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sabato 7 dicembre 2024

Problemi di base giustizieri - 835

spock


“Non esistono innocenti ma solo persone di cui non è stata provata la colpa”, Davigo?
 
“Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”, id. (variabile)? 
 
“Dio (è) dei mafiosi”, Scarpinato?
 
“Nel Dio del Vecchio Testamento l’ultimo – e il più terribile – dei mafiosi”, id.?
 
La giustizia è dei giusti?
 
“Il mondo è pieno di brave persone che fanno brutte cose”, Poirot?

spock@antiit.eu

L’Europa all’ora – di nuovo – del tribalismo slavo

È guerra, “delle nazioni contro l’Europa e delle nazioni contro se stesse”, tra America e Cina, “all’interno della stessa America”, di tutti contro tutti, “contro i poveri, contro le istituzioni democratiche, contro la sacralità della Terra, contro la natura che non ne può più di noi, guerra persino contro Dio”. Siamo già morti, e non lo sappiamo?
È guerra contro gli immigrati, benché inermi e affamati. Dei ricchi contro i poveri, e di poveri contro poveri. Non imperiale, di conquista e sottomissione, piuttosto di obliterazione, di sterminio. Feroce, come sono tutte le guerre.
Un racconto lungo una notte, dell’aprile 2024, da mezzanotte alla sei. Sulle guerre che ogni giorno si assommano. Con la premessa: “Con le nazioni ho il dente avvelenato”. Facile. Tanto più per un triestino: facile da “vedere”, fiutare. Dell’“Europa delle steppe”, come lo stesso Rumiz dice, “contro l’Europa dei mari”. Un dormiveglia lucido. È la fine del mondo? No, c’è chi ci guadagna. Ma la “nuttata” certo sarà lunga - anche se Rumiz preferisce l’apocalittica lunga notte di Céline, si tratta piuttosto di un travaglio eduardiano.
“Lo spettro della barbarie in Europa” nelle parole di Rumiz, ispirato, emerge fisico, massiccio. Ma, poi, sono solo parole. C’è un prima, e in qualche modo ci sarà un dopo. Ci sono delle cause. Ci sono politiche, e “piani di azione”, di preferenza surrettizi. Rumiz è un poeta della parola, e non se ne cura. E allora non c’è da preoccuparsi? C’è. Ma in altro modo. Facendo le domande e cercando le risposte giuste, al caso.
A p. 16, la quarta del testo, i primi minuti della prima ora, Rumiz fa l’elenco delle guerre in corso. Molto preciso. Ma ne manca una, quella degli Stati Uniti contro la “Fortezza Europa”. Da trentadue anni, dalle guerre jugoslave. Lo stesso Rumiz, nel 2008, con Monika Bulaj, ne aveva visto i segni (e ne aveva scritto ampiamente, la serie estiva di corrispondenze “L’altra Europa” per “la Repubblica”). E su Israele a Gaza, “uno degli eserciti più professionali al mondo” contro “una specie di ghetto”, propone solo una lista di interrogativi – quando le risposte sono chiare anche nel fronte sionista. Con la verità, poi, non nascosta ma fatta dire a un colonnello dello Stato Maggiore austriaco, Markus Reisner. Storico ma militare, di un Paese che nessuno minaccia anche se non fa parte della Nato. E da Marine Le Pen, pensare, “con cui non condivido quasi niente”, quindi per ragioni forti: che vogliamo, fare la guerra alla Russia? Contestualizzare non allenta la tensione, e forse indebolisce la poesia, ma è necessario – che ne direbbe altrimenti “quella pericolosa volpe di Henry Kissinger”?
Un dormiveglia sulle guerre. nel mezzo dell’Europa, propriamente, fisicamente, sulla linea di confine, con “l’Europa delle steppe”, degli slavi. Cioè con la chiave a portata di mano – non oggi, da quarant’anni. Uomo di frontiera – lui dice di confine, ma col sottinteso che il confine è fatto per essere superato – Rumiz non sopporta il filo spinato. E forse non vede – da Trieste sarà meno percettibile, ma da remoto è invadente – il tribalismo slavo, che non finisce d’imperversare. Che ha aperto e chiuso il Novecento ma all’evidenza non si esaurito, non ha messo di inquietare.
Ma lui se lo dice anche, seppure di passata, uscendo di casa nel borgo alla frontiera, alla fine della prima ora d’insonnia: “Qui, a ridosso dei Balcani, ho scoperto che i nazionalismi sono bestie malate di antagonismo”.
Paolo Rumiz, Verranno di notte
, “la Repubblica”, pp. € 8,90

venerdì 6 dicembre 2024

Ombre - 749

Berlino e Parigi: stop alle multe Ue”, per i ritardi delle case automobilistiche ad adeguarsi alla tabella di marcia del “tutto verde” al 2035. E basta così, è deciso, non c’è bisogno che si pronunci Bruxelles, la Commissione o il Consiglio Europeo.
 
Non c’è scandalo per questo, né “la Repubblica” né il “Corriere della sera”, e nemmeno il, “Sole 24 Ore”, ne fanno un caso. Da criticare era solo il governo italiano quando aveva posto la questione un anno o due fa. Visto da destra, visto da sinistra? No, da una (remota) provincia dell’impero.
Di un impero tedesco, di un impero francese, cioè di straccioni, con l’aria che tira?
 
Unicredit è premiata, per il secondo anno consecutivo, dal “Financial Times” come la banca migliore sul mercato, sotto tutti i parametri. Placherà questo la tentazione politica di metterci mano – passando per l’offerta di acquisto di Bpm? La politica non sente ragioni: basta mettersi di mezzo, qualcosa ne verrà fuori. Magari solo le stesse condizioni che ai deputati fa Bpm di piazza Montecitorio, un interesse sostanzioso sui depositi e uno figurativo sui prestiti.

 
“L’immigrazione legale ha raggiunto il massimo storico durante il primo mandato di Trump”, Hein de Haas, autore di 600 pagine di “Migrazioni. La verità oltre le ideologie”, massima autorità in materia secondo “il Venerdì di Repubblica”, che lo intervista. Sembra un paradosso: lo specialista e la rivista che lo ospita sono per l’immigrazione libera e quindi anti-Trump. Ma de Haas dice giusto: l’immigrazione “legale”.
  
Si apre infine la mostra sul futurismo. Dopo indiscrezioni, critiche, liti. Di parte politica (futurismo = fascismo, sic!) e degli studiosi, antiquari e collezionisti esclusi dal business dell’ordinazione della mostra stessa. Che invece è montata bene, e piace. E allora silenzio. Nei settimanali di Elkann e di Cairo, e nelle tv “private”, compreso il carissmo Sky Tg 24. La “Domenica” del “Sole 24 Ore”, che aveva preparato uno speciale, lo ha cancellato – i contributi pubblicando alla rinfusa, tra “I Manifesti del cinema” e “Il danzatore nudo Spadolini”. Dov’è il fascismo – c’è un Minculpop?  
 
Il presidente del calcio Gravina, per prevenire la giustizia penale, si apre un processo sportivo. E lo affida a Chiné, l’avvocato da lui preposto alla giustizia sportiva – pagato da un paio d’anni per non fare nulla, non avendo ultimamente appigli contro la Juventus. Il calcio sarà pure un’industria, ma di cialtroni.
 
“L’immigrazione può essere un problema anche per l’Islanda”, al voto anticipato, a gennaio. E come può essere, l’Islanda sta là sopra? Sarà a corto di cacciatori di balene? “L’immigrazione ha messo in crisi gli alloggi, e la sanità”. Mah!, in un paese di 350 mila persone, anche meno.
Siamo costernati, poveri islandesi. In Italia invece non c’è un problema, c’è solo il fascismo.
 
Fuochi d’artificio di Biden in uscita. Guerra anche in Siria. Perdono giudiziario al figlio. Cessate il fuoco in Libano con deroghe per Netanyahu. Un presidente sottovalutato? Quante guerre non ha fatto in pochi anni - dopo tutte quelle che ha fatto come vice di Obama? Anche commerciali. Contro l’Europa.
Non ha messo i dazi minacciati da Trump, ma ha fatto di peggio, con le sovvenzioni plurimiliardarie alle industrie americane in America.
 
Stellantis punta su Elkann. Cioè sul fallimento? Su uno che attivamente distrugge ciò che ha, ora la Juventus, dopo Ferrari e Fiat. Con manager insulsi, avvocati, fiscalisti, provinciali, in età. E fallimenti su fallimenti, con spese esagerate a nessun fine. Di incapacità manifesta – il suo club di calcio, il più titolato in Italia, non ha uno straccio di sponsor. In compenso naviga sui social, un build-up incessante. In questo è capace.
 
Si fa grande strepito contro lo ius soli, negando la cittadinanza per almeno vent’anni a italiani nati e cresciuti in Italia, mentre la si dà ad americani alla quinta o sesta generazione dopo l’emigrazione, anche solo per un “consanguineo” collaterale. E un solo giudice si trova che dice no, a Bologna. Che ha risposto “serve un limite di tempo allo ius sanguinis” a chi chiedeva la cittadinanza grazie a  una bisprozia, del 1876, un secolo e mezzo fa. Per avere la pensione sociale. E l’assistenza medica.
 
“la Repubblica” immortala “l’incontro di Prodi e Schlein”. Che a Bologna, la loro città, evidentemente non avevano modo d’incontrarsi. Entrambi immortalati nella foto dell’evento mentre guardano determinati dall’altro lato.  
 
Curioso silenzio sugli islamisti (siriani? turchi?) che attaccano la Siria. Da dove, con che armi, che addestramento. Le normali domande, anche per giornalisti non curiosi - ce ne saranno. Ma nessuno sgarra: c’è un ordine? tassativo?
In compenso si riciclano le pagine sul dittatore Assad – fornite dagli assalitori? hanno agenzie di pr? Il paese degli Assad, Qardaha, che in arabo significherebbe “bestia”, lo zio Rifaat, “il macellaio di Hama”, e B)ashar l’oculista. Non mancano le donne e i veleni.

Un interrogativo se lo sarebbe posto anche un bambino: dopo aver liberato Iraq e Afghanistan consegnandoli agli integralisti, Biden (gli Usa, il deep State) consegna loro anche la Siria? A quelli delle Torri Gemelle, del Bataclan, e degli sgozzamenti? Non bastavano gli ayatollah in Iran?

 
A Sky Tg 24 il professore di Relazioni internazionali, e di Storia dei paesi islamici di Trento, consigliere dell’Ispi di Milano, Pejman Abdolmohammadi, un italo-persiano, spiega in diretta che la guerra  in Siria è voluta da Biden, come precedentemente da Obama, contro un regime che si riteneva filo-iraniano – per ragioni religiose (alauita come sciita). E viene subito congedato, quasi con bruschezza. La spiegazione non è stata contestata, semplicemente la regia ha detto al conduttore di interrompere il contatto.  


“Rivoltare l’Italia come un guanto”, è Landini come Davigo. Estrema destra – guanto, calzino, che differenza fa? E “come un guanto” che similitudine è, che dirà al lavoratore – e chi usa i guanti, da due generazioni almeno?
La lingua manifesta -riflette - la realtà: è ben un sindacalismo da talk-show. Di cui la Cgil è preda. La Cgil.

Venticinque anni fa, insomma nel Duemila, c’erano a Roma 160 sale di cinema. Oggi sono 44. E si riempiono, con parsimonia, un solo giorno la settimana. Un libro ne fa il mesto calcolo, “Fantasmi urbani”, Silvano Curcio. Nella Roma hollywoodiana, anni 1950-1960, le sale in attività erano 250.

Scandalo a Più Liberi più Libri, la fiera dei piccoli editori a Roma, per l’invito esteso a Leonardo Caffo, filosofo, benché sia sotto processo per maltrattamenti alla moglie. Valerio, l’organizzatrice, l’ha prima difeso e poi ha annullato la presentazione scusandosi. Ma la verità non sarebbero le percosse, sarebbe che Valerio e Caffo sono colpevoli di “circolettismo”. L’ultimo ritrovato di superiorità e buona coscienza dei buoni-e-belli della Repubblica. Cioè di farsi reciprocamente favori. Però, che novità. E non c’è altra sinistra.
 
Un senatore piemontese del Pd viene assolto, dopo sei o sette anni, ma ne notizia per caso, sei mesi dopo l’assoluzione. Il Tribunale che lo ha assolto, in camera non in dibattimento, non ha l’obbligo di dargliene notifica – a lui o al suo avvocato.
 
Peggio. Il Tribunale che ha assolto il senatore Pd è romano, e ha decido in un paio di settimane. Il Tribunale che lo ha perseguito è piemontese e ci ha messo sei o sette anni per montare l’accusa e dibatterla (il processo per competenza poi è passato a Roma). A Roma non c’è la nebbia, ci si vede meglio? Niente fumus persecutionis, i giudici sono sopra la legge.
 
Il giorno tanto atteso (strapropagandato) del Black Friday si trasforma in un venerdì nero propriamente detto, con i pagamenti inceppati, dal cavo della luce in Svizzera – i pagamenti inceppati nel giorno delle stravendite. Il mondo potrebbe anche finire per un corto circuito planetario.
 
Sbuffa Merlo su “la Repubblica” perché Mussolini è sempre così tanto popolare: “Da cento anni ingombra le librerie”. Ma non si chiede perché, il bravo giornalista.
Governare è più che assassinare, e perdere le guerre?

Le armi portano ala guerra

Le “armi” del pacifismo sono spuntate. Anche oggi che siamo, seppure a distanza (ma ne paghiamo i costi), in mezzo alle guerre, in Palestina, in Siria, in Ucraina. Spuntate lo erano, al fondo, anche al tempo di Cassola, di questa perorazione, nel 1980. Che però, riproposta oggi, ha un’altra risonanza.
Allora eravamo – l’Europa era – come al di fuori o al di sotto delle guerre, poiché l’unica che si prospettava, seppure remotamente, era quella nucleare, tra i due grandi imperi, Usa e Urss. Oggi quella minaccia non c’è più, e bizzarramente siamo più esposti alle guerre. Alle conseguenze, per ora, delle guerre. E a guerre di tipologie che si pensavano passate e quasi remote, religiose e tribali. È qui che la perorazione di Cassola comincia a mordere: stiamo parlando di noi, dei nostri vicini – non di deep state senza volto e comitati centrali.
Il disarmo è un’utopia – bisognerebbe prima finirla con gli Stati. E non c’è anno che la spesa per armamenti non si accresca. Ma capire che le armi fanno male, questo non sembra impossibile.
C’è anche una ragione di lungo per un appello come questo di Cassola – che fosse per questo motivo è caduto nel vuoto: l’Italia è pacifista. L’opinione, la politica, le stesse forze armate, e la costituzione, sono pacifiste. La leva è volontaria, e i corpi militari sono addestrati a missioni civili, e di pacificazione. Ma – è il problema del pacifismo – questo non risolve: l’Italia non può, non potrebbe, escludersi da una guerra di quelle cosiddette di civiltà. Per l’Europa o per l’Occidente, per due concetti, anche un po’ malandati.
C’è sempre un motivo per farsi guerra. A meno di una guerra contro tutte le guerre. Ma dell’utopia c’è bisogno – ne ha bisogno la stessa Realpolitik. C’è bisogno del domani.   
Carlo Cassola, Contro le armi
, Rogas, pp. 168 € 15,70

giovedì 5 dicembre 2024

Cronache dell’altro mondo - migratorie e meridionalìstiche (313)

La Grande Migrazione, 1910-1970, dagli stati del Sud al Nord degli Stati Uniti, ha invertito negli anni 1970 la direzione: la combinazione di salari competitivi, rendita urbana e dei terreni contenuta, basso costo dell’energia, contributi statali a fondo perduto e incentivi fiscali hanno spostato gli investimenti industriali e nei servizi al Nord al Sud, e con essi la popolazione.
Atlanta, Austin, Charlotte, Nashville, le capitali del Sud, ancora provinciali e melense nei film anni 1970, sono le mete preferite delle giovani coppie ricche e plurilaureate. Attratte da un mix di posti di lavoro ben remunerati, abitazioni dal costo contenuto, e dal clima – dall’opportunità di sport all’aperto.
Il Research Triangle Park della North Carolina, il più grande parco di ricerca degli Stati Uniti, ospita poco meno di 400 imprese e 70 mila operatori. Con un reddito familiare annuo medio di 98 mila dollari. E una popolazione così distribuita: bianca al 57 per cento, nera 17, ispanica 11, asiatica 11. Per lo più di immigrati da altri stati, sei su dieci.
Atlanta, la capitale della Georgia, è l’empireo dei professionisti neri. Con lo sviluppo del Sud le famiglie nere sono entrate, economicamente e socialmente, nella middle class, per lo più professionale. Le borghesie nere del Sud emulano come genere di vita ampi strati della borghesia bianca del Nord.

 

Spoon River di Sicilia

“Sicilia, un niente che pretende di essere qualcosa”. E “la sicilianità altro non è che la presunzione di credersi unici o, nella versione di Sciascia, la metafora del mondo” – “esiste un frammento di mondo che non sia metafora dell’intero mondo?”. Tanto vale dirlo subito, con la conclusione, il succo della riflessione.
Una conclusione folgorante come l’attacco. Con Giufà, il personaggio eponimo della letteratura popolare burlesca – sciocco\saggio suo malgrado in Sicilia, l’isola privilegia il paradosso (l’autore scuserà, ma lui stesso è molto siciliano). Giufà, vedendo la luna riflessa nel pozzo, pensa ci sia caduta e si premura di salvarla – congratulandosi poi con sé quando, alzando la testa, la vede in cielo.
Un porcile con inspiegabili gioielli”, è un’alrra conclusione: “È l’immagine che i non Siciliani e molti Siciliani hanno della Sicilia. Ricosruirne la storia era uno degli scopi di questo libro”. La storia dell’immagine, naturalmente, non della Sicilia. Contrapponendo ad essa “la Sicilia vissuta e raccontata da Vittorini – una Sicilia popolata da Gran Lombardi”, da siciliani fattivi e dedicati.
Ma ci si ariva per un un affascinante autoritratto della Sicilia. Una sorta di autoscatto: un’istantanea ricca di umori, ricchissima.

Il sottotitolo è “Psicoanalsi di un’identità”. In poche pagine una folta serie di problemi e di anamnesi circostaziate. Con abbondanti esumazioni linguistiche a conforto. Specie del Trecento. E poi del Cinque e Settecento.
Perché la Sicilia non sarebbe Italia? Il siculo fu il primissimo italiano letterario. Per Dante la cosa è scontata, risaputa. Nel “De vulgari eloquentia” e nella “Commedia”. Una prima edizione dell’italiano, poi adottato nella vocalizzazione, se non la fonetica, toscana. Il passaggio dal siculo al toscano fu sancito autorevolmente dal veneto Bembo - che fu in Sicilia, si può aggiungere, a Messina, prima che a Firenze. E da allora incontestato. Se non da un Claudio Maria Arezzo (il letterato siracusano-messinese che fu per alcuni anni lo storiografo al seguito di Carlo V), che confuta Bembo. Ma con un intervento, per così dire, in difesa: che non s di dica che la Sicilia è Africa – “mandar fora Siclia di Italia e dil parlar thoscano”. Machiavelli, aggiunge Lo Piparo subito dopo, lo aveva già scritto, anche se nessuno lo sapeva (questa cosa, se è sua, è stata pubblicata postuma): una sorta di Feltri del Cinquecento, “non aveva dubbi: la Sicilia non è italiana” - “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua”). Contro un Bembo peraltro che in effetti ribalta Dante cialtronescamente: fra provenzale e siculo, il toscano è provenzale. Dante, nel “De vulgari eloquentia”, riporta il toscano al siculo come un dato di fatto, dandolo per scontato in mezza riga, e per una ragione semplice: “Perché sede del trono legale era la Sicilia, e pertanto tutto quanto i nostri predecessori hanno prootto in volgare si chiama siciliano”.
Una riflessione polemica, ma piena di chicche. Emizionante la lettura in parallelo tra Vittorini e Tomasi di Lampedusa, tra “Conversazione in Sicilia” e “Gattopardo”, sulle figure femninili, la condizone, i ruoli. Curiosa, e sottovalutata, la chiosa che il siculoitaliano è stato per tre secoli, da metà Seicento, la lingua dei sinodi, e delle attività in chiesa, catechismo e predicazione, e probabilmente confessione, “fino agli anni a ridosso dell’Unità”, quindi per due secoli. O di Gramsci – di cui Lo Piparo è studioso – che di Pirandello, dopo aver visto “Liolà” a Torino, fa l’erede dei riti dionisiaci dell’antica Grecia. O di Marx che sdottora di “Sicily and the Sicilians” in una delle tante corrispondenze ai giornali americani con cui si manteneva, qui alla “New York Daily Tribune”, 17 maggio 18690.
Contro il sicilianismo, la diversità. “I pupi siciliani nascono in lingua italiana”, e prosperano. Ilscialisnmo, siciitudine comoersa, è sterile. Uno Statuto autonomo della Regione Siciliana, e solo della Sicilia, è stata varato in fretta dalla Luogotenenza del Regno il 15 maggio del 1946, ed è stato poi recepito dalla Costituzione, a nessun effetto.
L’approccio è disincantato: la Sicilia è un “fantasma che diventa realtà”. O non è il contrario? “Il mito della Sicilia culturalmente isolata è stato prodotto e diffuso da pensatori e scrittori le cui esistenze smentiscono il mito”. Goethe, alla radice moderna dell’equivoco, col suo “senza la Sicilia non ci si può formare nessuna idea dell’Italia – è qui la chiave di tutto”, va riletto in originale: “Senza la Sicilia l’Italia non lascia nessuna immagine nell’anima”. Non c’è Italia senza la Sicilia sta per dire che nell’isola si assommano bellezza (natura), cultura, cucina – subito dopo la conclusione Goethe parla di clima, paesaggi, gastronomia, arte. Senza strafare – ha appena detto severo delle stavaganze del principe di Palagonia a Bagheria “un niente che pretende di essere qualcosa”.
Insomma, Goethe non c’entra. E il fatto è, può dire in esergo il linguista Lo Piparo con Isidoro di Siviglia, il primo linguista della storia: “Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt”.

L’Accademia Poetica Letteraria di Pura Lingua Siciliana di fine Settecento, i cui statuti sarebbero stati redatti dall’abate Meli, ragiona in italiano, e si dedica in siciliano a un poema del ficodindia – che non redige. Meli, il poeta dialettale per eccellenza, in prosa scrive in italiano – di lui Capuana ha potuto scrivere: ”Bisognerebbe tradurre il Meli in siciliano” (era peraltro uno scienziato, docente di chimica per trent’anni, sempre aggiornato in materia, tra i primi ad aderire alle tesi innovative di Lavoisier).
Un inno, alla fine, l’ennesimo, all’isola, anche se da prefica severa. Nell’intelligenza dell’idea e nella resa narrativa. Severo con Sciascia, in tema di “sicilianità”, l’autore è a sua volta paradossale ma veritiero, a fronte delle montagne di vulgate che seppelliscono la Sicilia. Anche per la frequentazione, vuole che si sappia, dello storico Giarrizzo, personalità poco corriva - lo storico, socialista, del Settecento, della Massoneria, del Meridionalismo, dello stesso Statuto eccezionale, luogotenenziale, del 1946.
L’idea-programma è dichiarata, è la “psicoanalisi di una identità”, e “l’origine continentale della Sicilia moderna”. L’origine linguistica, prima ancora che storica – Lo Piparo è linguista, prima ancora che ottantenne saggio. Forse con una evidenza trascurata: i Normanni chiamati e protetti dal papa pe latinizzare la cristianità del Sud, di rito ancora persistentemente greco-bizantino, malgrado la scomarsa dell’impero. Dopo la debolezza manifestata dai primi riconquistatori, i longobardi. Fatto più evidente forse in Puglia e in Calabria - dove i Normanni ristagnarono per un secolo, guardando la Sicilia che non gli riuciva di abbordare, da terragni, non più gente di mare.
Franco Lo Piparo, Sicilia isola continentale
, Sellerio, pp. 336 € 16

mercoledì 4 dicembre 2024

Secondi pensieri - 549

zeulig


Democrazia – La deriva populista ne ha messo in crisi i fondamenti “scientifici”: etimologici, storici, giuridici perfino. Il governo del popolo. Il governo dele maggioranze.
Su questo fondamento bruto (semplicistico) molto lavoro di affinamento è stato fatto, certo. Di “fondamenti” costituzionali, cheks-and-balance, diritti politici, e civili, e umani, inestinguibili. Il populismo, invasivo e invadente, e perfettamente democratico, anzi “più” democratico, in quanto montante contro i venti e le maree degli ottimati, dell’opinione pubblica dominante, della democrazia established, piena di se stessa e delle sue buone ragioni.   
Oppure resta – ritorna – il fatto base: che le masse, che la democrazia è nata per liberare e salvaguardare, non sono democratiche. Perché oltre la legge del numero non sanno andare. Perché agiscono per “movimenti”, flussi sotterranei, istintivi, superficiali, in tutto quello che si vuole, rozzi e anche indifferenti, entro limiti, alle “regole”- libertà di opinione, di organizzazione, rispetto degli avversari, parità delle minoranze, etc. Tema vieto, ma è il problema delle democrazie  latinoamericame, pure vecchie di due secoli, africane, asiatiche – con la sola eccezione del Giappone, e forse della Corea del Sud. Come è democratico il regime castrista a Cuba, oppure Maduro in Venezuela? Come lo sono le presidenze argentine e brasiliane, sempre alle armi. O in Egitto, altro apese di antica costituzione, dal generale Naguib al generale Al Sisi. O i “regimi” indo-pakistani pur in alternanza con regimi elettivi. O come l’en plein, reiterato, di Berlusconi in Sicilia.
Le masse beneficiano, per così dire, di una letteratura sterminata. Che ha l’intento di esorcizzarle. Non di democratizzarle. Perché allora bisognerebbe interrogarsi sul suffragio universale, sui diritti politici, e l’uno vale uno del politologo comico Grillo. Col problema connesso, per esempio, del suffragio femminile, che ha portato ai regimi islamici, e li sostiene quando sono sfidati, in Iran, in Pakistan, nella stessa Turchia.
 
La democrazia è semplice, è quella che Bobbio dice “minima”, e cioè “un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati” (Il futuro della democrazia”, p. XXIV). E se il cavallo non beve? Di chi la colpa, e come rimediarvi?
Bobbio opina che un equivoco pesa sulla democrazia come su ogni forma politica: che l’uomo è un animale politico. Sottintendendo probabilmente che l’uomo è un animale politico nel senso del “meglio”, del bene ideale, a di là e anche contro i suoi inter essi. La democrazia “minima” propone dopo avere enunciato l’equivoco (ib.): “La mancata crescita dell’educazione alla cittadinanza… si può considerare come l’effetto di una illusione derivata da una concezione eccessivamente benevola dell’uomo come animale politico”. Perché “l’uomo persegue il proprio interesse, tanto nel mercato economico quanto in quello politico”. Può essere vero. Le assemblee ecclesiastiche, nelle quali si è formata e corroborata la procedura democratica del voto, dell’uno vale uno, sono sempre partecipate, gli ecclesiastici sono per il ruolo, sacramentale prima ancora che gerarchico, politicizzati. Ma non sono “educati alla cittadinanza” gli inglesi e gli americani, che votano da alcuni secoli? O i francesi, che fecero la prima rivoluzione popolare e di massa, per l’uguaglianza, due secoli e mezzo fa? E perché il populismo non sarebbe democratico? È perfino costituzionale, anzi strettamente costituzionale, radicalmente, sui fondamenti prima ancora che sugli articoli e i commi.
 
Memoria – Si dilata (estende, approfondisce, irrobustisce) con il digitale, la memoria di dati sterminata di recezione immediata, oppure si comprime?
 
Opinione pubblica - C’è un nesso fra la scarsa propensione al voto, meno del 50 per cento, nelle democrazie “occidentali”, cioè nelle democrazie, e la mancata lettura o il rifiuto dei giornali? Che dal loro canto fanno di tutto per evitare di formare (informare) l’opinione pubblica, recependo e spiegando gli eventi – se non per la parte meno politica, e\o, in qualche modo, anche minimo, pruriginosa (dossier prevalentemente, e “scandali”). Ci sono altri strumenti per formare l’opinione pubblica, il nesso tra avvenimenti pubblici e cognizioni o forme di giudizio private, personali, che sta alla radice del voto – alla comprensione, alla scelta, e quindi al voto? Della democrazia il fondamento è il voto di base, il più possibile libero – cioè formato, ma liberamente, per propensioni, ascendenze, ambiente, ideologie, partito preso, etc..
 
Storia - È nei volti. Si tratta di vederli – leggerli. E. Jünger ne fa la constatazione in Sardegna, guardando passanti e conoscenti. Il doganiere giovane con cui condivide il tavolo alla pensione è “il tipo spagnolo”. Gli altri commensali “hanno sangue moro. Le fisionomie sono olivastre, hanno un’aria interrogativa cupa, oppure brune, sveglie, di una mobilità da lucertola, hanno talvolta anche un taglio netto e nobile”. E dove sono le “impronte fenicie”?, si chiede. “Ci sono sicuramente qui dei fili mescolati al tessuto, e che ci serpeggiano, indiscernibili, anche allo sguardo più affinato. Tanto più che contatti ripetuti si sono prodotti, ancorché separati da lunghe interruzioni: all’inizio ai primi sbarchi di questo strano popolo di commercianti, poi nell’espansionismo cartaginese, infine con l’intermediazione degli arabi, che hanno apportato un nuovo schizzo di vecchio sangue semitico. Non rimane più allora che il motivo, com’è di una melodia spesso ripetuta, e poi dimenticata”.
 
È nei luoghi – sempre Jünger in Sardegna (“Presso la torre saracena” – ora in “Terra sarda” e in “Il contemplatore solitario”). “Storia e preistoria di un’isola come questa si lasciano comprendere per altre vie oltre che per gli studi. Sui suoi monti, nelle scogliere, e nella pace soleggiata, fatta per le lucertole, nelle sue valli, deve ancora sonnecchiare fra gli atomi, nell’intemporale, che nel corso dei tempi si è annodato in disegni di tappezzeria. Devono potersi leggere nel vento e nelle onde, sui visi delle persone e nelle loro melodie, nel modo in cui la sera il fumo dei focolari s’increspa sopra le loro dimore”.
“I tempi passati sono vicinissimi, e che lo siano sempre di più è uno dei doni inattesi, una delle scoperte corroboranti del nostro presente. L’antico e il nuovo sono due qualità, due prospettive umane; l’antico è senza posa presente e il nuovo è sempre stato là”.
 
Il tempo è cambiato, la percezione del tempo. E con essa la storia. Sempre Jünger, ib.: “La maniera sottile e miracolosa con cui noi oggi sappiamo aprirci l’accesso del più lontano passato proviene dalla metamorfosi della nostra percezione del tempo. L’antico e il nuovo sono due qualità, due prospettive umane. Lo sguardo storico vi acquisisce una potenza di concentrazione, di evocazione magica, si fonde con quello del poeta. Questa combinazione dell’umanità più lontana tirata fuori dalle sue ombre, è uno dei nostri spettacoli grandiosi. Che sono, in tutto questo, i ritrovamenti degli scavi e dei documenti? Perché cominciano a parlarci oggi, mentre sono sempre esistiti? Hanno per lo spirito la funzione di talismani, ed è impressionante vedere quando vengono sfiorati, come la lampada di Aladino, che cosa viene fuori dalle arcate dei millenni”.


zeulig@antiit.eu 

Pavese e il mito

Un ritratto di Cesare Pavese, poeta, narratore, traduttore eminentissimo e fertilissimo, manager editoriale (della “vera” Einaudi, quella che fece testo per un paio di decenni), nei suoi luoghi. Riportati in vita con moltissimo materiale di repertorio, degli anni 1930 e 1940, soprattutto a Torino, e nelle Langhe, fino al romano Hotel de la Ville per il premio Strega 1950. Con le persone  che hanno contato per Pavese o ne hanno tenuto e ne tengono in vita la memoria. Con vecchie testimonianze di contemporanei, amici o per qualche verso beneficati – Ferrarotti, Raf Vallone, Fernanda Pivano (ancora lusingatissima e meravigliata dell’attenzione critica che da Pavese ricevette da giovane, come traduttrice dall’americano, e sprezzante contro tutti i pettegolezzi). Con l’esumazione anche di Bianca Garufi, collega alla Einaudi, figura mitica del soggiorno romano di Pavese, per la quale e con la quale scrisse in pochi giorni nel 1947 i “Dialoghi con Leucò”. E il commento qua e là, sintetco e affilato, all’opera letteraria di Pavese di Gabriele Pedullà - un romano che cura molto gli scrittori piemontesi, Fenoglio prima di Pavese. Claudia Durastanti ne magnifica le traduzioni.
Un documentario che invoglia a saperne di più, sull’autore e sul personaggio. La biografia di Pavese è ancora da fare, benché abbia tanti ingredienti per stimolarla: inquietudini, amori, arresti, tradimenti, un iperletterato e uno sportive che si uccide a 41 anni - quella di Lorenzo Mondo, “Quell’antico ragazzo”, è piuttosto una testimonianza. Si sa un po’ – il documentario ne parla a più riprese - del suo “non impegno” politico (scandaloso negli anni 1940, ma adesso?). Mentre non si pone abbastanza attenzione alla sua visione “mitologica” della vita, dell’esistenza – come Nietzsche, anche se non c’è alcun punto di contatto. Un bisogno già forte, nel diario e nei primi racconti, nei mesi di confine politico che passò a Brancaleone in Calabria (visse nel borgo sperduto tra reminiscenze greche, e mitizzava le servette). E in questa dimensione, più nel mito che nella storia, confuso e inetto nelle relazioni affettive (pari pari come Nietzsche mezzo secolo prima di lui): appena una donna sorrideva, si proponeva di sposarla.
Una scena da grande cinema Gagliardo s’inventa a metà del documentario, che sembra anch’essa di materiali d’epoca e invece è girata dal vivo: la balera. Con le canzoni d’epoca, la cantante che si atteggia a cantante, chi si limita a bere il suo mezzo bicchiere, chi gioca a bocce, e i tanti che ballano: una girandola di personaggi che si veste, canta, parla, balla come usava.  
Giovanna Gagliardo,
Il mestiere di vivere

martedì 3 dicembre 2024

Il mondo com'è (480)

astolfo


Anton Coppola – Antonio Francesco Coppola all’anagrafe, zio del regista del “Padrino”, ricordato dal maestro Pappano nelle memorie, “La mia vita in musica”, come uno di quelli che “riuscivano miracolosamente a mettere su un allestimento nel giro di pochi giorni” – un allestimento d’opera, opera complessissima – è stato compositore di successo negli anni giovanili, prima della guerra. Autore in particolare dell’opera lirica “Sacco e Vanzetti”, sul caso della condanna degli anarchici italiani che divise l’opinione.
Fu musicista (flautista, direttore d’orchestra, compositore) anche il fratello Carmine, il padre di Francis Ford, il regista.

 
Italia Coppola – Italia Pennino, la madre di Francis, era anche lei legata alla musica. Era zia di Riccardo Muti – una prozia. Figlia anche lei di musicista, il compositore di canzoni napoletane Francesco Pennino. Fu paroliera di canzoni famose per i film di Francis Ford, “Non ci lasceremo mai”, per il matrimonio di Connie nel “Padrino”, “Ninna nanna a Michele”, con musica di Nino Rota, per il “Il padrino parte II”, e “Come Back to Love (the Chief’s Death)” per “Apocalypse Now”. Oltre che di molte canzoni per le colonne sonore del marito Carmine, per “The Black Stallion”, un film di avventure per bambini del 1979, “Napoleon”, il capolavoro di Abel Gance che Francis Ford ha recuperato e restaurato nel 1981, affidandone il commento musicale al padre (un’esecuzione a Radio City Hall, con grande orchestra), e “I ragazzi della 56° Strada” (“The Outsiders”) dello stesso Francis Ford, 1983. Da ultimo divenne un personaggio, pochi anni prima della morte, a 91 anni a gennaio del 2004, con un best-seller sulla cucina italiana, “Mama Coppola’s Pasta Book” – aveva grande fama di cuoca.
L’annata 1998 del vino zinfandel dei vigneti che possedeva prima di venderli per il suo ultimo film Francis Ford Copola aveva battezzato Edizione Pennino. E col nome di “Mammarella” ha lanciato una produzione, tuttora attiva, di piatti pronti “organici”, di pasta variamente condita. Spiegando che Italia si faceva così chiamare dai nipoti, piuttosto che nonna, grandma, che la faceva vecchia (il maestro Muti stigmatizza domenica sul “Corriere della sera” l’uso in America di legare l’italianità alla “mamma”: “In America le trattorie hanno sempre il nome della mamma: Mamma Maria, mamma Rosa…”).
 
Giusy Devinu – Presto dimenticata, morta di soli 47 anni, nel 2007 (la ricorda solo Pappano. “La mia vita in musica”, come “scomparsa troppo presto”) è la soprano cagliaritana che fu Violetta nei migliori teatri, a Spoleto, la Fenice, la Scala, e a Parigi. negli anni 1980.   
 
Delitto Matteotti – Mussolini, ligio allo Statuto, ne riferì in Parlamento, prendendosene la responsabilità. Dopodiché passò al regime, promulgando la legislazione totalitaria. Un salto di cui tutte le storie del fascismo danno ovviamente conto, ma senza un perché – uno specifico, per la situazione, il momento. Un dettaglio non indifferente è fornito a Aldo Cazzullo sul “Corriere della sera” da Margherita “Magalì” Sarfatti, nipote dell’omonima amante e ispiratrice di Mussolini. A proposito dell’“orrendo delitto Matteotti” che cosa disse la nonna a Mussolini? “Gli consigliò di non indietreggiare, anzi di assumersi tutta la responsabilità politica dell’accaduto. Lui lo fece. E approfittò di quell’assassinio per instaurare una dittatura”. Considerando l’opportunismo e la costante incertezza dell’uomo Mussolini, un passo da non sottovalutare.


Fairbanks, Alaska – È la città, la seconda più grande dell’Alaska, ora di 32-35 mila abitanti, di un emiliano, Felice Pedroni, un immigrato giovane e avventuroso, che la rese ricca appena fondata con l’oro. Il fondatore – il primo costruttore di abitazioni nel deserto di fango e capanne – fu un Elbridge Truman Barnette, di cui nulla si sa, nel 1902. Che qualche tempo dopo battezzò le sue case con questo nome, dal vice-presidente degli Stati Uniti in carica con Th. Roosevelt dal 1905 al 1909, Charles W. Fairbanks, repubblicano. Probabilmente per ragioni di comune loggia o appartenenza massonica, nel Rito scozzese antico e accettato, di cui Fairbanks era Gran Maestro. Felice Pedroni è una sorta di “patrono” laico della città, poiché nello stesso 1902 che si costruivano le prime case scopriva nel territorio adiacente la prima miniera d’oro: diede ricchezza all’agglomerato, ed è per questo ricordato, anche se morì poco tempo dopo, nel 1910.
Tutto Pedroni aveva fatto in poco tempo. Il 22 luglio 1902 aveva scoperto il filone d’oro nel greto di un torrente oggi denominato, a suo ricordo, Pedro Creek. Subito ottenne la concessione per l’estrazione dell’oro. E l’8 settembre poteva fondare nella sua baracca un Distretto Minerario di Fairbanks, di cui si portò presidente. Presto organizzò anche un viaggio in Italia, per trovare moglie, da ricco. Non tornò al suo paese, Fanano, nel modenese, troppi brutti ricordi, provò nel bolognese, a Lizzano in Belvedere, dove si propose ad Egle “Adelinda” Zanetti. Che però non poté sposare, una vita in Alaska non lusingando né Adelinda né la sua famiglia. Tornato a Fairbanks, sposò una ballerina di saloon, donna che presto trovò “incontentabile”, una irlandese, Mary Ellen Doran. Che pretese anche una residenza, un ranch, nel continente, nello stato di Washington. Senza però dargli pace. Prima di morire, Pedroni ebbe anche a litigare col socio con cui aveva messo in valore la miniera, in tribunale.
Fairbanks lo ricorda ogni anno nella manifestazione detta dei Golden Days, i giorni dell’oro: si fa una gara per scegliere un sosia di Pedroni, che poi entra in città a cavallo, e va a depositare in banca un sacchetto pieno d’oro. Anche Fanano, che si è gemellata con Fairbanks, ne onora la memoria, con una targa che ricorda la traslazione delle sue ceneri nel 1972 al locale cimitero. E in suo onore la locale trattoria è stata ribattezzata “L’osteria dell’emigrante”.
Orfano di padre, rifiutato, pare, dalla famiglia di una ragazza cui si era proposto in matrimonio perché povero e ignorante, era emigrato a 23 anni. Dapprima in Francia, nel 1881, poi, nello stesso anno, negli Stati Uniti. Lavorando da bracciante, e poi da minatore. Scoppiata la febbre dell’oro, nel 1894 si trasferì in Canada, e da qui pochi mesi dopo nel bacino dello Yukon, cioè in Alaska. Ebbe fortuna solo sette anni dopo, avendo resistito alle condizioni climatiche proibitive della regione.

Grande migrazione – Dal 1910 al 1970 circa sei milioni di afroamericani sono emigrati dal Sud degli Stati Uniti al Nord. Da North e South Carolina, Georgia, Tennessee, Mississippi, Louisiana agli stati americani del centro-nord. Specie nelle città, che videro così la formazione di ghetti neri, quartieri a popolazione principalmente nera – specie a New York (Harlem), Chicago (Bronzeville – ma Chicago ha anche il soprannome di “città nera”, fu la destinazione prescelta da almeno mezzo milione dei sei milioni censiti nella Great Migration), Detroit (oggi in grande maggioranza, fra l’80 e il 90 per cento, abitata da afroamericani), e Cleveland, in Ohio.
Nel 1910 gli Stati Uniti contavano 13 milioni e mezzo di immigrati, il 14,5 per cento della popolazione, quasi tutti dall’Europa. La riduzione del flusso europeo, nel primo Novecento, portò a un incremento dell’immigrazione asiatica. Che però non era gradita – negli Stati Uniti era dominante l’eugenetica: contro di essa si vararono leggi restrittive dell’immigrazione. Per il contemporaneo sviluppo industriale del Centro-Nord la migrazione dall’Europa fu sostituita da quella interna, la Great Migration.
Dall’indipendenza, da quando si fecero statistiche demografiche, ne1 1780, fino al 1910, oltre il 90 per cento degli afroamericani viveva negli stati del Sud. In particolare in Louisiana, South Carolina e Mississippi. Nel 1970 restava al Sud poco più della metà degli afroamericani. E anche loro si erano urbanizzati: nel 1900 solo un quinto degli afroamericani del Sud viveva in aree urbane. Nel 1970 più dell’80 per cento, per lo più in aree urbane di grandi dimensioni, nelle città.
 
Anton Guadagno – Ricordato anche lui, come Anton Coppola, da Pappano in “La mia vita in musica” come uno di quei musicisti italiani in America che “riuscivano miracolosamente a mettere su un allestimento nel giro di pochi giorni”. Nativo di Castellammare del Golfo (Palermo), è stato direttore del Metropolitan di New York e della Wiener Staatsoper per l’opera italiana.
 
Jim Crow – Le leggi Jim Crow sono un sistema di leggi locali, e degli Stati meridionali degli Stati Uniti, che a cavaliere del 1900 crearono l’apartheid per gli afroamericani. A opera del partito Democratico. Sotto la sigla “uguali ma separati”. Con la separazione in tutti i servizi pubblici (trasporti, ristorazione, sanità, igiene) e privati (domestici e sociali). Un regime non istituito, non dichiarato, che tuttavia canonizzava legalmente la separazione nelle scuole, nei trasporti, nei luoghi pubblici (parchi, bagni, bar, ristoranti). E nelle forze armate.
Succedevano ai “codici neri”, applicati dall’indipendenza fino alla fine della guerra civile, nel 1866, che già avevano ridotto i diritti degli afroamericani.  
Le leggi Jim Crow furono dichiarate incostituzionali dalla Corte Suprema nel 1954. Con una sentenza che verrà applicata solo dieci anni più tardi, nel 1964, dalla presidenza di Lyndon Johnson, il vice e successore di John Kennedy, col Civil Rights Act. Dopo un decennio di protesta civile, animata dal reverendi Martin Luther King, Ralph Albernathy e altri, a partire dal famoso episodio di ribellione di Rosa Parks, una giovane nera che si rifiutò nel 1955 a Montgomery, Alabama, di cedere il posto in autobus a un bianco, e fu per questo arrestata. Ma ancora nel 1965 si registrava un
Bloody Sunday – in realtà due repressioni violente, una di domenica e una di due giorni dopo, per impedire una marcia di protesta, pacifica, da Selma a Montgomery, in Alabama, per protestare contro il governatore dello Stato. Il 7 marzo 1965 la polizia di Selma e una squadra armata di cittadini bianchi attaccarono la marcia appena partita, di 500-600 persone, ferendone una cinquantina. Da qui il bloody Sunday con cui è ricordata - un evento molto amplificato perché in diretta televisiva per tutto il Paese. Due giorni dopo gli organizzatori ritentarono la marcia, ma ne furono bloccati alla partenza. Dopo lunghe trattative, la marcia fu effettuata il 21 marzo, e dopo quattro giorni si concluse, pacificamente, a Montgomery. In agosto il Civile Rights Act del 1964 fu implementato di un Voting Rights Act, chiudendo del tutto la stagione del separatismo.

astolfo@antiit.eu

Giallo Napoli, macchietta

Vincenzo Palmieri, ispettore di polizia, torna a Napoli dopo un comando Europol da lui cercato a Stoccarda, col tormento sempre del camorrista, “O’ Muschillo”, che ha assassinato i suoi genitori, onesti commercianti, e si dice morto in Brasile. A Napoli sa risolvere i casi che via via si presentano all’antica, attraverso la rete di conoscenze e delinquenti minori. Entrando in urto con i canoni regolamentari, impersonati dalla sua capo. Una donna sola, che si passa le notti con compagnie scelte online, sempre insoddisfatta, ossessionata dai punteggi per la promozione.  
Salvatore Esposito impersona l’ispettore con la giusta misura – la bonomia sopra il tormento. Nel fisico e nel soprannome evoca Bud Spenser-Carlo Pedersoli, e la tetralogia che girò dal 1972 al 1980 con Steno, “Piedone lo sbirro”. Ma in una Napoli che la miniserie fa “recitata”: da macchiette, caratteristi senza misura e non controllati. A cominciare dalla commissaria. Un ambiente e una recitazione stranamente in contrasto con le scene d’apertura, a Stoccarda, dove tutto è invece agile, sintetico, legato, e in medias res, allusivo il giusto. Il plot¸la scoperta delle modalità e degli autori del delitto del primo episodio, prende una o due scene, due o tre minuti dell’intera serata.

Alessio Maria Federici, Piedone – Uno sbirro a Napoli, Sky

lunedì 2 dicembre 2024

Problemi di base epocali - 834

spock


“L’Europa deve cambiare, oppure sarà una lenta agonia”, Mario Draghi?
 
L’Europa è una strana creatura, muore da tanti anni?
 
Ma come fanno Wwf, Legambiente, Fridays for Future etc.  a raccomandare pale eoliche e pannelli solari?
 
L’ambiente va protetto distruggendolo?
 
Le sparatorie fra adolescenti a Napoli erano prima di “Gomorra”, il film, o sono venute dopo?
 
“Nulla ci appartiene, solo il tempo è nostro”, Museo Diocesano Santa Severina?

spock@antiit.eu

Giallo squallore

Una periferia grigia e umida, sporca. Filippo Timi invecchiato e stanco. Una caccia senza indizi a un assassino volubile, seriale, plurimo, sterminatore di intere famiglie. Se non una sfida in stampatello. Tutti i delinquenti dei dintorni sono sospetti, ma le prove calligrafiche sono inutili. Molta atmosfera, di squallore, e poco altro. Il pezzo forte della prima puntata è la colonoscopia di Timi, se è lui: bel lato B.
Sembra un esercizio registico, controvoglia. I D’Innocenzo lasciano la loro firma. Ma su una sceneggiatura, forse su un soggetto, inafferrabile.
Damiano e Fabio D’Innocenzo, Dostoevskij
, Sky

domenica 1 dicembre 2024

Ma queste guerre tra arabi sono molto “nostre”

Ci sono “guerre” tra sunniti e sciiti, compresi gli alauiti un po’ sciiti. E ci sono da qualche tempo jihad, guerre sante. Anche tra fratelli. Ma a questo punto, col jihadismo sunnita che parte dalla Turchia, dove si è addestrato ed è stato armato, troppe cose che erano nell’ombra e vengono alla luce non quadrano. È un jihadismo strano, non per la religione e non per la democrazia. Perché “gli arabi” sono fatti così, saltano sul tavolo e lanciano le tribù? No, quello è Lawrence d’Arabia, un film di masse: gli arabi non sono cretini, anzi piuttosto calcolatori. Il jihadismo ha messo e tiene in subbuglio il Mediterraneo orientale: è una spina nel fianco dei suoi stessi regimi, e del fianco Sud dell’Europa, organizzata e armata da non si sa chi, ma non nel vuoto. Evidentemente.   
Il punto di partenza è che in Turchia non si prepara una jihad di soppiatto: ogni atto è registrato, e represso, in Turchia. Anche un divieto di sosta nella più sperduta campagna attiva immediatamente un fischietto. Ma, poi, niente quarta del sommovimento arabo da venti anni a questa parte. Dalle “primavere arabe” della presidenza Obama, che hanno ribaltato i regimi militari arabi che gli stessi Stati Uniti avevano portato al potere negli anni 1960, in funzione anti-britannica. Col risultato che al Cairo un generale è succeduto a un altro generale dopo un paio d’anni di Fratellanza Mussulmana, che gli Stati Uniti ci assicuravano democratica, ma soprattutto si dedicava al velo e alle chiese, da incendiare o bombardare. In Libia è stato compiuto il disastro che sappiamo. In Iraq e in Siria la liberazione si è fatta aprendo la strada ai jihadisti. Aberrante: lo sciismo a Baghdad rischia di avvicinare l’Iraq all’Iran e il regime Assad in Siria, alauita quindi un po’ sciita, non è democratico, ma sostenere i jihadisti sembra aberrante. E però è stato fatto. E come tutto mostra si continua a farlo.
Dice: ma Assad si è messo con Putin. Sì, ma chi ce l’ha costretto? E che sostegno dà, può dare, a Putin?
Le guerre di Bush jr. all’Afghanistan e all’Iraq si potevano in qualche modo giustificare come una reazione, ance se bizzarra, all’attacco alle Torri Gemelle – il primo atto di guerra subito dagli Stati Uniti in territorio americano in oltre due secoli di storia. Ma le guerre-non-guerre di Obama nel Mediterraneo nei quattro anni della terribile Clinton al Dipartimento di Stato, riprese da un incredibile, se non fosse reale, Biden, hanno reso invivibile mezzo Mediterraneo. E non può essere un caso – una serie di errori? No, l’America sa quello che fa: analizza, discute, decide, programma, ordina, ha una politica estera, perfino ferrea.
Ora il messaggio è che i jihadisti turchi (??) ci libereranno da un regime asservito all’Iran e ala Russia. I jhadisti? Gli avranno pure insegnato a non tagliare più le teste, non in videoconferenza, ma cosa si costruisce col jihadismo?
Né bisogna dimenticare il passato, che non è fantasmatico. Quando Al Qaeda veniva organizzata e armata dagli Stati Uniti, contro la Russia. O il Gia algerino, Groupe islamique armé, che provocò 200 mila morti (e forse 500 mila), che aveva sede a Chicago – e a Londra si poteva fare pubblicità con un giornale, “Al Ansar”.

Palestina senza pace, già un secolo fa

Il rapporto impossibile, nella Palestina anni 1930, tra il capo della polizia britannica a Tel Aviv, città fondata dai sionisti ebrei, di nuova immigrazione, e una giornalista ebrea. Tra ebrei immigrati, i “sionisti” in cerca di una patria, di destra (“fascisti”) e di sinistra (“socialisti”), e i palestinesi, e tra sionisti e palestinesi contro il protettorato britannico. Con atentati quotidiani, tra ebrei e arabi, e contro i britannici. Londra decide di passare alle maniere forti, con esecuzioni sommarie per i colpevoli di terrorismo. E il rapporto fra il mite ispettore di polizia di Tel Aviv e la brillante e combattiva sionista giornalista ne soffre. Una soriace ptede molto – con poche cadute (la spitya scena di sesso, il r apportos entiment ale, romantic, tutosomato freddo.
Un film storico e politico. Che però prende molto. Disteso e insieme serrato, di episodi tutti per qualche motivo avvincenti. Anche perché girato, inconsapevolmente?, alla vigilia della guerra in Israele e a Gaza, e su questo sfondo ancora più interessante. Con poche cadute: la solita scena di sesso, la brutalità del terrorismo, e dell’antiterrorismo, e la stessa storia d’amore tutto sommato fredda, all’inglese?, non sentimentale, non romantica. .
Con un curioso sottoquadro politico. Il racconto è visto da Tel Aviv, quindi in ambito ebraico, nei rapporti fra organizzazioni sioniste, e fra i sionisti e i britannici. I primi divisi tra Haganah, un movimento paramilitare legalitario, e Irgun, un gruppo terrorista estremista, contro arabi e britannici indistintamente. Organizzazioni note sulle quali il film semplifica, e un po’ tradisce i fatti. Dice Irgun un gruppo terrorista fascista ispirato da Žabotinskij, e Žabotinskij un mussoliniano. Mentre Žabotinskij non era mussoliniano, benché avesse tentato un appoccio verso Mussolni, per la sua politica anti-inglese (ma filoaraba). E non era per il terrorismo. E idealizza come intellettuale e poeta Abraham Stern, che fu invece l’aedo e l’organizzatore del terrorismo più crudo, nonché fautore durante la guerra di una alleanza stretta con Hitler in funzione anti-britannica in Palestina.
Non un errore, poiché i fatti sono noti, e incontestati, ma una scelta. Perché Žabotinskij era russo e e Stern polacco? Non sarebbe un caso: da sempre, dai tempi di Kim”, l’Inghilterra si fa un’epopea della guerra sotterranea alla Russia. Mentre ha sempre sostenuto, anche se male, e tuttora sostiene, anche se non a buon fine, il revanscismo polacco – l’“armiamoci” in Ucraina è placco e inglese.   
Michael Winterbottom, Shoshana
, Sky Cinema, Now