Gli Stari Uniti non sono Europa.
Non solo per Trump e l’America First del movimento Maga, make America
great again. Il più europeista degli ultimi presidenti, Kennedy, “Ich
bin ein Berliner!”, ne è stato forse anche il più lontano. E l’Europa
ovviamente non è gli Stati Uniti.
Ci sono paesi europei, tra essi l’Italia,
che hanno con gli Stati Uniti un rapporto stretto e vincolante, per scelta: di
politica internazionale, anche europea (sic!), e di economia. Non sempre con
fortuna. L’americano Soros affossò la lira e l’Italia nel 1992, a beneficio dei
suoi sottoscrittori americani. E l’America di Hillary Clinton sostenne nel 2011
Sarkozy nel tentativo di sottrarre la Libia all’influenza italiana, con l’assassinio
di Gheddafi - e la dissoluzione della Libia
stessa (e i 3 o 4 mila morti poi con le mafie delle migrazioni). Ma gli Stati Uniti
non parteciparono alla congiura di Merkel e Sarkozy contro l’Italia nella crisi
del debito nello stesso 2011. Nel complesso, però, gli interessi dell’Europa,
non solo economici, anche politici, sono diversi e spesso concorrenziali con
quello degli Stati Uniti.
La diversità, anche lo scontro,
degli interessi è normale, scontata, in America, per il governo e per l’opinione
pubblica. Non invece in Europa. L’Europa ha affidato all’America l’“ultima difesa”,
l’ombrello nucleare, e sotto l’ombrello sta seduta.
L’Occidente vive in un imperialismo
sghembo, al suo interno. Non dichiarato, benché non per questo debole e non
riconosciuto. Nel quale resta il sospetto – il dispetto - che ha accompagnato la
formazione e il rafforzamento dell’Unione Europea, anche se solo in campo
economico, la “Fortezza Europa”.
Beda Romano ricorda oggi sul “Sole
24 Ore” che quando nacque il Consiglio d’Europa, il 9 dicembre del 1984, a Parigi,
perché il Consiglio era stato proposto dal presidente francese Giscard d’Estaing, “l’ex ambasciatore Claude Martin
(collaboratore di Michel Jobert, un “centrista”, n.d.r.) ricorda che gli organizzatori
tirarono le tende della sala «per smorzare i rumori provenienti dalla strada e per
impedire ai servizi americani, che erano con ogni probabilità appostati dall’altra
parte della place de la Concorde, di filmare o di registrare a distanza le
discussioni»”.
Il “Washington Post” tiene una
rubrica settimanale, la domenica, sui processi contro Trump, “il primo ex presidente
degli Stati Uniti mai incriminato”. Questa domenica passa in esame le sue nomine
al ministero della Giustizia. Tre suoi avvocati, di cui il giornale trova a tutti
titoli eccellenti. Todd Blanche, vice-ministro, Emil Bove, sottosegretatio, John
Sauer, avvocato dello Stato. Niente da dire su Pamela Bondi, procuratrice
generale della Florida indicata futuro ministro dopo la rinuncia del primo
nominato, Matt Gaetz, che la Cnn accusa di reati sessuali – se non che è
“fedele da lunga data”.
Uno dei tre, Blanche, è “diventato
specialmente frustrato” dai processi federali contro Trump, e potrebbe
diventare il vice-ministro a capo degli uffici e le persone che hanno lavorato
a questi processi. Sotto scrutinio l’operato del “procuratore speciale” Jack
Smith. Blanche e Bove “dovrebbero riesaminare le inchieste dei procuratori di
Jack Smith e le loro interazioni con gli agenti Fbi”.
La giustizia come forma della
vendetta?
Il “New Yorker” s’interroga sul
processo contro Trump a New York per avere pagato una prostituta. Un processo
dove il neo presidente è stato rinviato a giudizio con 34 capi d’accusa, d a
uan cotr persieduta dal giudice Merchan.
Il cronista del settimanale che ha
seguito il caso dice in breve, dopo molte righe, che il procuratore distrettuale
che aveva esaminato la denuncia, Cyus Vance jr., non l’aveva ritenuta fondata –
uno dei casi “zombie” che vengono riproposti regolarmente, da non si sa chi. Il
suo successore Alvin Bragg, tuttora in carica, invece sì. Ma non dice che il giudice
Merchan, che ha presieduto al rinvio a giudizio, è nominato politicamente, in
quanto democratico (come del resto i Procuratori distrettuali Vance jr. e Bragg)
e che la famiglia Merchan lavora per il partito Democratico.
Il caso potrebbe ora essere
congelato, opina il settimanale. Ma non dice che tra quattro anni Merchan non sarà
più al suo posto.
E non è ipocrisia.
Non un romanzo
della negritudine, né un apologo “nero” dell’imperialismo, un’anticipazione di
Conrad, questo racconto del Dr. Johnson, 1759. Che non era dottore, anche se
con questo titolo l’ha immortalato la biografia più famosa della letteratura, “Life
of Samuel Johnson LL.D.” – era Dottore in Lettere: critico, saggista, lessicografo,
biografo a sua volta, nonché poeta in proprio e, come si vede, narratore. È una
riflessione sulla forza del desiderio. Della curiosità. La vera forza della
vita dell’esistenza. Della ricerca incessante del nuovo. E, perché no, del
diverso.
In questa veste lo presentano i curatori dell’edizione più recente, Marsilio,
vent’anni fa. Una riflessione sotto forma di racconto, di viaggio, sulle radici della
dromomania intellettuale. Del desiderio più che del bisogno – del desiderio che
diventa un bisogno. Che termina con una “Conclusione in cui nulla si conclude”,
in cui ciascuno dei personaggi della storia s’immagina un Altro e un Altrove
ancora da scoprire, non figurabile ma certo.
Un racconto
filosofico che è inevitabile, anche per i curatori, avvicinare al “Candide” di
Voltaire, curiosamente coetaneo. Analogo anche il tema: la ricerca, o l’illusione,
di un eden. Ma senza le arguzie di Voltaire. E senza la sua “modernità”, va
aggiunto. Nelle forme del pessimismo, anche sarcastico. E nella scrittura rapida
- Jonhson è ancora prolisso.
Nell’edizione
Marsilio con testo inglese, ritradotto. Per la cura dei due anglisti di Genova,
Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta. La prima traduzione, quasi coeva alla prima
pubblicazione del racconto, fu di Giuseppe Baretti.
Per la vecchia edizione Sellerio trent’anni fa, per la collana Il Divano,
il curatore Vittorio Orsenigo poneva l’accento su una riflessione filosofica
invertita. Come storia di un Principe destinato alla delusione dall’irrazionalità
del mondo. Di un Dr. Johnson pessimista, si direbbe, invece che ottimista. Di un
Candido vittima del mondo e non della sua propria superficialità (irrazionalità):
“Entrambi esotici nella decorazione narrativa; entrambi di scrittura vivace e
pura, per esser letti; entrambi satire filosofiche della dolorosa irrazionalità
del mondo, che è percorso in un vasto e avventuroso volo; entrambi enciclopedie
dei luoghi comuni del tempo”. Facendo però di Johnson il più moderno: dubbioso “sul
drastico bisturi della ragione, quale medicina. O sulla desiderabilità stessa,
tutto considerato, di una medicina”.
Samuel Johnson, Rasselas, Principe
d’Abissinia, Marsilio pp. 351 pp.vv.
Sellerio, pp. 264 pp.vv.