mai esistito”. Ma è ben di
più. Oltre che romanziere, è scienziato politico raffinatissimo del secondo Novecento.
In questo “romanzo” come in quelli dell’Africa e dell’America Latina – sapeva di
che parlava. E narratore di vasta – aperta, non conchiusa, non definita –
umanità. E scrittore onesto, pur essendo in vita donnaiolo frivolo, buon bevitore
dall’occhio lucido, pro-comunista larvato, al modo degli snob inglesi, cattolico
non osservante ma quanto “religioso”.
Graham Greene, Un
americano tranquillo, Sellerio, pp.360 € 16