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Giuseppe Leuzzi
Scrivendo alla cognata
Tania l’11 maro 1927, per raccontare la traduzione carceraria da Palermo a
Ustica, Gramsci si può dire sorpreso da una sorta di leghismo alla rovescia: “Le accuse che i meridionali in genere muovono contro i settentrionali
sono terribili: li accusano persino di cannibalismo. Non avrei mai credito che
esistessero tali sentimenti popolari”.
La logica del Sud – poco seria
L’ambasciata russa fa pubblicare a Reggio
Calabria, a cura di Enrica Perucchietti e Umberto Visani, “Le vere cause del Conflitto Russo Ucraino”.
Un volume che si presenta per denunciare “questo vile, sanguinoso decennio di storia
ucraina”. Con un testo di Putin, 2021, prima della guerra, “sull’unità storica di Russia e Ucraina”, e
altri “di filosofi e pensatori russi” sullo stesso tema – Putin vi assicura che “la Russia non è mai stata e
non sarà mai «anti-Ucraina»”. E presenta
il libro sempre a Reggio Calabria, con un saluto dell’ambasciatore
Paramonov, per denunciare “il colpo di Stato verificatosi a Kiev” nel 2014, “a seguito
del quale si sono impadroniti del potere personaggi apertamente radicali e nazionalisti”, per
fare, dichiaratamente, “guerra alla Russia e a tutto ciò che è russo: alla lingua, alle tradizioni, alla storia,
alla regione, alla cultura e ai valori”.
A Reggio il volume è stato presentato dal
Centro Studi Federico Caffè. A un pubblico di un centinaio di persone - molte a Reggio, alla presentazione
di un libro. Compresi, dice il comunicato, “molti ucraini”. Un Centro creato per “tenere viva
la riflessione dell’illustre economista”, dello sviluppo (del benessere) nella libertà. Che ha debuttato al
Castello di Scilla due anni fa, presentato da due economisti e due musicisti, il musicologo Antonello
Cresti e il tenore Francesco Anile, che ne è il fondatore e il presidente. All’insegna della
“promozione della libertà”: “Federico Caffè – prosegue la presentazione - è stato un economista
di ispirazione keynesiana, che già negli anni ’80 metteva in guardia dai pericoli della finanza speculativa”. Un’apoteosi – anche se Reggio non si è
(ancora) scoperta un’anima ortodossa, nel senso della religione? C’è sempre un fondo giocoso - scherzoso, ironico, satirico – nello
storytelling in Calabria, perfino nella compassata Reggio Calabria, e al Sud. Il Sud è adattabile – “poroso”
direbbe Walter Benjamin: aperto a tutte le brezze, ecumenico? Non dell’ “o….o” della logica, che
irritava il pur teutonico Günter Grass, ma dell’ “e….e”. Non vuol essere apodittico –
non vuole essere serio. Senza ragione?
La scoperta del Mediterraneo
“Il
Mediterraneo è una grande patria, una dimora antica. A ogni mia nuova visita me
ne accorgo con evidenza sempre maggiore. Che esista anche nel cosmo un
Mediterraneo?”, si chiede Ernst Jünger scoprendo nel 1954 la Sardegna, sotto la
data del 22 maggio (“Terra sarda”, p. 90).
Un
luogo comune – già, tra i tanti, di David Herbert Lawrence un secolo fa, più o
meno, il celebratissimo ora dimenticato autore di “Women in Love” e “L’amante
di Lady Chatterley” - ma con un altro spirito. Una sorta di scoperta anche perché
la storia è fatta secondo la geografia politica, quindi delle nazioni e dei
continenti, e non c’è un continente Mediterraneo, ci sono l’Europa, l’Africa,
l’Asia, e ora l’America.
Apparentata
a questa “scoperta” geopolitica c’è nella stessa circostanza, nella stessa
riflessione (“Terra sarda”, p. 107) la scoperta di una diversa “parlata”, o linguaggio,
o logica colloquiale, mentale: “Una volta raggiunte le strade sicure (lo scrittore
fa trekking lungo alcuni costoni col fralello della sua
ostessa, della “signora Bonaria”, n.d.r.), prendemmo a conversare
piacevolmente, e di nuovo mi colpì la stabile direzione, il consueto binario
sul quale si muoveva la conversazione con un interlocutore neolatino. Assai più di rado di quanto non
avvenga in un colloquio con gli altri deu grandi tipi umani di questa nostra
parte del mondo, i Germani e gli Slavi, essa tocca un argomento non collaudato.
Ogni frase è moneta contante, ha un suo peso determinato e misurato. Negli
argomenti più elevati ciò è reso più evidente dalla inamovibilità dei concetti;
essa costituisce il fondamento del lingaggio giuridico di livello superiore e,
in genere, di ogni definizione dei fatti”.
Non
nuova anch’essa, ma ben detta, la conclusione: “Perciò è da supporre che in
questi paesi, malgrado tutte le rivoluzioni possibili, lo stile di vita si
modifichi in misura minima”. Sono cambiati i proprietari, “ma la proprietà
resta, poiché è radicata nella struttura del pensiero. Perciò la vita in queste
plaghe suscita un’impressione di atemporalità”. Con una distinta fertilità di “grandi
spiriti conservatori: qui regnano, nell’orientamento del pensiero, il limite e
il senso del limite”.
E
ciò riguarda l'Italia. Ma ormai soprattutto o soltanto il Sud.
Cronache della
differenza: Sicilia
“La Sicilia non è Italia” è, prima
degli uomini di Cavour, e di Vittorio Feltri, di Machiavelli, “Discorso o Dialogo
intorno alla nostra lingua”. Per imperialismo toscano, anzi fiorentino. Machiavell
se la prende con Dante, che nella questione della lingua (volgare) pagava un
tributo al siculoitaliano, e al toscano, mentre la vera lingua sarebbe il fiorentino.
Ma è un Machiavelli spurio – postumo, e certo non linguista.
“Un porcile con
inspiegabili gioielli. È l’immagine che i non Siciliani e molti Siciliani
hanno della Sicilia”, può dire il linguista Lo Piparo a conclusione della sua
indagine “Sicilia isola continenale”. Imnagine a cui contrappone, in breve, “la
Sicilia vissuta e raccontata da Vittorini. Una Sicilia popolata da Gran Lombardi”,
da siciliani fattivi e costanti.
In “Lettera dalla Sicilia al
buonuomo della luna” E. Jünger menziona “una risalita per le gole del Monte
Gallo” – ignoto ai più, si trova a Palermo, ed è una riserva naturale, ricca di
mammiferi più che di picchi: “una comba (una valle stretta, in linea con una
piega geologica anticlinale, n.d.r.) serrata tagliata nella roccia nuda”.
Niente di che. Ma con “un linguaggio di pietra” che “s’impadronisce del viaggiatore
più impersonalmente di quanto potrebbe fare un paesaggio puro e semplice, o in
altri termini, un tale paesaggio dispone di virtù più profonde”. La Sicilia è
un tutto, che “segna” anche l’impercettibile.
Contro la sicilitudine Tomasi
di Lampedusa, siciliano cosmopolita e poliglotta, professa anche in conclusione
del “Gattopardo”, quando don Fabrizio così spiega il suo rifiuto a farsi fare senatore
dal nuovo Stato (pp. 216-217): “I Siciliani non vorranno
mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere Perfetti; la loro
vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei, sia per origine
sia anche, se Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro
vaneggiare di aggiornata compitezza, rischia di turbare la loro compiaciuta
attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti, essi credono
di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi”.
Ai soldati inglesi che gli
chiedono dei liberatori garibadini, don Fabrizio ha già risposto, in inglese: “They
are coming to teach us good manners… But they won’t succeed, because we are gods”
– sarcastico con i liberatori, e sarcastico con i siciliani.
Mai lasciarsi sfuggire una
battuta, soprattutto se cattiva – seppure da circolo dei nobili, a cirolazione
limitata cioè, ininfluente. Camilleri ne era maestro, come già lo Sciascia
“maestro” – ma da osservatori esterni. Lo stesso Tomasi di Lampedusa, viaggiatore
e tutto, non se ne perde una: il bon mot fa la conversazione ed
esaurisce il tempo, la storia.
Lampedusa, solitamemte
ritratto come un nobile decaduto, era uno che aveva visto il mondo, viaggiatore
curioso, e aveva sposato una baronessa russa. Una “tedesca del Baltico”
(Estonia), di madre italiana a Parigi, la mezzosoprano modenese Alice Barbi,
interprete di Brahms e Dvořák. Una donna che sarà la prima psicoanalista nell’isola, e
forse in Italia. Il romanzo si può leggere come una satira, anche feroce: “La
ragione della diversità”, fa concludere a don Fabrizio, “dev’essere in quel
senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi
chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità”.
Gramsci è per la differenza.
Per l’omertà - lettera 11 aprile 1927 alla cognata Tania, su una traduzione carceraria
da Palermo a Ustica: “È incredibile come i siciliani, dal più infimo strato
alle cime più alte, siano
solidali tra loro e come anche degli scienziati di innegabile valore corrano sui
margini del Codice Penale per questo sentimento di solidarietà”.
E ancora – da
sardo-piemontese?: “Mi sono persuaso che realmente i siciliani fanno parte a
sè; c’è più somiglianza tra un calabrese e un piemontese che tra un calabrese e
un siciliano”.
Alla scoperta della Sardegna nel 1954, Ernst Jünger conclude
il diario (“Terra sarda”, p. 151-152) con l’inevitabile confronto con la Sicilia,
che già conosce - scontato ma non inutile. In Sardegna la storia è “discreta”,
in Sicilia “l’eroico e il tirannico hanno lasciato di sé tracce possenti. La
differenza è inconfondibile anche nel carattere della popolazione. Paragonata
alla Sicilia, la Sardegna è una retrovia, un teatro di provincia”. Perciò in
Sardegna “è difficile trovare un solo grande nome, mentre i personaggi famosi
connessi con la Sicilia si affollano”.
leuzzi@antiit.eu
I debitori anziani dei prestiti studenteschi devono rimborsare 121
miliardi di dollari.
Il debito cresce con l’età, attraverso allungamenti delle scadenze e rinegoziazioni,
e tra i segmenti più in rapida crescita del programma governativo di credito
agli studenti sono i più anziani. Le cui pensioni sono soggette per questo a pignoramento.
Gli ultimi dati pubblicizzati mostrano che oltre la metà degli americani
pensionati titolari di prestiti studenteschi federali, 1 milione e mezzo di persone,
ha acceso il prestito oltrte qinidi ani prima. Quindi ha pagato oltre quindici
ratei annui.
Inoltre, questa statistica conferma che il numero degli anziani ancora
debitori di prestiti studenteschi cresce invece di diminuire. Per un’estensione
indefinita del termine di ripagamento standard di dieci anni, come previsto dalle
norme federali in materia di prestiti allo studio.
Non è come si
dice, che “morto un papa se ne fa un altro”, non è così semplice. Questa è la
storia di un conclave “vero”, benché inventato: Robert Harris ha non solo gli strumenti
giuridici (procedurali) necessari - come tutto ciò che è “romano”, si può dire,
dopo “Pompei” e la trilogia ciceroniana - ma anche la perspicacia e la sensibilità
di analizzare e presentare il conclave come oggi si presenta. Come si presenterà:
scrivendone nel 2015 antivede la successione del papa Francesco. Che caratterizza
in anticipo come sarà nei dieci anni successivi – come era già stato nei tre anni
scarsi di pontificato, dal 13 marzo 2013. Nei particolari: la modestia esibita,
l’individualisno, esacerbato dalla diffidenza (il plot gira attorno al
vezzo della segretezza del papa defunto), e i troppi cardinali, la profluvie di
nomine cardinalizie (l’ultima è di tre settimane fa….) per annacquare l’aria
europea e curiale della Chiesa. C’è già anche l’alloggio di Santa Marta, pretenzioso
e scomodo malgrado le pretese di semplicità.
“Non abbiano
bisogno di una Chiesa che si muova con il mondo ma di una Chiesa che muova il
mondo”, dice il vecchio cardinale, non elettore, quasi centenario, scelto dal
conclave per la “seconda meditazione”, prima della prima votazione – in sintonia
col papa defunto. Contro la “dittatura del relativismo”, ma anche contro lo
spirito curiale, cortigiano.
Un racconto non
complimentoso, anzi cattivo. Di manovre, e anche sgambetti, attorno ai quattro candidati.
Che sono senza scandalo, e senza finta modestia, autocandidati. Tra essi anche un
africano, il nigeriano Adeyemi, a un certo punto a un passo dal soglio. Ma il racconto
è dal di dentro, da “buon cattolico”: sofferto, e speranzoso.
Un racconto, alla
fine, prolisso – dettaglista, come R. Harris suole: non rinuncia a nessuna delle
sue tantissime, precise, conoscenze in materia di procedure, mentalità,
personalità. Con spreco anche dello Spirito Santo. Ma tanto più per questo
realistico. “Siamo un’arca”, riflette il decano del Collegio cardinalizio (dei cardinali
elettori, max 75nni), cui toccherà organizzare e dirigere il conclave, “un’arca
circondata dalle acque tumultuose della discordia”. Un’elegia, anche, alla “centralità
perduta” di Roma. Fuori, fuori del conclave e del Vaticano, le proteste
rumorose e anche violente – vetri rotti anche entro le mura – per i diritti e ogni
trasgressione, e contro le istituzioni.
Il nuovo papa s’indovina
a metà lettura. Ma non per il motivo che si pensa – la trattazione da vero fedele
Harris termina con uno sghignazzo (conservatore? non volendolo?).
Robert Harris, Conclave, Oscar, pp. 265
€ 14
spock
È una sciagura
terribile quella di non essere amati quando si ama; ma assai più grande è quella
di essere amati con passione, quando non si ama più”, B. Constant?
“Sfortunatamente,
ogni conflitto coinvolge sempre degli innocenti”, G. Greene?
È l’amore un
conflitto?
“Nell’amore si
è incapaci di onore”, G. Greene?
“Se
l’azzeramento delle distanze non abbia ucciso anche il desiderio”, Paolo Rumiz?
“Per essere
felici bisogna credere anzitutto nella possibilità di esserlo”, L. Tolstoj?
spock@antiit.eu
Molte cattiverie,
e molte vendette, anche se necessariamente scelte e circoscritte rispetto al voluminoso
originale di Dumas, nell’adattamento dei due “dumasiani” - già sulla breccia con
i due rifacimenti dei “Tre Moschettieri”, “D’Artagnan” e “Milady”. Ma una colpisce
nell’adattamento dei due registi, per rapidità e violenza: quella del
Procuratore del re, Géard de Villefort. Resa con cinismo beffardo, e con
misura, la violenza non avendo bisogno di eccessi mimetici, dall’attore comico Laurent
Lafitte.
Il Procuratore
avvia la serie di disgrazie sapendo innocente il futuro “conte di Montecristo”.
E lo fa in breve, in poche scene, freddamente. Arrivando per questo a strangolare
la sua propria sorella, pura e immacolata, coraggiosa e generosa – provare a
strangolarla. In effetti, la funzione dev’essere perniciosa: come fanno i giudici
italiani a volersi così attaccati anche all’“invenzione” dell’accusa? Per la
carriera – il vitalizio? Per il “potere”? Per essere un po’ sbirri.
Alexandre de la
Patellière-Matthieu Delaporte, Il Conte di
Montecristo, Canale 5, Infinity
letterautore
Dante – “Sono un
letterato e credo che la ‘Commedia’ sia l’apice della letteratura e di tutte le
letterature” - J. L. Borges nella prima delle sette conferenze raccolte in
“Sette notti”: “Nessun altro libro mi ha regalato emozioni estetiche
altrettanto intense”.
La “Commedia”
s’impone leggibile da qualche tempo in traduzione, come un romanzo di avventure.
Nella versione inglese di Dorothy Sayers, la scrittrice di gialli. E in quelle francesi
di Jacqueline Risset e René de Ceccatty. Jacqueline Risset, francesista
eminente alla Sapienza e poetessa sperimentale nella lingua madre, prese tardi
ad occuparsi di Dante, che divenne poi la sua passione (la sua bibliografia dantesca
è vasta) - la
estese anche a Fellini, che provò con lei a immaginare una riduzione
cinematografica della “Commedia”. Resta soprattutto importante la sua versione
in francese della “Commedia”, basata sul ritmo, page-turner, di forte
leggibilità – per una lettura come De Sanctis la consigliava, senza le note.
Come un racconto di avventure “mirabile”.
Una versione meglio
spiegata da un altro italianista René de Ceccatty – nella presentazione della
sua propria versione della “Commedia”, popolaresca, tipo “I Reali di Francia”,
il “Guerin Meschino”, in settenari. Anch’essa si era posta “la necessità della leggibilità”, spiega Ceccatty,
e c’è riuscita, senza tradire il poema, per la “sua sensibilità poetica”:
“Poeta lei stessa nelle due lingue, italiano e francese, sa perfettamente ciò
che vuole dalla poesia, fatta di concentrazione e folgorazioni, che ricerca e
riproduce in francese”. Per cui “la versione di Jacqueline Risset è la sola che
dà un’idea della vita, dell’invenzione, dei cambiamenti di ritmo, degli effetti
di realismo, della sensualità, degli scherzi o dei momenti di profonda
meditazione, di questo testo sempre inatteso”.
Dante si vuole ora cantabile, ma non è un tradimento. Vale sempre il
suggerimento di Dorothy Sayers, dopo De Sanctis, che traducendo il poema in
inglese nel 1949 consigliava di leggerlo di seguito, come un racconto di
avventure.
Vera Dridso – “La persona
con cui Primo Levi amava molto intrattenersi quando passava in casa editrice
era la nostra segretaria Vera Dridso, un’ebrea russa colta e poliglotta, che
sembrava incarnare tutta la storia del Novecento”, Luca Baranelli, già manager
Einaudi (“La Lettura”).
T.S. Eliot – “A quella cena”,
racconta Graham Greene nell’autobiografico “Ways of Escape” (non tradotto), “con
Eliot avevamo parlato di Arsène Lupin”, il ladro gentiluomo inventato a inizio
Novecento da Maurice Leblanc: “Un soggetto che sempre aiutava Eliot a sbottonarsi
- forse per un momento lo faceva sentire al sicuro dalle gentildonne che si aggiravano
parlando di Michelangelo”.
Impegno - L’engagement
aggiornato, oggi politicamente corretto, si sintetizza così, nel malumore di
Covacich all’uscita dalla Biennale di Venezia appena conclusasi:
“Ambientalismo, post-colonialismo, patriarcato, neofemminismo, migrazioni
umane, sessualità non binaria e diritti Lgbtq+” (“La Lettura”). Un “impegno
politico” che “sembra bastare a garantire la qualità delle opere”.
Iraq – “In Iraq, prima
che gli americani lo attaccassero, c’erano un milione e mezzo di cristiani, e
ora sono centocinquantamila”, Robert Harris in “Conclave” fa dire a un anonimo prelato
filippino, o forse arabo, nominato in pectore (in segreto) cardinale del
papa defunto: “La mia diocesi è quasi vuota. Ecco di cosa è capace la forza
della spada! Ho visto i nostri luoghi
sacri bombardati e i nostri fratelli e sorelle morti, distesi in file”.
Jeju - In Corea del Sud,
scrive Lia Iovenitti, de L’Aquila, importatrice ed esportatrice a Seul di merci
da e per l’Italia, e traduttrice della Nobel Han Kang (nonché scrittrice in
proprio, a giudicare da questo “racconto” scritto per “Il Venerdì di
Repubblica” del 13 dicembre), Jeju non è solo la bella isola orgogliosamente
definita «la Sicilia della Corea». È anche un luogo che porta il peso di un
passato doloroso: tra il 1948 e il 1949 trentamila civili, uomini, donne,
anziani, bambini, furono massacrati per mano delle stesse autorità coreane
sotto la regia dell’esercito degli Stati Uniti. Lo scopo era fermare l’avanzata
del comunismo. La parola d’ordine: «Sterminarli tutti»”.
E non è tutto: “Per decenni, i governi militari han occultato quei massacri, tanto che gi aerei atterravano a
Jeju su piste che celavano fosse comuni “.
Massimo Mila – “A casa nostra
arrivavano personaggi anche pesanti, come il musicologo Massimo Mila: era sempre
negativo, vedeva solo il bicchiere mezzo vuoto: diceva sempre chissà se ce
la farai con la musica” - Ludovico Einaudi, della sua vita da ragazzo in
famiglia, con i genitori, Giulio, l’editore, e la madre Renata Aldrovandi.
Jacqueline Risset - La ricorda
solo Patrizia Licata, nel suo ultimo giallo romano (romano di quartiere, l’Ostiense”),
“Le due facce”, la poetessa francese, francesista alla Sapienza, allieva e
successore di Giovanni Macchia, francesista insigne, moderna Du Bellay, in esilio
a Roma volontario - studiosa anche di italianistica, Dante sopra tutti, e il
Joyce “italiano”: “Era la mia insegnante di francese all’università”, così Licata
la fa ricordare da un personaggio a specchio, una poetessa che s’incontra
vagante la mattina per il cimitero degli Inglesi, “ed è stata una mentore… Era
una dona bellissima. Gentile, sensibile, piena di talento…. Davvero una forza
della natura. Penso spesso ai pomeriggi in cui andavo a trovarla a casa, nel
suo salotto pieno di libri posati dappertutto, sugli scaffali, sui tavolini, sulle
poltrone, le sedie… Non le piacevano gli editori. Troppo avidi, diceva. Parlavamo
di poeti e le facevo leggere le mie poesie. Le piacevano perché avevano il
‘ritmo’. La poesia è ritmo, diceva”.
Stati Uniti - “Tra gli anni Sessanta e
la sua morte (1986), Borges visitò gli Stati Uniti in diverse occasioni”,
invitato per lezioni, conferenze, dibattiti - Pablo Maurette, “La Lettura:
“Nondimeno in una conversazione con un giornalista argentino, poco dopo essere
tornato dal suo primo viaggio in America, lo scrittore si lamentò del fatto che
gli americani ignorassero le due virtù più indicative della civiltà, il dialogo
e la cucina”.
Traduzioni – Ada Prospero, meglio
nota come Ada Gobetti, sposa di Gobetti (poi Gobetti Marchesini), attiva nel
movimento antifascista di Giustizia e Libertà, poi partigiana combattente, traduttrice
dell’inglese, e Cesare Pavese si contesero per un periodo la traduzione di
Sherwood Anderson, lo scrittore che Fernanda Pivano, “allieva di Pavese e amica
di Hemingway”, decreterà l’iniziatore e ispiratore della prosa americana, “parlata”
(sintattica) e breve, degli anni ruggenti 1920-1930. Pavese rivendicherà – con Vittorini
– un ruolo primario, e solitario, di divulgazione della letteratura americana
negli anni del fascismo. Per es. in un’“intervista” datata 5 febbraio 1946 e
pubblicata postuma, col titolo “L’influsso degli eventi”, nella raccolta di “Saggi
letterari”, 1951: “Il decennio dal ’30 al ’40, che passerà
nella storia della nostra cultura come quello delle traduzioni, non l’abbiamo
fatto per ozio né Vittorini né Cecchi né altri. Esso è stato un momento fatale,
e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale
della nostra recente cultura poetica. L’Italia era estraniata, imbarbarita,
calcificata – bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti
primaverili dell’Europa e del mondo”.
In realtà, spiega Anna De Biasio in “Sherwood Anderson tra Ada Prospero e
Cesare Pavese: traduzioni, trasfusioni, traiettorie” (in “Letteratura americana
tradotta in Italia”), Pavese non era il primo, Prospero-Gobetti l’aveva
preceduto, in particolare per Sherwood Anderson.
Più in generale, osserva l’americanista De Biasio: “Le analisi dei dati e
delle politiche editoriali delle case editrici, così come dei rapporti con il
regime, hanno mostrato che, in realtà, negli anni Trenta l’Italia è il primo
paese traduttore d’Europa, e che traduce soprattutto dall’inglese”. La censura
interveniva, ma nella fattispecie poco o nulla.
letterautore@antiit.eu
Roma fisica e metafisica
– la grande bellezza reale e immaginaria. Muta e discorsiva. Emotiva e lapidaria.
Superba, di storia e di bellezza. Un’idea geniale tramutata (digitalmente? riprese
dal vivo, “esterno notte?) in un monumento, della città e per lo spettatore.
Con figure, ambienti, suoni immateriali, elegiaci per lo più, anche passionali,
e figurativi, astratti. Pantheon, Campo dei Fiori, Trinità dei Monti, san
Pietro in Vincoli, i Fori, il Fontanone, Fontana di Trevi, le gallerei Borghese,
Doria Pamphili scintillanti, il Colosseo, il Campidoglio deserti, di uomini, di
macchine, di rumori, e per questo tanto più pieni, della loro storia e
personalità, e come presenti. In ambiente notturno come più intimo, e
personalizzato - eleganti, a una serata di gala. Anche gli ambienti familiari,
borghesi: l’incredibile casa-museo di Alberto Sordi, o l’inimmaginabile ipogeo
familiare sotto via Dino Compagni.
Con pochi suoni a
sostegno, ma quanto evocative. Commoventi perfino, Tosca delicatissima e l’ineffabile
Antonella Ruggiero, più che Baglioni al pianoforte, al centro del Colosseo –
pure suggestivo.
Alberto Angela, Stanotte
a Roma, Rai 1, Raiplay
spock
“L'uomo
mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo
che porta e il ricordo che lascia”, C. Pavese?
“I miracoli
possono essere sempre in agguato davanti alla nostra porta”, E. Montale?
“La nostra
stessa esistenza è tutta un miracolo”, id.?
“Il cielo e
l’uomo sono una cosa sola”, Ye Xiaogang?
“In ognuno la
traccia di ognuno”, Primo Levi?
“Natale è la festa
dell’infanzia come l’estate”, Rosella Postorino?
spock@antiit.eu
“Solo
un’ultima notte gli era rimasta per scorrazzare nel mondo”, al diavolo – poi viene
Natale. E lui progetta di sfogare la cattiveria sul giovane fabbro Vakùla – la cui
giovane madre, “quarantenne”, è una “strega”, che tutti gli uomini in età
ammalia la notte, e tutti mette nel sacco, letteralmente. Sull’amore del fabbro per la diciassettenne Oksana,
bellissima e inarrivabile. Il tutto sempre a Dikan’ka, Mirgorod, la location
del secondo gruppo di racconti con cui il giovane Gogol’ tentava l’avvventura
letteraria – “Veglia alla fattoria presso Dikan’ka”.
Il diavolo
comincia col rubare la luna, infilandosela in tasca, per lascare Dikan’ka al
buio. Un essere segaligno, che si aggira furtivo, aspetto e abbigliamento da “vero
Tedesco” (“da noi chiamano Tedesco ogni straniero, francese, ungherese, svedese:
sono tutti stranieri”). Con lui il giovane fabbro finirà per stipulare il solito
patto diabolico. Meglio il diavolo che Oksana? No, ma dal diavolo Vakula può
farsi portare in volo dal principe Potiomkin e dalla Zarina, e averne copia delle
imperiali scarpette richieste dalla capricciosissima amata – Oksana chiedeva l’impossibile
per allontanare il matrimonio….
Il
solito guazzabuglio di figurine. Ma in clima natalizio, in qualche modo simpatiche,
compreso il povero diavolo. Di uno scrittore russo di storie, luoghi,
personaggi e pratiche ucraine – il villaggio è in animazione per organizzare e koljadki
– “sono chiamati koljadki certi canti che, da noi, si suole cantare
alla vigilia di Natale,”, da noi in Ucraina, “sotto le finestre delle capanne”.
Ritradotto
da Paolo Nori, l’ultimo gogoliano. Riproposto come Nabokov, professore in
America di cultura russa, lo voleva: “Qualcosa di ridicolo e di stellare al
tempo stesso”. Di fatto, non si ride – se non alla maniera di Jean Paul, di
satira dolente, bonaria. E la veduta è buio, freddo e fango, o neve scura. Ma l’umanità
è fervida, tra pur tra individui per ogni verso bislacchi.
Nikolaj
Gogol’, La notte prima di Natale, Garzanti,
pp. 96 € 5,90
zeulig
Autorità – È il fondamento del potere politico. Del legame fra il re e i suoi
sudditi, più che il fattore stirpe o sangue. Del governo con il popolo – con e
senza il voto, l’elettività. L’Auctoritas è il fondamento di ogni buon
governo, anche democratico, non solo dittatoriale (monolitico, imperiale,
totalitario….).
È
concetto elaborato da Alessandro Passerin d’Entrèves (richiamato in più passi
da Hannah Arendt) nella elegante “Dottrina dello Stato”, 1962:
la forza mista alla autorevolezza, l’Auctoritas, la romana
legittimazione. Legittimità e sovranità, l’Auctoritas, che l’America
realizza oggi, si direbbe, nel modo più pieno, e anzi in eccesso.
Non la forza bruta, argomenta
ancora Passerin d’Entrèves nel dare ragione a Mazzini: “La nozione marxista dello Stato si attaglia
alla concezione volgare italiana che la forza e non il consenso è la chiave
della politica”.
Auctoritas che – sempre Passerin d’Entrèves - è chiesastica, ed
è la base della libertà. Che non è essere Dio, l’uomo è limitato, tanto più un
manovale con poco mestiere. L’uomo non è libero alla nascita da questo punto di
vista, la libertà è solo condivisa. E viene così la nazione, la famiglia di
storia, lingua, modo d’essere. La patria è questa forza, l’Aucotoritas, accanto
alla religione.
Auctoritas
o
legittimazione che all’Italia sempre è mancata, argomenta l’illustre studioso - piemontese e esiliato della Repubblica - nell’ultima
prolusione a Oxford. Per avere i Savoia e i loro aiutanti scambiato i bastoni
per briscola: “I governanti dell’Italia unita sembrano aver provato più paura
da dentro che da fuori”. E hanno lasciato fuori dallo Stato la chiesa e i
lavoratori, si volevano legittimare con la polizia.
Nelle
vicende italiane Passerin d’Entrèves trovava parecchi riscontri: l’Auctoritas
è il momento in cui la forza, seppure limitata, e il potere si combinano .-
il potere non è la violenza, e se ne tiene anzi distinto. Il Mussolini di Salò
ne è figurazione, che sa di rappresentare un’esigua minoranza, e più disperata
che convinta, terroristica. P il re, che sancì il fallimento dell’unità di Casa
Savoia scappando al Sud. Al Sud che non rappresentava - al referendum il Sud lo
voterà perché si riconosceva nel “Regno”, unità metafisica, ma chi lo conosceva,
incluse le province di Casa Savoia, con decisione lo rifiutò.
Pierre Rosanvallon ne trova fondamenta invisibili,
ancorché solide. Uno “zoccolo” che viene prima delle istituzioni che organizzano
ed esercitano l’Auctoritas – con terminologia che rimanda a Passerin d’Entrèves:
l’autorità fondano la fiducia e la legittimità. Componenti non normabili. Nemeno
definibili in astratto – sono un comune sentire, 1a condivisione di un sentire.
E variabili, non rigide. Oggi in crisi, si può aggiungere, per essere state
sostituite dall’ideologia non dichiarata degli affari – la catena del guadagno.
Dal mercatismo, con il connesso sovranismo, e dal legismo, dalla legalità
formale. Dalla favola dell’armonia naturale degli interessi.
All’origine della debolezza ricorrente della
democrazia è l’acquiescenza, all’“ordine delle cose”. L’Auctoritas è vigile,
ha bisogno di una coscienza critica.
Cultura
–
Le canzonette sono (fanno) cultura? Detta così, la risposta è scontata. Ma non
per Jovanotti: “Non mi convince la distinzione tra cultura alta e cultura
bassa. «Gloria» di Umberto Tozzi non ha nulla da invidiare alla «Locomotiva» di
Guccini”. Guccini se ne è risentito: “Non sono d’accordo. «La locomotiva» è una
canzone dietro la quale ci sono dei libri, delle letture. Non vorrei usare una parola
grossa come «cultura», ma c’è. «Gloria» è una bella canzone, si ascolta
volentieri, però non c’è una storia dietro, non c’è qualcsa che si chiama
cultura”. Cultura è quindi storia, consapevolezza.
Poi però c’è l’arte
(“Gloria”), che non necessariamente deve mostrare il suo ancoraggi alla cultura
– alla storia - ma è chiaro che anch’essa è ancorata, niente è disancorato dalla
storia.
Guccini fa l’errore
comune di confondere cultura con erudizione? Si può essere colti senza
erudizione? Per un cammino consoscitivo sensitive o sensibile sì.
Solipsismo – Si dirà il modo di essere del Millennio, del suo
primo quarto già trascorso. Il nome è una categoria filosofica precisa, ma può
essere usata per una sua derivazione, per dire lo stato attuale del cittadino del
mondo: l’isolamento, e l’autoreferenza – una sorta di onanismo, “guardarsi l’ombelico”.
Un cane, anche due – tre – al posto di un figlio, per le persone singole e
anche per la coppia – un interlocutore muto, fashionable, e uno specchio
di sé, una proiezione. Anche se faticoso e costoso - molto di più di un bambino.
Una letteratura memorialistica - autofiction, autoriflessione, autoredazione, una
vita come una seduta dallo psicoterapeuta. Una lettura soggettiva, per lo più
superficiale e distratta, della realtà. La guerra, le guerre, l’immigrazione, il
femminismo (da parte dei femministi, e degli anti). La funzione perduta dell’opinione
pubblica, del dibattito pubblico e sociale, di partito, di gruppo, di colleganza,
tra amici. La credulità, frettolosa, sui social. La religione ridotta a macchietta.
Il matrimonio in teatro, nel bosco, con l’astrologa, nella foresta con lo
sciamano. La moltiplicazione degli stimoli, visivi, informativi, riflessivi,
come annullamento (sazietà) degli stessi. Un modo di essere e un mondo grigi,
opachi, e non più differenziati, in forme, colori, tempi. Un appiattimento. L’esito
di un mondo governato da un sola funzione o “autorità”, il consumo – dalla pubblicità
per il consumo, dai social per la pubblicità (un promotore distratto di pubblicità,
che opera con criteri generici uguali per tutti i mercati, anche i più diversificati,
Google, raccoglie in un mercato stratificato e singolarizzato nei suoi caratteri
storici e “attitudinali”, quello italiano,
più pubblicità di tutti, più anche della Rai, che si direbbe incarnare la
“italianità”, conoscere meglio di tutti, e metterli a profitto, tendenze e
propensioni).
Stile - Dice Aristotele
che l’intreccio fa aggio sulla psicologia e lo stile. E ha ragione: la
psicologia non ha tipi né caratteri, se non a fini classificatori, è inutile voler
squadrare i personaggi. La regola dell’intreccio è che non ci sono regole. Ma
lo stile no, il plot è lo stile,
quasi sempre. Un incidente d’auto può essere più drammatico di una strage, se è
raccontato meglio.
Lo
stile è la verità dell’evento. E delle persone: si sa chi commette delitti e
chi non può commetterli, anche se non si sa, ognuno lo dice col suo modo
d’essere. In un racconto questo si vede nei personaggi che di sicuro non hanno
colpa della vicenda - si procede anche lateralmente, marciando sulle ali.
zeulig@antiit.eu
Farsi un paradiso in terra, anzi in mare, con una barca, a spese degli
africani, dei migranti? E chi lo impedisce? Salvini certamente no.
È stata l’avventura di molti. Dalla famosa capitana Carola Rakete, che
ebbe momenti di gloria sfidando Salvini - salvo poi scomparire, insieme con
tutte le altre barche tedesche (sempre “esecutori volenterosi”, i tedeschi) all’avventura
nel Mediterraneo. Al catalano Oscar Camps Gausachs ultimamente, sempre all’assalto
di Salvini – un bagnino che si è fatto armatore, con la nave Open Arms, e
salvatore anche lui di migranti (celebrato, in Italia, anche con un film, “Open
Arms, la legge del mare”).
Nel processo contro Salvini sono emerse carte, negate fino al
dibattimento in Tribunale, agghiaccianti di questa creazione del paradiso in mare.
L’incontro di Open Arms col barcone, con i barconi, da salvare preparato – con gli
scafisti - e non casuale. Il salvataggio, o trasbordo, in due giorni di fila, 1
e 2 agosto, senza però portare i migranti in salvo al porto di partenza in Spagna. Malta che chiede a “Open Arms”: perché bighellonate,
perché non portate in salvo i migranti. Senza riposta. Fino a un terzo intervento
una settimana dopo. Sempre senza sbarco nel porto di partenza, come la Spagna
chiedeva.
La Spagna, si può capire: erano i giorni dell’indipendentismo catalano, e
il salvatore Camps poteva volersi distinguere come disobbediente a un ordine di
Madrid. Ma poi, nello stallo davanti a Lampedusa (l’isola non ha porto), per
due giorni ha respinto gli inviti della Guardia costiera a far sbarcare i
migranti con trasbordo.
Gli africani? Comparse.
Il mafioso si sente
Dio. Non dio, Dio nel vero senso del termine. Non una novità, si direbbe, ma l’allora
giudice Scarpinato, punta di diamante della Procura diretta da Giancarlo
Caselli, ne sa di più.
“Hegelianamente”,
scrive, “potremmo dire che per il mafioso ciò che è reale è razionale, e ciò
che è razionale ha un fondamento divino”. E non è tutto. Scarpinato porta a
sostegno il teologo Giuè, alcuni parroci, un caso di inizio Novecento, in cui
un capomafia di paese uccise un uomo che aveva violentato una vedova e la
figlia di dodici anni, proclamando: “Ti uccido in nome di Dio”, e molti
pentiti, Leonardo Messina, Gioacchino Pennino, Tommaso Cannella, Buscetta, e
non pentiti, Pietro Aglieri, Bagarella, Santapaola, come impregnati di devozioni
e rituali. Si serve pure di Sergio Quinzio: “In fondo la mafia era un antidoto
all’avanzata di una modernità laica, che in nome della libertà avrebbe ridotto
la fede cristiana ad un’opinione tra le altre”.
In conclusione:
“Il capomafia costruisec Dio a propria immagine”. Ma anche se stesso a immagine
di Dio, “non quello del Vangelo”, quello “biblico del Vecchio Testamento”
– “un Dio padre severo e impacabile con chi osa trasgredire i suoi precetti”.
L’ennesimo tributo
monumentale alla piccola realtà criminale che è la mafia, che sono le mafie. A
specchio: ti faccio grande per farmi grande?
Ora si
vuole Scarpinato colluso, con Pignatone e altri buoni credenti, in coperture di
pratiche mafiose. Chinnici, l’inventore del pool antimafia di Falcone e
Borsellino, il giudice buono di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, che si
ebbe un’autobomba, diffidava dei suoi applicati, Lo Forte e Scarpinato, che in
una sorta di “diario” definiva manutengoli, pressappoco, Dc. Forse a torto,
poiché dicei anni dopo Caselli affiderà praticamente a loro la Procura stessa,
dopo le stragi del 1992 - Caselli non è Dc ma buon cristiano sì.
Roberto Scarpinato, Il
Dio dei mafiosi, “Micromega”, 1\1998, pp.45\91