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mercoledì 16 aprile 2025

Le banche alla Lega

Nel sommovimento bancario, l’Ops Unicredit su Bpm, avanzata il 24 novembre, e in partenza fra otto giorni, con documentazione approfondita delle sinergie e la creazione di valre che la fusione consentirebbe, resta soggetta a lento esame della speciale commissione al Tesoro del golden power, composta da non si sa chi, ma per conto del ministro Giorgetti della Lega.
Procede più rapidamente, per il sì e per il no, l’Ops Unicredit su Commerzbank, benché attardata dall’improvvisa crisi politica tedesca: su di essa si sono presto pronunciati l’Antitrust tedesco, senza porre problemi di golden power, la Bce, e perfino il governo nuovo in fase di costituzione a Berlino, non in termini di rigetto a prescindere.
L’Ops Mps su Mediobanca-cum-Generali, lanciata il 24 gennaio, e da chiudere a settembre, il nulla osta dell’ignoto (ma non tanto, sono tutti “professionisti” della Lega) comitato ministeriale l’ha ottenuto all'istante. Un piano di acquisto senza nessun piano tecnico-economico che lo giustifichi, solo di potere politico. È la Lega che si fa una banca. E che banca: col semifallito ex Monte dei Paschi si prende Mediobanca e Generali. Come dire mezza Milano. Coi soldi pubblici: quelli residui del salvataggio Mps, e quelli della necessaria ricapitalizzazione di Mps per poter digerire Mediobanca- Generali.  

Le banche, che saranno mai

Si procede sull’operazione Mps-Mediobanca-cum-Generali, che è solo politica, senza nessuna logica economica senza che nessuno obietti. Senza che nessuno nemmeno lo dica.
Che la cosa resti ignota alle opposizioni si capisce, per un po’ che si sappia di Conte o Schlein, o Landini. Ma neanche Meloni, titta presa a trovare un candidato suo alla Regione Lombardia, sembra capire.
Soprattutto, è assordante il silenzio dei media. Dopo tanto battagliare per il “mercato”. Che pure hanno specialisti in grado di capire cosa si sta facendo. Tutti leghisti? Tutti, di nuovo, statalisti?

Contro i dazi europei, non tariffari

Ci vuole l’autorevolezza di Sabino Cassese, l’esperienza, e la capacità di leggere, a 90 anni, per dire di che si tratta fra Trump e l’Europa, a proposito “dell’azione degli Stati Uniti, un po’ troppo rapidamente definita sovranista” – degli Stati Uniti e non di Trump: “Essa è mossa anche dallo scopo di abbattere barriere non tariffarie (di cui la Ue è maestra, Cassese ha già spiegato, n.d.r.) ed evitare sanzioni di giudici che incidano sull’azione globale di imprese nate in territorio americano. Trump alza le barriere tariffarie anche perché l’Unione Europea abbassi le barriere non tariffarie”.
I “dazi” europei sono le regolamentazioni. Per lo più bislacche, e sempre punitive – anti-industriali. Lamentate peraltro, prima che da Trump, da ogni singolo industriale italiano.

Con allegria - e mini-attori geniali - alla Liberazione

Musiche allegre e un tenente tedesco finalmente umano – come ogni altro. Non sono le sole sorprese della miniserie che ci condurrà alla celebrazioe degli ottant’anni della Liberazione. Di un gruppetto di ragazzini che trafficano con i diversi gruppi armati della Resistenza durante l’occupazione tedesca, sulle montagne piemontesi. Una miniserie tratta dal romanzo omonimo di Andrea Bouchard, ma tagliato e montato con insolita verve. Già la sola distinzione tra Verdi e Rossi (e mancano i Bianchi) è una curiosità totale per uno sceneggiato che si vuole celebrazione della Liberazione.   
Due puntate – e probabilmente la serie – sulle spalle della piccola Anna Losano, espressiva il giusto in ogni situazione, la dizione distinta e piana, i tempi perfetti. Ma tutto il cast è di prim’ordine, David Paryla soprattutto, il tenente buono. Il fratello minore della protagonista, ingegnoso e chiacchierone, Luca Charles Brucini, l’amica del cuore Carlotta Dosi, i nonni Carla Signoris e Bebo Storti.

La Rai moltiplica le produzioni per Millennials, per entrare nelle abitudini mentali delle ultime generazioni - adattando anche programmi vetusti, tipo “Dio ce la mandi buona”. Ma dalle 22 alle 24 – per lasciare più posto possibile allo sconcio “Affari tuoi”? Come a dire: per pensionati mezzo addormentati? E senza nemmeno un briciolo di promozione: tre milioni di spettatori sono niente per un programma di così alta qualità.

Susanna Nicchiarelli, Fuochi d’artificio, Rai 1, Raiplay

martedì 15 aprile 2025

Zelensky come i dazi, l’obiettivo è la Cina

Consegnare Zelensky alla storia (eletto il 21 aprile 2019, è già in proroga da un anno), e ottenere dalla nuova presidenza un’accettazione degli accordi di pace con Mosca – sia pure con riserva, con tutte le riserve possibili. È questo l’obiettivo, secondo la Farnesina, di Trump, che manda avanti da un lato la mediazione con Putin, senza gli ucraini, e dell’Ucraina fa menzione solo per criticare il presidente Zelensky.
Nella prima presidenza Trump aveva aiutato l’Ucraina. Avviando le forniture militari. Sconfitto da Biden, questa l’analisi molto semplice che se ne fa, ha legato l’Ucraina tutta a Biden, l’arcinemico. Per i fatti di corruzione con la “famiglia Biden” (il figlio Hunter), e per il coinvolgimento di Biden, e quindi degli Stati Uniti, nella sfida alla Russia. In un ruolo del tutto passivo.
Procedere a un’elezione presidenziale è complicato. E in tempo di guerra proibitivo – chi si candiderebbe a fare il Pétain, il Quisling? Da qui le pressioni su Zelensky per un “bel gesto”, da statista, con le dimissioni - avendo già capitalizzato ampiamente, in tutte le cancellerie del mondo, il ruolo di eroe e di martire.
In tutte le cancellerie del mondo eccetto Pechino, si fa osservare. Ma per questo tanto più necessaria apparirebbe a Washington una sostituzione rapida di Zelensky, e comunque una pace – o un armistizio, o una tregua: imperativo è slegare la Russia dalla Cina. Che resta l’unico bersaglio di questa presidenza – dazi, cambio, attivi commerciale e dei pagamenti.  Obiettivo un nuovo accordo del Plaza, 1985, quando il Nemico (commerciale, monetario) era il Giappone.


Cronache dell’altro mondo – abortive (33)

Nei primi due anni dopo che la Corte Suprema ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto il numero di aborti praticato annualmente negli Stati Uniti è aumentato. Molti Stati hanno imposto restrizioni dopo la sentenza della Corte Suprema: dodici hano adottato divieti quasi totali, e quattro hanno imposto il limite delle sei settimane. E tuttavia si è registrato un aumento degli aborti: da 930 mila nel 2020 a oltre un milione nel 2023.
La sola spiegazione che si dà è che gli attivisti pro-aborto hanno intensificato l’attività negli Stati dove l’aborto è accessibile. In particolare, sono aumentati gli aborti farmacologici. Autorizzabili ora via telesalute. A dicembre del 2021 la Federal Drug Administration ha eliminato l’obbligo di prescrivere il mifeprestone di persona. Il numero degli studi medici che stabiliscono l’idoneità della paziente online o al telefono, e mandano per email la prescrizione, è proliferato.
(“The New Yorker”)

Il lolitismo al tempo delle serie tv

Un, sano? vecchio, film sul lolitismo, senza mascherature: le ragazzette al liceo si litigano e si accaparrano gli insegnanti. Salvo poi farli penare, per avere ciò che pensavano di avere avuto – per di più sentimentali. Nei due tempi, della seduzione, e poi, ritrovandosi in età matura, dell’ancora vana rincorsa.
Si direbbe un film sul desiderio. Ma solo maschile? O fatto per esaltare – sfruttare – la popolarità di due personaggi di grandi serie tv, Jenna Ortega e Martin Freeman.
Jade Halley Bartlett, Miller’s Girl, Sky Cinema, Now

lunedì 14 aprile 2025

Letture - 575

letterautore


Cacciari
– “Verrà ricordato come l’abate Parini istitutore dele nuove dinastie milanesi”, Michele Masneri sul “Foglio quotidiano” – avendo “laureato in filosofia Lorenzo Prada (figlio di Miuccia, n,.d.), come del resto Barbara Berlusconi”.
 
Cani – Nel 1958, quando ancora non usavano in Italia, i cani portati a passeggio per New York per fare i bisogni sul marciapiedi indignavano Lucia Berlin – “poveri cani”. Tutto bene, scriveva ai suoi amici di sempre, Edward e Helene Dorns, “eccetto che per i cani da compagnia (toy dogs) – barboncini e chihuahua e grossi weimaraner, terribile terribile. Fanno lo schifo per strada, mentre il loro proprietario, non padrone, aspetta. Poveri cani, che umiliazione defecare per strada”.
 
Firenze – “Nei palazzi di Firenze, di tutta la Toscana, percepiamo l’aspetto esteriore come l’espressione esatta del loro senso interiore: alteri, fortificati, essi sono manifestazione altera e sontuosa di un potere che può essere per così dire sentito in ogni singola pietra, ciascuno di essi è rappresentazione di una personalità sicura di sé e responsabile per se stessa” (G. Simmel, “Roma, Firenze, Venezia”, p. 63).
 
Gattopardo – L’ultimo, recente, è stato Berlusconi? Il “gattopardismo” presume “grandi promesse politiche e grandi speranze, da ingannare”, Gabriele Pedullà con Luca Mastrantonio su “7”, “per chi ha sognato la ‘rivoluzione liberalista’ (non io), ed è stato così ingenuo da credere che Berlusconi volesse davvero realizzarla, lui è stato probabilmente l’ultimo leader degno di questo epiteto”.
 
Al  famigerato “perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, l’attore Kim Rossi Stuart, che ha interpretato il “Gattopardo” nella riedizione seriale Netflix, dichiara di preferire, come meno cinica e anzi positiva, un’altra citazione famosa: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.
Una dichiarazione anarchica, contro il “ceto dirigente”? o semplicemente qualunquista?  
 
Francesco Piccolo, che sul romanzo ha costruito uno spettacolo teatrale, “Il Gattopardo. Una storia incredibile”, ora in tournée, ricorda un aspetto trascurato della storia, a proposito di Giorgio Bassani, l’unico direttore editoriale a credere dopo vari giri nel romanzo: “Bassani aveva conosciuto Tomasi: pensava fosse un pazzo, perché lo aveva visto a un convegno a luglio dentro a un cappotto, a un paltò per l’esattezza, perché aveva la giacca lisa e non voleva farla vedere. Tanti anni dopo Bassani riceve un manoscritto che nessuno voleva pubblicare: comincia a leggerlo, pensa sia bellissimo, solo che non sa chi lo abbia scritto. Scopre solo dopo che l’autore è quel matto che ha conosciuto anni prima e che non c’è più”.
 
Italia – “”Gi attori comici da noi vanno presi molto sul serio, vincono i Nobel, fondano partiti di maggioranza relativa”, Aldo Cazzullo, la posta del “Corriere della sera”.
 
Montaigne, che viaggiando non sprecava complimenti, ricorda con ammirazione, del suo viaggio nel 1580: “Ho visto contadini col liuto in mano e persino le pastorelle con l’Ariosto in bocca”.  E: “È curioso vedere come lasciano sul campo dieci e quindici e più giorni il gran segato, senza paura del vicino”.
 
Napoli – Ricordando Roberto De Simone e la “La gatta cenerentola”, Peppe Barra spiega: “È stata una rivoluzione. Gli spettatori non avevano visto fino allora allegorie e culture popolari rese in quel modo, ma negli anni Settanta non si erano nemmeno mai ascoltate villanelle, strambotti, tammurriate”.
 
Miuccia Prada – Ha rasentato anch’essa la filosofia, come poi il figlio Lorenzo (laureato con Cacciari). Lo ricorda Masneri sul “Foglio” celebrando l’acquisizione Prada di Versace. Specialista di Dottrine Politiche alla Statale, si può aggiungere, con un dottorato di ricerca, supervisore  Giorgio Galli, sul Pci. Di cui era militante, animatrice della cellula “Carlo Marx” di Porta Romana, sotto il palazzo di famiglia, rappresentante di zona dell’Unione Donne Italiane”: uno dei suoi primi fashion show, quando cambiò settore d’interesse, lo ha tenuto a Parigi nella sede del Pcf, il partito Comunista francese, un edificio anni 1970 di Oscar Niemeyer - lo stesso architetto, curiosamente, del palazzo Mondadori a Segrate, che poi sarà di Berlusconi (due carriere in parallelo su tutto, Prada e Berlusconi - eccetto la politica, di sinistra e di destra?).
 
Roma – Si protesta in vati quartieri, San Saba, Prati-Delle Vittorie, Ponte Milvio , per “torri” telefoniche di venti e più metri che s’innalzano su alcuni palazzi. Per salvaguardare il decoro e la veduta, le “terrazze di Roma”.
Le antenne sono l’aspetto di Roma che più colpiva Antonio Calbi, futuro direttore del teatro Argentina, l’ex Stabile di Roma, quando ci arrivava da Milano per gestire il teatro Eliseo: “Prendevo il Pendolino e prima di entrare a Termini vedevo i palazzi con una selva di antenne, come capelli sulla testa, una per ogni appartamento, e mi chiedevo come mai l’idea milanese di condominio non avesse attecchito”. Le famose “terrazze di Roma” son infrequentabili, e irte di paraboliche – salvo nei (pochi)palazzi di famiglia.
Ma non è detto che “l’idea di condominio” non ha attecchito: sono  condominii che fanno innalzare le “torri” telefoniche, per farsi pagare la “servitù”.

Toscana – Evoca Puccini nel 1922, dopo la gloria, scrivendo al direttore del “Corriere della sera” (tutti i materiali, recensioni, presentazioni, interviste, lettere etc, concernenti il rapporto del compositore col giornale sono ora raccolti dalla Fondazione Corriere della sera in “Puccini e il Corriere della sera”) con nostalgia gli anni dello sbarco a Milano da Lucca, col fratello Michele, ospiti fissi dell’Osteria dell’Aida, per musicisti squattrinati gestita da un fiorentino Gigi. Che dava da mangiare a sazietà a “poeti e musicisti senza editore, cantanti in attesa di scrittura”, corredando il cibo da “fiaschi su fiaschi del leggero e frizzante vino di Toscana”.
Il “vino di Toscana” non era il Chianti, sangiovese, ma un lambrusco non zuccherino, secco.
 
Venezia – “I palazzi veneziani sono un gioco elegante, essi mascherano i caratteri individuali dei loro abitanti attraverso la loro uniformità, un velo le cui pieghe seguono soltanto le leggi della bellezza lasciando intravedere la vita dietro di esse nella misura in cui la nascondono”.
Venezia in maschera anche nella vita domestica? O si proiettano su Venezia e i veneziani le loro famose maschere, dei balli, dei carnevali, dei melodrammi?

letterautore@antiit.eu

E la Rai sgonfiò il miracolo “Costanza”

Curioso finale boomerang, dopo molte ore di sceneggiato e molti eventi, col ritorno alla casella base – un racconto come il gioco dell’oca. La protagonista ritorna al punto di partenza, a un uomo che ha “conosciuto” una sola notte, le ha fatto una figlia, è scomparso, è ritrovato incidentalmente dopo sette anni, e dopo molte sgradevolezze, solo perché lui è in procinto di sposarsi, decide che è l’uomo della sua vita – con sgomento dell’uomo, come a dire: “questa è pazza”. Per incuriosire lo spettatore alla prossima serie, o per sorprenderlo, in pratica per fregarlo?
Un finale balordo. Forse dovuto all’originale, la trilogia romanzesca di Alessia Gazzola – la quale però sa di meglio. Più probabile il progetto di attivare l’attesa per il sequel, che però oggi come oggi risulta indigesto. Avendo già rovinato una serie che invece si era imposta per il ritmo, l’accuratezza e lo spessore dei personaggi, l’inventiva delle storie che la attraversano, la giusta misura dei ritmi di regia e di molte recitazioni. Specie delle due sorelle messinesi (come Gazzola) a Verona, la protagonista anatomopatologa brillante, nonché narratrice di fiabe inventiva e convincente, e la minore, psicoterapeuta servizievole e imbranata, Miriam Dalmazio e Eleonora De Luca.
O si vuole la favola dell’amore contro tutto? Nel 2025? È un “errore” dell’autrice, Gazzola? Possibile non avendo letto il libro, ma improbabile – desumendo dall’accuratezza delle vicende di contorno e degli stessi caratteri. La Rai sta perdendo il lume dell’intelletto?
Fabrizio Costa, Costanza, Rai 1, Raiplay

domenica 13 aprile 2025

Ombre - 770

Fa infine capolino, dopo settimane di paginate sul nulla, la verità dei dazi di Trump: “Le guerre commerciali”. Su un giornale letterario, “La Lettura”…(finora se ne era detto solo su questo sito…). C’è molta “ammuìna”, per svalutare comparativamente il dollaro. E per fronteggiare l’aggressione commerciale della Cina, con sussidi statali enormi, varie patiche di dumping, e la pratica costante di sottovalutazione del yuan-renminbi.
Trump prova con la Cina il braccio di ferro di Reagan col Giappone, che allora “invadeva” gli Stati Uniti. Con gli stessi strumenti ora della Cina. Trump vuole con Xi un analogo dell’“accordo del Plaza”, che Reagan impose a Tokyo nel 1985 – lo stesso Reagan che “aprì” alla Cina, e avviava la “globalizzazione”.
 
Si dice Trump ma è l’America. Ci sono costanti nella politica Usa a prescindere dal presidente – se c’è un deep State è questo. Già Obama contestava l’aggressività commerciale di Xi. Trump pensava di averla ridotta. Biden ha allora spostato lo scontro sul militare. Trump riapre il fronte commerciale e monetario.
Il dollaro è – era fino all’altroieri – troppo forte, costringendo gli Usa a stamparne di più, col rischio inflazione, e a indebitarsi in continuo, nel commercio e nei pagamenti. Era a 1,4 sull’euro pre-covid, è arrivato alla parità, dal 2022 all’altro ieri, prima di “Trump” – lo yuan-renminbi si nasconde, come un (finto) bambino gracile.  
 
Sembra niente (ma non per gli addetti ai lavori), ma dopo l’accordo del Plaza l’economia nipponica subì lo scoppio di una bolla speculativa. Cui seguì un “ventennio perduto”, una stagflazione lunga dal 1991 al 2012 – con riduzione dei redditi e dei consumi (perdita costante di valore dei salari reali e di potere d’acquisto). In grande quello che sta succedendo alla Germania da tre anni.
Un’economia “organizzata” per l’esportazione, a costi artificiosamente ridotti (energia russa e sussidi pubblici, con la scusante del green deal¸ nel caso tedesco), è semplice, perché non si dice? Delle economie “organizzate” per l’esportazione, p.es. la Cina?
 
“Unicredit, gli ostacoli di Orcel nella scalata a Bpm”, titola “la Repubblica”. Senza una novità, un aggancio, preciso: “Il governo con il golden power, il prezzo sempre più alto e il 30 per cento a Crédit Agricole e casse di previdenza che non arriveranno (aderiranno? N.d.r.) all’Ops rendono l’operazione difficile”. Facile certo no, ma a argomentazioni singolarmente rovesciate: il golden power non c’entra, il prezzo di Unicredit è, relativamente, più alto, Crédit Agricole e casse andranno sul titolo a maggior valore. Il risiko bancario è come il campionato, coi tifosi, o si punta a rendere più conveniente l’Ops?
 
Sessione di emergenza del Parlamento di Westminster per salvare l’acciaieria di Scuntrope, il residuo impianto britannico in grado di produrre acciaio puro. Salvare cioè rinazionalizzare. L’impianto era stato rilevato da un gruppo cinese cinque anni fa per appena 70 milioni di sterline, ma con la promessa d’investimenti per 1,2 miliardi. Mai fatti, serviva a trasbordare semilavorati cinesi. Ora non conveniva più, i costi di semplice esercizio di apertura essendo lievitati ad oltre mezzo milione di sterline al giono.
 
“«Stasera tutto è possibile» è un programma orribile, una ciofeca”, Aldo Grasso, “Corriere della sera” 5 marzo: “I comici raschiano il fondo del barile. Mi chiedo come si possa ridere delle loro battute”. Critico inconsolabile di fronte al successo di pubblico. Un mese dopo è un inno alla gioia di De Martino, il conduttore, dei suoi comici, e del suo pubblico, sempre largo: “Soprattutto giovane”, gioisce lo stesso Grasso, sempre sul “Corriere della sera”.  Non proprio un mese dopo, quaranta giorni dopo, per le Palme. È il clima pasquale? C’è stato un miracolo?
 
Si fanno ogni mattina, a ogni tg,  lo stesso i giornali, i “pastoni” politici, di quello che ha detto e fatto Meloni, e poi invariabilmente: “Opposizioni all’attacco”. Non questa o quella critica, “opposizioni all’attacco”. E l’immagine corre a Conte, sempre vestito di grigio, e Schlein, sempre invariabilmente disarmocronica, due facce che non “dicono” nulla, giusto l’intelligenza artificiale dei social, sul tema “opposizioni all’attacco” – dei sosia.
 
Si scrive di scambi di “prigionieri” Usa-Russia, e si finisce (Lorenzo Cremonesi, “Corriere della sera”) per dire per inciso, due righe, verso la fine del lungo articolo, che l’Ucraina assolda molti mercenari. Parlando d’altro, dei “volontari” cinesi che Zelensky ha fatto prigionieri, rendendone responsabile il governo: “Pechino replica che si tratta di parole «irresponsabili» e lascia capire che possano essere invece mercenari” – “proprio come migliaia di occidentali”, l’inciso, “oggi combattono nei ranghi ucraini”.
Resta da dire l’essenziale: assoldati da chi?
 
Mbappé da solo ha fatto perdere un paio di coppe al club che lo ha lanciato, il Paris Saint-Germain, alla Francia, e ora al Real Madrid di Ancelotti, sconquassando, in campo e nello spogliatoio. È come fu Cristiano Ronaldo alla Juventus, anche se in questo caso senza presunzione del calciatore: gli eroi solitari, presuntuosi, arroganti, litigiosi, fanno male al calcio. Ma sono i beniamini dei tifosi – oggi si direbbe eroi: gli basta una piroetta in campo.  
 
“Quasi 600 speaker al Festiva del Giornalismo a Perugia, 9-13 aprile”. Quasi? Cioè, sono pochi – più si parla di giornalismo, invece di praticarlo, se in quasi 600 lo spiegano, e meglio stiamo?


Nella generale avversione dei media contro Trump, si accredita una sua vicinanza a Putin – sottinteso: tra dittatori – nella guerra. Mentre fu Trump ad armare Zelensky nel 2019-2020, dopo avere osteggiato con rudezza il Nord Stream 2, la supercondotta del gas russo-tedesca. Voleva Trump amico di Putin già il Russiagate, l’inchiesta pluriennale dell’Fbi e dei media americani, innescata da un spia inglese in pensione, per conto della campagna elettorale di Hillary Clinton  La stampa ha le pulci anche quando è libera.

La Russia è certo indispensabile agli Stati Uniti per isolare la Cina. Sul piano strategico-militare, e i in quella specie di mercato alternativo che Pechino minaccia con i Brics. Non sarebbe un “colpo di teatro” come si ama dire di Trump, se la “guerra dei dazi” si risolvesse alla fine, tra rinvii, esclusioni e abbuoni, in una guerra mascherata alla Cia – alle pratiche commerciali scorrette di Pechino.  

Quel parolaio di Joyce

“Per me sta diventando sempre più difficile, perfino insensato, scrivere in un inglese ufficiale. E la mia lingua mi sembra sempre più un velo che occorre strappare per pervenire alle cose (o al Nulla) celate oltre di esso. Grammatica e stile. A me sembrano diventati inattuali come un costume da bagno vittoriano o l’imperturbabilità di un vero gentiluomo. Una maschera”.
Scrivendo distesamente al drammaturgo tedesco per comunicargli il rifiuto (motivato) di tradurre in inglese il poeta “Ringelnatz” (Hans Böttcher), Beckett si dice anche disorientato dal linguaggio corrente, dal suo proprio, l’inglese. Per la deriva “parolaia”. Di cui fa responsabile anche “l’ultima opera di Joyce” (probabilmente “Finnegans Wake”, che sarà pubblicato due anni dopo ma veniva scritto dal 1923 e certamente era noto almeno in parte a Beckett): “Una apoteosi della parola”.
Meglio Gertrude Stein: “Forse i logografi di Gertrude Stein sono più vicini a quanto ho in mente”. Anche se per caso: “Almeno la tessitura del linguaggio è diventata porosa”. Anche se, “purtroppo, solo per caso, e in conseguenza di una tecnica simile a quella di Feininger” (celebrato fotografo americano ani 1930, n.d.r.). Cercare un rapporto tra i due. “come è di moda”, è insensato. Ma “sulla via che porta a questa letteratura della non parola, per me tanto desiderabile, qualche forma di ironia nominalistica può costituire una fase necessaria”.
E dunque, in fatto di “ironia nominalistica”, Joyce o Stein?
Samuel Beckett ad Axel Kaun
9 luglio 1937, tumblr, online

sabato 12 aprile 2025

Problemi di base scrittoriali - 853

spock


Scrivere è ripopolare il mondo?
 
È anche giudicarlo, per quanto imprendibile, e anche sfuggente?
 
Scrivere è scoprire?
 
È stupirsi?
 
È prendere nota (coscienza) dell’infinita molteplicità?
 
No è specchiarsi, è ricrearsi – anche specchiandosi?


spock@antiit.eu

La divina marchesa

 Con molte illustrazioni, una lunga storia pubblicata vent’anni fa, sulla “ereditiera italiana (milanese, ndr.) nata ricca, sposata ricca, che tutto aveva perduto al tempo della morte, in caratteristico stile surreale”. Che ne fece la vedette di mezzo mondo fashion, se non di tutto, per mezzo secolo. Un “personaggio”, del tutto contemporaneo, e invece stranamente trascurato.
Nata nel 1881, la marchesa è morta, penniless, nel 1957, “erede di una immensa ricchezza, avendo speso in abiti e gioielli più di qualsiasi altra regina nella storia”. Nata Luisa Annan, figlia di un ricchissimo industriale tessile milanese, nobilitato col titolo di conte da Umberto I, che ne era spesso ospite, sposata a un marchese Casati Stampa di Soncino, col quale fece una figlia di cui nessuno si è mai occupato, a 22 anni debuttava con la liaison del secolo, con D’Annunzio. Dopodiché farà le cronache mondane per mezzo secolo. Seducendo, seppure solo in immagine, molti scrittori, per lo più americani (tra essi da ultimo Kerouac), almeno tre generazioni di scrittori. Imperando da Venezia dapprima (dal palazzo poi preso da “un’altra pretessa”, Peggy Guggenheim), e poi a lungo da Parigi. Dagli sgoccioli della Belle Époque ala Jazz Generation, da Cocteau, Man Ray, Paquin, Schiaparelli fino a Karl Lagelfeld, Yves Saint-Laurent, Gucci, Roberto Cavalli, di persona, sempre eccentrica, trasgressiva, eccessiva, e in immagine. “Eccezionalmente alta e cadaverica, con una testa a forma di spada, e un viso piccolo ferino, che veniva sommerso da occhi incandescenti”, coltivò in ogni eccesso l’immagine di sé – “l’animale totem di Casati, come di Medusa, era il serpente: una creatura che squama la pelle e ipnotizza con lo sguardo”.
Una lettura breve, una ventina di pagine, che soppianta stranamente la copiosa biografia della marchesa degli americani Scot D. Ryerson e Michael Orlando Yaccarino, di venticinque anni fa, “La sua infinita varietà”. Thurman vi aggiunge notazioni importanti sulla scena parigina tra le due guerre, desunte dalle sue ricerche attorno a Colette, e su Isak Dinesen, di cui ha scritto molto.
Colette era “una truculenta carnale e frugale «figlia della natura», perennemente dura lavoratrice e allergica alla morbosità”. Ma entrambe, Colette e Casati, erano “credenti nel mondo degli spiriti, frequentatrici delle stesse medium alla moda, etc”, con Jean Lorrain, Montesquiou, Diaghilev, Isadora Duncan, Natalie Barney, lo stesso D’Annunzio, etc.. “Dinesen sembra avere stilizzato la persona stregonesca della vecchiaia – quella della baronessa Blixen – su Casati. Per nascita, appartenevano alla stessa classe, i nouveaux riches, e alla stessa generazione di donne che aspiravano a essere altrettanto pericolose quanto le loro madri era state innocue”.
Molti modi di essere di Blixen-Dinesen in tarda età l’accomunano alla marchesa, spiega Thurman in dettaglio. Premettendo: “Anche se non ho prove che si incontrarono, certamente si incrociarono a Parigi”. Blixen-Dinesen comunque adottò la figura “emaciata”, “fondotinta pastosi e occhi aureolati neri”, ebbe la stessa passione per compagni nobili e poveri, per le eccentricità, per un “barbarismo Orientale filtrato da un velo di snobberia ancien-régime”.
Judith Thurman, The Divine Marquise, The New Yorke Classics, 3 aprime

venerdì 11 aprile 2025

Ma Adenauer voleva la Bomba

La “pregiudiziale atlantica” o “formazione atlantica” è ornai un dato di fatto per la politica della Germania, di destra e di sinistra, da più generazioni. Per Kohl recentemente, e ora von der Leyen, come per il socialdemocratico Schmidt mezzo secolo fa. Ma la tentazione di fare da sé, con un briciolo anche di non-atlantismo, se non di anti-atlantismo, è sempre circolato, seppure sottotraccia: nella Ostpolitik che ha caratterizzato i cancellierati socialisti di Brandt e di Schröder, nell’indifferenza di Merkel. Ma c’è di più: la politica di riarmo del nuovo patto di governo di Berlino trova un precedente nell’ultimo Adenauer, nel 1962-63, estesa allora anche al nucleare.
Da sempre rigidamente atlantico, e con un ministro della Difesa, il bavarese Franz Josef Strauss, altrettanto rigidamente schierato, Adenauer si avvicinò negli ultimi due anni di governo, a fronte della distensione avviata da Kennedy con Kruscev dopo la crisi dei missili di Cuba, verso un’Europa autonoma anche nella difesa. Comprese le armi nucleari.
Nell’ultimo biennio di Adenauer alla cancelleria è una sinfonia discordante a tre parti. Kennedy riflette su un impegno formale a non dotare la Germania di Bonn di armi atomiche. Ancora più risoluta su questo impegno è l’Inghilterra. Mentre Adenauer non perde occasione per dichiarare che la Germania non può tollerare che le sue forze armate non possano disporre di armamento nucleare.
Non potendo sfidare Kennedy, Adenauer si fa sostenitore di De Gaulle. E ne incoraggia in ogni occasione la costituzione di una solida force de frappe nucleare – come nucleo di una “potenza di deterrenza” eurocontinentale.
Il 5 agosto 1963 Stati Uniti e Gran Bretagna firmano a Mosca il trattato “Teststop”, che mira a bloccare il “club atomico” – un trattato contro la Cina, ma anche contro la Francia e la Germania. Adenauer non può reagire – è anche alla fine del cancellierato: indebolito nel suo partito, resterà al potere fino a metà ottobre. Ma fa sapere a Kennedy che non è d’accordo, e moltiplica le aperture a De Gaulle. Fuori dalla cancelleria si farà apertamente polemico con la politica americana di appeasement, a suo avviso, con Mosca, sancita a ferragosto del 1965 con la proposta dell’accordo di non proliferazione nucleare: per Adenauer “l’Europa è consegnata ai russi” – il suo ultimo impegno politico, seppure da grande pensionato, sarà la critica di questo trattato.  

Trumpeide

È perfino affascinante, tanto è assurdo, il tifo per la Cina anche dei media dell’establishment, poteri forti, ceto dirigente, società civile che dir si voglia dei ricchi e dei potenti, come “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, il “Corriere della sera”, nella controversia con gli Stati Uniti. Per un paese di cui sono note le pratiche commerciali scorrette, e che è saldamente comunista, governato da un partito totalitario, con pugno di ferro. Tra America e Cina come si fa a tifare Cina? L’antiamericanismo non era legato al vecchio Pci? I media sguazzano nel cupio dissolvi – o non sar anno già morti?
Dice il giusto solo Pascal Lamy, l’ultimo dei mohicani socialisti - come dire degli ultimi che ci capiscono - che Montefiori da Parigi ha avuto l’intelligenza di far parlare, anche se poco: “Di fatto Trump ha imposto un embargo sulla Cina, anche se non lo chiama tale. E i cinesi non lo stanno gestendo affatto come una questione commerciale, ma geopoliiica. Sono pronti allo scontro”. Cioè, la Cina non si nasconde. Si è filocinesi con giudizio?
Tantissimo spazio ai dazi da Trump, da settimane, da mesi ormai, ma in chiave di mostruosità – enormità, astrusità, anche ridicolaggine. Come se fosse una gag, istrionica, folle. Mentre è articolata, molto. Esenta le materie prime e i prodotti energetici. Canada, Messico e America Latina, alla fine, rientrano nella ginnastica normale dei dazi. Prevede – preannuncia prima d’imporre. E prevede “dazi reciproci scontati”, di molto: applica la metà dei dazi che ogni paese applica ai prodotti americani. Si garantisce anche le manipolazioni del cambio (leggi: Cina). E contro le “barriere non tariffarie”.
Queste barriere sono non da poco: lavoro minorile, femminile, comunque sfruttato, libero inquinamento, sussidi all’export, furti di proprietà intellettuale. Specialmente, quindi, si garantisce contro la Cina. Ma non solo: il capitolo sulle barriere non tariffarie dell’Unione Europea è lungo trenta pagine.

Questa storia non la racconta giusta

Un saggio del 2006, breve, per denunciare la guerra all’Iraq: “Trent’anni fa abbiamo subito una sconfitta militare - combattendo una guerra che non si poteva vincere contro un paese di cui non sapevamo nulla e nel quale non avevamo in gioco interessi vitali. In Vietnam andò male, ma ripetere lo stesso esperimento dopo trent’anni in Iraq è una forte prova in un processo per stupidità nazionale”. Ripubblicato, per il titolo-civetta, in chiave anti-Trump – contro cui la rivista è costantemente critica. Se non che il Vietnam gli Stati Uniti devono a John Kennedy, il presidente di cui Schlesinger fu lo storico amato e l’amico devoto.
Resta come lettura, concisa e insieme approfondita, del farsi della storia come storiografia. Nelle sue varie tendenze o fasi: politica (dinastica, militare), sociale, di classe, dei diritti, ideologica o postmoderna, e storytelling  o narratologia. Tenendo presente che “il presente incessantemente ricrea, reinventa, il passato. E in questo senso tutta la storia, come Benedetto Croce ha detto, è storia contemporanea”.
Arthur Schlesinger jr., History and National Stupidity, “The New York Review”, free online

giovedì 10 aprile 2025

Ombre - 769

Bastano due o tre giorni d’impazzimento delle Borse al ribasso, e i fondi passano subito dal (modesto) attivo al rosso di due e tre punti. Poi sopravvengono due giorni d’impazzimento delle Borse al rialzo e niente, i fondi sono sempre rossi di vergogna, al 3 e anche al 4 per cento. Il carovita è inferiore alle attese? Si agita il rischio recessione - un rischio si trova sempre. Quando finirà l’horror di questo sifonamento dei risparmi di milioni di persone, ardentemente consigliato dalle banche, a opera di veri e propri ladri del risparmio, professionali?

 
Si fanno ogni giorno pagine e pagine su Trump personaggio, quale lui si vuole da politico-uomo di spettacolo. Sempre con grandi “ooh!” per i suoi colpi di scena. Che invece sono scritti nei documenti, del ministro del Tesoro, del Council of Economic Advisers, con dinamiche già previste, al giorno e all’ora. Nessuno legge, basta spararla ogni giorno grossa? Ma il sensazionalismo, peraltro ripetitivo - siamo sempre ancora ben in vita – non stanca i lettori, invece di stuzzicarli?
 
Viene salvato di tutto il governo Trump, ovunque rappresentato come un baraccone, di pagliacci, incapaci, semidementi, solo il ministro del Tesoro Scott Bessent. Solo perché è – è stato per metà vita – socio di Soros? L’“informazione” è orientata?
 
Bessent in effetti veste bene, taglio sartoriale (inglese? Napoletano?). Ma anche Trump 2, benché faceto, intrattenitore incontinente, va ora ben vestito. Mentre Bessent è il vero ispiratore, autore, regista di questa “commedia all’italiana” che sono i dazi – o come sgonfiare unilateralmente il caro-dollaro.
Questo, che pure è l’essenziale, non si dice. Si accredita invece la “voce” (di chi?) che Bessent è contrario ai dazi…. Un vero signore, chissà perché sta col Mackie Messer Trump, Jack-the-Knife.
 
Si fa l’elogio in Parlamento di Paola Del Din, intraprendente eroina della Resistenza, ma a opera del re d’Inghilterra. Sì, perché addestrata dagli inglesi come paracadutista, ma perché non c’è su questa donna affascinante da ogni punto di vista, a partire dal fratello maggiore già ucciso dai tedeschi, ancora in vita a 102 anni, nessun best-seller di “storia”, nessun film, nemmeno uno sceneggiato, un medaglione, un’intervista? Perché non era del Pci. Anzi, era della Brigata Osoppo, che quelli del Pci s’ingegnavano di assassinare a tradimento. Poi si dice la Liberazione: di chi a opera di chi?
 
Tra gaffes e complimenti il re inglese è attorniato, si direbbe assediato, da leghisti, La Russa, Fontana, Simonetta Matone. Che poi si dicono anti-europeisti. Pensano di prendere qualche voto più con Carlo contro von der Leyen?
 
Nell’aula affollata in Parlamento per il discorso del re inglese, ambientalista avant-lettre , conservazionista, c’era vuoti, sensibili, sul lato sinistro dell’emiciclo, guardando dalla presidenza, dove siedono Verdi e Sinistra, Democratici, 5 Stelle. Per essere repubblicani? O non saranno contro la “perfida Albione”, i ruoli si rovesciano?
 
Racconta Saronni a Bonarrigo sul “Corriere della sera” di un viaggio avventuroso a Berlino Est per una gara d’inseguimento: “Arrivammo al confine di notte: i cani lupo, i fari dalle torrette, i Vopos con i mitra puntati. Ci tennero ore a fianco di una donna con due bambini piccolissimi che perquisirono facendole spremere anche i tubetti di dentifricio. La sua umiliazione….”. Non era un caso, era la normalità, nel 1974, appena ieri.
 
Si fanno molte pagine, com’è giusto, sui dazi di Trump. E si sentono le lamentele degli industriali che ne potrebbero essere colpiti. I quali però tutti, senza eccezione, non lamentano tanto i dazi, possibili, eventuali, futuri, ma invece la “iperregolamentazione” europea. La burocrazia, attiva, costosa, dannosa. E il green deal Ue, una transizione accelerata a cui nessun’altro al mondo si applica o si sente obbligato. Doveva essere una furbata – prendiamo la testa dell’innovazione – e invece è una stupidaggine – la piccola Europa che salva la grande terra?
 
A fine marzo 2025 il National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers, che il ministro Usa del Commercio indirizza ogni anno al presidente, fa un riferimento in testatina alla European Union portion of the Report, talmente essa è complessa. Prende la parte maggiore del Rapporto, 32 o 32 pagine, ed elenca una quarantina di pratiche "scorrette" - anche autolesive: sussidi, barriere, alle importazioni e agli investimenti, classificazioni, etichettature e regolamentazioni minute e contorte: sanità
, fito-sanita, pesticidi, biotecnologie, gas ad effetto serra, packaging, plastica, servizi digitali (“Digital Services Act”), tassazione dei servizi digitali, tassa sulle emissioni di CO2 dei prodotti importati (Carbon Border Adjustment Mechanism). Un dirigismo minuto, asfissiante, e infine balordo.


E la Germania invece di casa discute? Di riprendersi l’oro depositato, per ragioni di sicurezza ed economia, a Fort Knox negli Stati Uniti. Depositi che nessun altro prova a riprendersi. Non la Russia prima della guerra e delle sanzioni. Non la Cina, che è l’obiettivo dichiarato della guerra monetaria e commerciale di Trump. La Germania è proprio immutabile.
 
Trump è Trump – è l’America - e, quali che siano gli obiettivi reali della sua guerra dei dazi, non c’è niente da fare, giusto qualcosa da dire, da discutere. Ma è vero, come lui dice, o gli fanno dire, che con l’Iva l’Europa castra e si castra. P.es. in Italia, specie nei servizi, dove è la causa e il motore dell’economia in nero, degli arricchimenti facili, delle disparità sociali. Una verità talmente evidente. E non se ne può nemmeno discutere.
 
 
Di Lorenzo Necci la figlia Alessandra può ricordare sul “Corriere della sera”, per i vent’anni dalla morte, che “è stato travolto da un’inchiesta giudiziaria che gli è valsa quarantadue assoluzioni”. Altro che riforma, ci vorrebbe la ghigliottina.
Un’“inchiesta giudiziaria” naturalmente da sbirri, non di giustizia. Impuni. Anzi privilegiati, sui media, al Quirinale, in carriera, nei poteri veri.
 
Sempre Alessandra Necci dice: “Papà fu portato in prigione senza sapere di che cosa lo accusavano. Quando uscì, alla fine della detenzione su cui la Cassazione espresse una sentenza netta, la prima cosa che fece fu di scrivere al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, con un rendiconto del suo operato”. “Risposte?”, chiede l’intervistatore. “Nessuna”. Di Scalfaro e “Mani Pulite”, e i processi Sofri, non si fa la storia. Perché?
 
Si discute a Roma, discutono i romanisti, se e perché la loro squadra di calcio, che non perde da quindici partite (ne ha vinte 11 e pareggiate 4) e nelle ultime otto ha preso solo due gol, “non gioca bene”. Che è una scemenza - i tifosi intendono che vince ma senza il “bel gioco”. Ma quanta passione, di un tifo che riempie l’Olimpico, 63 mila posti, anche per le amichevoli. Che in mani olandesi o spagnole diventerebbe un business enorme, altro che Real Madrid.

È curioso come i tg e i giornali italiani, anche quelli che si penserebbero di destra, parlano di Trump, dei dazi e di ogni altro impiccio, come i media americani, che sono stati e sono anti-Trump sempre e comunque. Più che di destra e sinistra, ribolle sempre l’antiamericanismo, della “cattolica” (duplice Italia.

 

Il balletto, poco truce, dei cadaveri

Tenuta su da Brignano, il gonfio bamboccione solitario e imbranato, orfanato dai genitori emigrati politici nella Germania sovietica, all’epoca del paradiso in terra, e cresciuto dalle suore, che si vuole agente segreto e spia e scopre tutto, una grande occasione per molte attrici in ruoli comici, una rarità: Gabriella Pession, Paola Minaccioni, Grazia Schiavo.
Del film si è già detto un anno fa: i morti compaiono, assassinati, e scompaiono, e non si sa se non sono parto della fantasia di Brignano, guardiano di un supermercato col culto di James Bond – in realtà curioso di indizi, invadente come Sherlock Holmes. Ma senza Grandi Potenze in lotta, una storia di corna e di “bonazze” – una black comedy, su temi italici.
Rivisto, una grande occasione, per soggetto, sceneggiatura, interpretazioni strepitose, sprecata dalla distribuzione con la programmazione dell’uscita, due anni fa, in agosto. 
Alessandro Pondi,
Una commedia pericolosa, Rai 1, Raiplay


mercoledì 9 aprile 2025

A Pechino la metà del debito Usa

La partita dei dazi è una partita Usa-Cina. Con molto teatro a fare scena, per qualche spicciolo, minuscolo, accessorio, beneficio su altri fronti, Canada, Messico, Ue, Giappone, Corea. 

“Trump ha minacciato di punire i Paesi che smettono di usare il dollaro come riserva monetaria”, scriveva a novembre, subito dopo il voto ma prima della presidenza Trump, quello che poi è diventato il il suo Presidente del Comitato dei Consiglieri Economici, Stephen Miran. Vuole solo un movimento al ribasso del cambio del dollaro – un altro “accordo del Plaza”, come quello del 1985, che chiuse la turbolenza monetaria e aprì la lunga stagione della globalizzazione. E si capisce che prende di punta, con la politica dei dazi per indebolire il dollaro, in primo luogo la Cina. Dazi sì, ma stabilità monetaria, in attesa di rivalutare le monete nazionali dei concorrenti - o svalutare il dollaro.
Le riserve in dollari (i “tesoretti” in dollari) dei maggiori detentori della valuta americana, erano così scaglionati nel 2024. Alla sola Cina era in capo quasi la metà dei dollari detenuti fuori dagli Stati Uniti: 3 trilioni. Seguivano il Giappone, con 1,2 trilioni, la “Svizzera” con 800 miliardi, l’India 600, Taiwan 560, Arabia Saudita 450, Corea del Sud 420, Singapore 350, Ue solo 80.
Si capisce da questo quadro la diversa reazione ai dazi di Trump. Della aloofness cinese, per esempio, confuciana?, la correttezza distaccata. Specialmente visibile a fronte dell’agitazione europea – ridicolo al confronto l’allarme che si fa circolare in Germania sulle riserve in dollari della Bundesbank.

Chicken run Trump-Cina – o i dazi per ristrutturare il debito Usa

Il dollaro è troppo forte, va svalutato, o altrimenti…. Il presidente dei consiglieri economici di Trump, del Council of Economic Advisers, aveva anticipato a novembre l’attuale strategia dei dazi: un dollaro più debole oppure dazi a tutti. “Storicamente”, dichiara in apertura dello studio, “gli Stati Uniti hanno perseguito approcci multilaterali per gli aggiustamenti monetari. Molti analisti credono che non ci sono mezzi per provocare unilateralmente la svalutazione della moneta, ma questo non è vero”. E promette, ma senza toni minacciosi: “Descriverò alcune potenziali vie per una strategia di aggiustamento monetario, multilaterale o unilaterale, e i mezzi per mitigare effetti collaterali indesiderati”. Mettere dazi su misura a tutti i partner la prima mossa.
Il debito va ristrutturato (quello che, incidentalmente, l’Italia non ha fatto prima di aderire all’euro e ora le costa così tanto caro, la “palla al piede”). E nello stesso tempo va riguadagnata, col rilancio della produzione interna sostituiva di importazioni, con i dazi e la svalutazione del dollaro, la creazione in America di posti di lavoro qualificati, a reddito elevato – oggi l’occupazione è al massimo, malgrado l’entrata ogni anno di milioni di immigrati, legali e non, ma molti devono fare due e tre lavori per sopravvivere. 

Lo studio è chiaro, esplicito. Prevede perfino un intervento unilaterale del Tesoro americano, che la legge consentirebbe, un International Emergency Economic Powers Act del 1977. Una legge che conferisce alla presidenza poteri discrezionali anche in materia di “guerre economiche”, fino a una supertassa (“tassa duso”) sulle riserve straniere in dollari. 

Miran non è un economista in cattedra. Dottorato a Harvard, ha lavorato nell’industria finanziaria – da ultimo a lungo, Senior Strategist, nella società di gestione investimenti Hudson Bay Capital. Ma nella trattazione fa riferimento spesso all’attuale ministro del Tesoro, il banchiere Scott Bessent, socio di Soros per un quarto di secolo, poi titolare di una società d’investimenti analoga allo Hudson Bay Capital, il Key Square Group. Il quale ne ha avallato, e applicato fino ad ora alle lettera, presupposti e misure.
Miran è esplicito: ci vuole una “versione 21mo secolo di accordo valutario multilaterale”. Analogo all’Accordo del Plaza del 1985, imposto e ottenuto da Reagan, con beneficio di tutti – segnò l’avvio della globalizzazione, che in effetti è stata la maggiore rivoluzione economica da due o tre secoli, dopo quella industriale. In sostanza, una ristrutturazione del debito lordo statunitense, che è a livelli e viaggia a ritmi italiani, attorno al 130 per cento del pil. Per il quale paga cifre enormi.
Il “mondo” dovrebbe vendere i suoi dollari, per rivalutare le proprie monete. Favorendo anche, indirettamente le esportazioni americane. E\o scambiare i Treasury Bond, i Bot americani, di cui è goloso, per la stabilità e per  gli elevati rendimenti, con obbligazioni dello stesso Tesoro americano ma a scadenza “secolare” – a lungo termine.
Il “privilegio esorbitante del dollaro”, denunciato da molti economisti in polemica con Washington dagli anni 1960, si è trasformato in un handicap. Per l’economia. Specialmente per l’industria – quindi per il lavoro, l’occupazione qualificata, i redditi. Questo sistema, del dollaro über alles, “avvantaggia i settori finanziari dell’economia”, ma danneggia la produzione, e la produttività.
La critica non è nuova. Le prime risalgono a una quindicina d’anni fa, per esempio di Fred Bergsten, che è stato vice-ministro del Tesoro di Carter e poi animatore di molte istituzioni di studi economici internazionali. Del resto, Miran è in linea col “dilemma del dollaro “ di Triffin, che richiama subito, l’economista americano-belga che criticava negli ani 1950 gli accordi monetari di Bretton Woods, il sistema dei cambi fissi, basato sul dollaro: il dollaro, moneta nazionale, non può fare da moneta mondiale. Per farlo, per essere effettivamente moneta di riserva globale, gli Stati Uniti devono costantemente indebitarsi. Creare più moneta di quanto ne hanno bisogno, avere (e finanziare) una bilancia dei pagamenti costantemente in deficit. Miran lo spiega con un grafico eloquente: pur con oscillazioni, il trend è netto, si va da un avanzo di 150 miliardi nel 1960 a un disavanzo di 1.200 miliardi nel 2024, con un deterioramento costante nei sessant’anni.
Coi dazi il deprezzamento sarà automatico? Si può dire che Trump – Miran per lui - vuole rivoluzionare il dollaro. O almeno indebolirlo.  
Con la Cina il discorso americano è semplice: “La lista degli abusi della Cina sul sistema internazionale del commercio è lungo e variato, dai sussidi di Stato alle industrie da esportazione a puri e semplici furti della proprietà intellettuale e ai sabotaggi aziendali”.  Rappresaglie? “Poiché gli Stati Uniti sono un grande bacino di domanda per il mondo, con robusti mercati dei capitali, possono fare fronte a rappresaglie più facilmente di qualsiasi altra nazione con probabilità di vincere, come a un game of chicken” – “gioco del pollo”: nella teoria de giochi chi sa fermarsi immediatamente prima del baratro, avendo accumulato un tragitto più più lungo dell’avversario. Era una scommessa, il chicken run, all’origine, nel film “Gioventù Bruciata, 1955. E non è una scommessa semplice – quasi una “roulette russa”.   
Stephen Miran, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System, Hudson Bay Capital, free online
I

martedì 8 aprile 2025

Problemi di base vitali (852)

spock

“Può il presente aiutare il passato”, Han Kang?

 

“Può il passato aiutare il presente”, id.?

 

“Possono i vivi salvare i morti”, id.?

 

“Possono i morti salvare i vivi”, id.?

 

“La vita anela alla vita” (id.), anche da morti?

 

“Morire è diventare freddi (id.) anche da vivi?


spock@antiit.eu


Roma “divina” – per una filosofia della città

La bellezza è degli insiemi, non delle singole cose, o componenti. E può essere ricercata (costruita), oppure casuale. Come è quella della natura. Ma anche di manufatti che se non sono nati con canoni estetici ne prendono le proprietà, ne hanno gli effetti.
Questa è la “filosofia della città” che Simmel abbozza. Una breve raccolta, a cura di Federica Corecco e Christian Zürcher: “Roma. Un’analisi estetica”, un testo pubblicato sul settimanale “Die Zeit” di Vienna nel numero di maggio 1898, è un saggio, la bellezza dell’antico. Completano la compilazione sette paginette su Firenze, e altrettante su Venezia: due articoli di giornale, del 1906 e del 1907, ma pieni di senso. Andrea Pinotti prova nella corposa introduzione a dare un filo unitario alle annotazione del turista, facendone un “filosofo della città”.
Roma, sempre “costruita” per migliaia di anni, “obbedendo unicamente a esigenze del presente e al gusto o alla moda della propria epoca”, è un “opus superogationis”, un’opera supererogatoria - con qualche stiracchiamento del temine teologico: un’opera il cui valore “supera di gran lunga le originarie intenzioni”. Che erano solo celebrative, si potrebbe osservare, dei vari trionfi, “monumentali”. Ma con la notazione più pertinentemente teologica: “Allo stesso modo le azioni dell’uomo, governate dalla particolarità e dall’angustia dei loro obiettivi, confluiscono tuttavia nella realizzazione del piano divino del mondo di cui non sanno nulla”.
Come Roma ci arriva? È una città che si parla. “La città è condizionata dalla natura collinare del terreno. Quasi ovunque gli edifici si situano in un rapporto di reciprocità tra alto e basso”, e “si richiamano l’un l'altro”. Con un senso vivo dell’unità e del diverso - nuovo. Sorprendente: “Dalla molteplicità esteriore, o persino interiore, verso l’unità interiore”.
Firenze è il luogo “in cui per la prima volta si avvertì che tutta la bellezza e il significato a cui l’arte aspira si presenta come un’elaborazione della manifestazione naturale delle cose…. Nei palazzi di Firenze, di tutta la Toscana, percepiamo l’aspetto esteriore come l’espressione esatta del loro senso interiore”. Che non è etrusco?
Firenze è anche la continuità: “Il tempo, qui, non genera una tensione distruttrice tra le cose, come accade con il tempo reale, ma anzi assomiglia al tempo ideale nel quale vive l’opera d’arte; il passato, qui, ci appartiene quanto la natura, che è anch’essa eterno presente”. Il che è, curiosamente, il limite dell’arte: “I limiti interni di Firenze sono i limiti dell’arte”. Dell’arte rispetto al mondo, alla natura: “La terra di Firenze non è una terra su cui ci si getta per sentir battere il cuore dell’esistenza nel suo oscuro calore, nella sua forza informe – come potremmo sentirci nelle foreste tedesche, in riva al mare e persino in un qualunque giardino fiorito di un’anonima cittadina di provincia… Non è una terra per noi, in un’epoca in cui si intende ricominciare tutto da capo… Firenze è la città degli uomini compiutamente maturi che hanno raggiunto l’essenza della vita o vi hanno rinunciato e che, per tale possesso o tale rinuncia, vogliono cercare unicamente la sua forma”.
Venezia è il luogo dell’uniformità. E della mascheratura: “Venezia è la città dell’artificio…. Tutti a Venezia si muovono come su un palcoscenico: con la loro operosità, che non produce nulla, o con le loro vuote fantasticherie”. E subito poi: “Persino il ponte perde qui la sua forza vivificante”.
A Venezia molto è in rapporto a (a differenza da) Firenze. Una città d’acqua, senza il respiro del tempo, delle stagioni. Una città di “strette calli” e di “stanze, ambiente chiuso, circoscritto. Con “l’apparenza di un’intimità e di un’«amabilità» in cui non c’è traccia dell’anima”.
Di Roma-meraviglia il filosofo della città non sa che dire di troppo, dando un senso alle impressioni quotidiane di chi ci vive. Riprende Feuerbach: “Roma assegna a ciascuno il proprio posto” (ma è Anselm, il pittore, figlio dell’archeologo e nipote del filosofo, che visse a Roma diciotto anni, dal 1855 al 1873 – e morirà a Venezia poco dopo, nel 1880). Non nel senso della dispersione, non a escludere ma a inglobare. Succede con  Roma come con Goethe, come ci identifichiamo con le personalità elevate: ha l’autorevolezza dei Grandi Personaggi, per cui “ciò che in qualsiasi altro posto risulterebbe del tutto insignificante acquisisce, in quanto parte costitutiva di Roma, un senso che trascende di gran lunga il suo significato immediato, quello che le è proprio «in sé e per sé» In virtù dell’unità per cui Roma fa sì che si fondano tutti i suoi contenuti”. Una unità di cultura: “Se a Roma non ci si sente soffocare, ma anzi si ha l’impressione di aver raggiunto l’apice della propria personalità, questo è certamente un riflesso della spontaneità esasperata dell’uomo interiore. In nessun altro luogo al mondo un caso felice ha disposto gli oggetti in modo tanto adeguato al nostro spirito da invitarlo a sviluppare la forza capace di riunirli in una unità piena, superando così le enormi distanze della sua immediata datità. Questa è anche la ragione per cui Roma si imprime in modo tanto indelebile nella nostra memoria”. “In nessun altro” è esagerato, bisognerebbe avere visto tutto, ma il senso resta.  
Georg Simmel, Roma, Firenze, Venezia, Meltemi, pp. 69 € 8

lunedì 7 aprile 2025

“A Washington, a Washington”, a trattare

Che va a fare Giorgia Meloni a Washington da Trump dopo i dazi? Niente, perché niente può fare -  in materia commerciale si decide tutto a Bruxelles. Ma può favorire un chiarimento, non marginale, anzi decisivo su quello che è in realtà il piano americano.
Il piano di Trump è diventato materia di gladiatori al Colosseo. Una lettura favorita dalla gigantesca speculazione ribassista che vi è stata innestata. Ma è articolato, specie nelle premesse: è un invito alla revisione dei rapporti reciproci con la “maggiore economia” del mondo. Il ministro del Tesoro che dai manovratori di Borsa veniva dato per dimissionario di fronte alla “follia Trump”, Scott Bessent, è invece bene in carica, e ripete il consiglio che il piano, a leggerlo, premette: trattare - “Non fate ritorsioni, sedetevi, discutete. Perché se reagite sarà una escalation”. Una precisazione che trova riscontro nell’ “ordine esecutivo” di Trump sui dazi, a volerlo leggere.
Il piano tariffario di Trump è sicuramente aggressivo, rispetto all’ordinamento attuale dei mercati, ma “gentile”, come lui dice, nella forma e anche nei contenuti. Intanto, Canada, Messico e America Latina ne vengono esentati, perché hanno risposto rapidamente alla minaccia, hanno trattato. I nuovi dazi prendono la forma di “dazio reciproco scontato”, e cioè paese per paese la metà dei dazi che quel paese impone sulle merci americane.
La Gran Bretagna mantiene i dazi Usa al 10 per cento perché impone il 20 per cento sulle importazioni. Con l’Europa si arriva al 20 per cento calcolando la media europea dei dazi sui prodotti Usa al 39 per cento.  
Più spinoso è il capitolo, in aggiunta ai dazi commerciali, delle “barriere non tariffarie” su cui Trump si propone di vedere chiaro: burocrazia, sussidi, barriere agli investimenti esteri, anche sotto forma fiscale, barriere commerciali. Per l’Europa sono citati espressamente il Digital Services Act e il Carbon Border Adjustmenet Mechanism – i dazi sulle emissioni di CO2 importate. Ma molte se non tutte queste barriere sono contestate dall’interno della stessa Europa, con più veemenza – da tutti i settori industriali, e anche da governi non “populisti” (da ultimo, ora che ha dovuto abbandonare il “tutto green” del mercantilismo di Angela Merkel, dalla Germania).

La valanga speculativa

Non si ferma il crollo mondiale delle Borse, dopo l’annuncio dei dazi di Trump. In tutto il mondo, in tutti i comparti. Una manovra ribassista vertiginosa, che ha avuto un successo strepitoso. In tutti i settori, Ict, banche, assicurazioni, utilities, più o meno pubbliche, automotive, siderurgia e metalli, tessile e abbigliamento, agroalimentare. Una speculazione senza precedenti, una valanga.  
Il cassettista non c’entra, rimane impietrito di fronte alla valanga. Non ci sono mai stati crolli a ripetizione del 5 e 6 per cento, per più giorni di seguito, per più settimane, sotto un cielo senza nuvole (fallimenti, recessioni, guerre), su tutte le piazze indifferentemente, in nessuna crisi pregressa. Oggi si può, sull’effetto mediatico. E scontare l’opinione controversa del nuovo-vecchio presidente americano è una manovra agevole.
Ma se il cassettista non si muove, che speculazione è – è il “parco buoi”, il piccolo risparmiatore, che paga i movimenti violenti di Borsa? S’incassa l’ipervalutazione dei corsi degli ultimi anni, specie nei settori finanziario (banche, assicurazioni) e tecnologico, senza rapporto col sottostante, e si resta liquidi – presto il motore ripartirà.
 

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (589)

Giuseppe Leuzzi
Napoli madre
Il duello (da qualche anno per lo scudetto) Napoli-Milano è più oleografico che mai - imperituro? Anema e core vs. silenzio. Non c’è napoletano, che pure abbia abbandonato Napoli senza nemmeno rancore, per il corso delle cose, che non parli di Napoli. L’altro ieri Elisabetta Rasy – come già, a lungo, Raffaele La Capria. Oggi l’avvocatessa, giurista e ex ministra Paola Severino: “Di Napoli conservo l’aroma della diversità, il mescolare dell’alto con il basso, nell’idea di una uniformità”. Che non si capisce cosa vuole dire ma è come dire: Napoli nel cuore – anche se uno non ci ha a che fare.
Ieri “Il Foglio” con due pagine roventi, “Manierismi e venerazione”, sui “nuovi santi di Napoli”. Una città che ha bisogno di santi, dunque, con “storie di moderne apoteosi partenopee, celebrate nelle strade, sui palchi, nei musei”. Di una laica trinità, prima Massimo Troisi, però come al solito modesto. Poi Pino Daniele, “il cantautore di «Napul’è»”. E naturalmente Maradona, ora in veste di “santo che protegge dal terremoto”.  Pino Daniele principalmente, per i dieci anni della morte e i settanta della nascita. Con due documentari, un film che si annuncia, e l’annuncio di un terzo documentario, più una mostra, a Palazzo Reale. E una medaglia, in argento, a forma di plettro, della Zecca dello Stato. Anche se “non viveva a Napoli”, e ne rifuggiva.
Napoli si è persino pacificata con Caruso, “dopo un secolo di incomprensioni”.
Niola dice Napoli “una madre imperiosa: ti dà moltissimo e molto ti toglie”, guardando “solo a ciò che dà senza riflettere su ciò che toglie”. Attenta alle minuzie, per cui ha una memoria “talmente ‘zippata’” da riuscire ingombrante, ritrovandosi “sempre gravata dai suoi resti”.
Milano tace. Con Jannacci. Come sempre. Severino, che vi ha aperto studio dopo Mani Pulite, molto c’era da fare, ci trova apprezzante, con le multinazionali come anche a Roma, e a Napoli, “i capitalisti silenziosi delle imprese familiari” – e le banche, certo.
 
Il senso della morte
“Il senso della morte proviene dai suoni della mia infanzia”, spiega a Cacciari Riccardo Muti, nel dialogo “Le sette parole di Cristo”, p.111: “Da ragazzo ho sempre accompagnato le processioni della Passione del Venerdì e Sabato Santo. Le marce funebri dei paesi del nostro sud ti costringono ad un ad un dialogo ravvicinato con la morte”.
Muti ne fa un segno caratterizzante permanente: “Quelle statue tragiche trasportate in quei giorni al suono di quelle marce hanno influenzato fortemente tutta la mia vita di musicista. Io mi sento figlio di quella civiltà. Il senso della morte proviene dai suoni della mia infanzia. Forse per questo amo molto i Requiem….: i Requiem di Cherubini, il Requiem di Brahm1s, i Requiem di Mozart, il Requiem di Verdi, lo Stabat Mater di Rossini….”
 
Storie di San Luca
Si riscioglie per mafia - in realtà senza una motivazione specifica, “su proposta del prefetto”, nel caso una prefettessa - il consiglio comunale di San Luca, per molti anni deserto, dopo un primo o secondo scioglimento. La prefettessa scioglie anche, nell’occasione, la benemerita Fondazione  Corrado Alvaro, basata a San Luca. E uno deve concludere che sia una condanna legata al nome, alla nomea - l’ASD San Luca (calcio) era riuscita perfino ad ascendere alla serie D, con un campo di calcio in erba naturale (e tremila abitanti). 
Oppure San Luca, paese di Corrado Alvaro, come paese “raccontato” è condannato a un’esistenza “letteraria”, fissata un secolo fa. A Natale - o Capodanno - del 1991 avviò una colossale faida, finita poi in tragedia in Germania, con la strage di Duisburg, sei morti, con questo avvio: il lancio di uova per Carnevale da parte di alcuni ragazzi contro vari negozi, tra cui uno gestito da un malavitoso.
Ma, anche questo è vero, era stata in precedenza la vera capitale dei sequestri di persona.
È pure, era qualche anno fa, un paese dove la metà delle famiglie era tornata a farsi il pane in casa, con l’impasto, la lievitazione, il forno a legna – a turno - e tutto. Ed è - era - anche il paese delle guardie forestali in eccesso. Che però curavano i rifugi in pietra (che nessuno adoperava, il parco dell’Aspromonte, che è uno dei più variati, e quindi “belli”, è deserto), e amavano, verrebbe da dire, veneravano i castagni di quattro e cinquecento anni. Soprattutto evitavano gli incendi - che poi, proprio sul versante jonico, sono stati catastrofici, nel 2021, con la distruzione di boschi “storici”, di 5 e 600 anni.
Si raffigura l’evangelista (si raffigurava nella tradizione copto-ortodossa, nella quale riceve grande venerazione, come il primo ritrattista, invaghito, della Madonna - la Vergine Odigitria, Theotókos Odigitria, Panaghía Odigitria, quella che apre o indica la strada) col pennello in mano, lo sguardof isso perplesso. Come di ogni artista. Ma si vede che non ha sciolto le perplessità neppure nel luogo che ne porta il nome.  
 
Malavita di curiosità
“Maranza” e rom, storia di scippi, gioielli rubati, ricettazione, e di case occupate. Nella normalità. A Milano. Il “Corriere della sera” eccezionalmente ci fa una pagina, come di una curiosità. Anche perché tutto avviene alla luce del sole, a un posto di dogana, niente “retate” all’alba, niente indagini, microspie, trojan, intercettazioni. Giusto una storia di controllo aeroportuale, casuale. A una famiglia rom, una famigliola numerosa, in viaggio da Orio al Serio alla Romania, per una festa di nozze. Ma niente scandalo: “maranza”, ladri, ricettatori non sono cose da Dda, non hanno parenti calabresi, nemmeno un cugino. Sono anche noti, “Striscia la notizia” li fotografa ogni giorno mentre lavorano nella metro. Quindi non c’è da preoccuparsi?
La famigliola arriva disinvolta al check-in in aeroporto: “Arrivano carichi di gioielli e trascinando borse di Chanel e Louis Vuitton (anche queste rubate)”: la polizia non può non controllarli. “Addosso alla famiglia, oltre a 15 mila euro in contanti, gli agenti trovano 61 monili d’oro. Alcuni sono «spezzati». Altri hanno incisi nomi e scritte”. “Sono i regali che portiamo per il matrimonio”, lamentano. Ma niente, la polizia non può che fermarli.
È un’organizzazione mafiosa? No, è una famiglia rom. “«Mamma Romania», così i «maranza» delle rapine (giovani sudamericani e africani, n.d.r.) contattavano i ricettatori. Una famiglia di rom che aveva occupato abusivamente un appartamento di San Siro”. A cui confluisce senza sosta il bottino degli scippi: “Rapine di collanine, orologi di lusso e cellulari, che per la maggior parte avvenivano in metropolitana”
Si direbbe un’organizzazione non da poco - “quanto agli arresti…. 18 minorenni e 32 maggiorenni”. Ma niente allarmi, si continua a borseggiare in metropolitana - “Striscia la notizia” può continuare a filmare i borseggiamenti e gli scippi. Come dire: uno spettacolo.
C’è crimine e crimine, certo. Si può commetterli alla luce del sole, anche con violenza, e niente succede. È l’origine che fa il crimine dei Cavalieri del Lavoro, buonanima, di Catania, una vita di fatica, distrutti con quattro avvisi di garanzia. Il crimine è un’etichetta. 
 
Il crimine in nuce
“Il fratello di Lea Garofalo fu ucciso solo perché si rifiutò di ammazzarla. Almeno questo è quello che sostiene il collaboratore di giustizia Carmine Venturino, che oggi ha 38 anni ma ne aveva appena 16 quando avrebbe nascosto le armi utilizzate nell’agguato. E avrebbe fatto da vedetta al commando che entrò in azione l’8 giugno 2005 per assassinare Floriano Garofalo”. Che aveva anche lui sedici anni.
Venturino, che oggi, morti gli assassini e i mandanti, quindi non più minacciabile, fa il pentito per uscire dal carcere, la sera dell’agguato faceva finta di raccogliere ciliegie, mentre fungeva da palo. Custodì poi le armi dell’agguato per sei mesi all’interno della sua abitazione.
Venturino è ritenuto attendibile per avere fatto ritrovare i resti di Lea. In un campo vicino Monza - il corpo bruciato, le ossa ridotte in migliaia di frammenti.
Floriano Garofalo non era un brav’uomo: “Ha ucciso tanta gente, imponeva alla povera gente del paese di pagare il pizzo”, ha scritto Venturino da pentito qualche tempo fa ai giornali. Non aveva però ucciso la sorella, rea di avere denunciato l’assassino di Antonio Comberiati a Milano nel maggio 1995, nella persona di Giuseppe Cosco detto “Smith”, dalla pistola, fratello di Carlo Cosco, il suo convivente. Che poi organizza l’eliminazione della compagna. Venturino faceva da palo sulla strada, davanti alla casa in via Fioravanti a Milano, mentre il commando omicida strangolava Lea Garofalo col cordino di una tenda, metteva il cadavere in uno scatolone, lo scatolone in un sacco nero, e il tutto poi portava al quartiere San Fruttuoso di Monza.
Un caso come tanti di cronaca nera. Perché rileggerlo? Perché l’attacco alla delinquenza, dei rozzi e sanguinari, è - sarebbe stato - più fruttuoso delle chiacchiere di mafia, che distolgono l’apparato repressivo – buone giusto per le carriere di pochi, giornalisti, giudici, anche Carabinieri (non c’erano Carabinieri nel paese dei Garofalo – Petilia Policastro è quasi una cittadina, da 9-10 mila abitanti?).
 
Cronache della differenza: Sicilia
Ce l’aveva anche con la Sicilia, naturalmente, Tomasi di Lampedusa, come con la Calabria, scrivendo negli anni 1950 “Il Gattopardo”. A don Fabrizio Salina al suo ultimo viaggio di ritorno da  Napoli, la fa vedere secca e riarsa: “A Messina poco dopo, il mendace sorriso dello Stretto subito sbugiardato dalle riarse colline peloritane”…. Che invece, negli anni in cui il romanzo si scriveva, erano verdissime - come del resto Tomasi sapeva, poiché frequentava i cugini Piccolo poco lontano,  a Capo d’Olando.
 
È però vero che per andare da Messina a Palermo il treno faceva al tempo del viaggio un lunghissimo e sgraziatissimo percorso: Messina-Catania, poi sui per Castrogiovanni (Enna), “la locomotiva annaspante su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforato”, per infine cadere come a strapiombo su Palermo. Per andare da Palermo a Roma bisognava circumnavigare l’isola. E con le locomotive a carbone. La linea Messina-Palermo è stata completata nel 1895. E elettrificata solo negli anni 1960.
Si poteva andare con un viaggio nello stesso posto nella stessa carrozza da Palermo fino a Messina solo dal 1882, l’anno prima dell’ultimo viaggio del principe nel romanzo. Via Girgenti (Agrigento), Caltanissetta e Catania.
 
L’eredità di Letizia Battaglia, fotografa antimafia per eccellenza, si scopre contrattata da un genero, Rosario Marchese, con un (ex? scarcerato dopo vent’anni) boss mafioso, Franco Bonura. Le tre figlie di Battaglia si contendono l’eredità, e Marchese vuole favorire sua moglie. È più questione di mafia o di antimafia?
 
Marchese è “uno degli imprenditori siciliani più noti nel settore del caffè made in Italy”.  Ma fu “condannato ai tempi del maxi processo istruito da Falcone e Borsellino”. Condannato, o forse solo imputato, di “associazione mafiosa”.
 
“Il silenzio” è un racconto “disperso” di Sciascia, recuperato da Squillacioti nella raccolta postuma “Il fuoco nel mare” – ora sceneggiato e filmato da Andò in sotto il tiolo “L’abbaglio”. Sulla “diversione” operata da Garibaldi per aprirsi la via di Palermo, mandando una colonna nel senso opposto per attrarre le truppe borboniche: è il silenzio della gente che, secondo Sciascia, fa il successo dell’operazione.
“Il silenzio” è anche il titolo di un racconto breve pubblicato su “La fiera letteraria” nel 1959, che diventerà il nocciolo, e il capitolo di apertura, de “Il giorno della civetta”. Silenzio come omertà. Sciascia è implacabile con la Sicilia da subito.
 
Pirandello, Tomasi, Sciascia, Camilleri, “tutti siciliani che hanno parlato di Sicilia e, tramite essa, di un’umanità difficilmente redimibile”. L’antisicilianismo della sicilitudine. Ma più di Autore. Senza misericordia.
O è sempre la lectio parthenopea, “chiagne e fotti”? Ai siciliani piace molto, sono tutti autori bestseller.
 
Sarà per questo che l’isola ha totalmente dimenticato – obliterato – il suo pure fecondissimo secondo Ottocento, Verga, Capuana, e soprattutto De Roberto – che forse non ha mai letto. E con loro nel Novecento Brancati, Musco, Martoglio, Bonaviri, gli stessi Quasimodo, Consolo, Bufalino, quelli dello Jonio, dell’Est, dell’operosità invece dei titoli di nobiltà.

leuzzi@antiit.eu

Israele e il sospetto di razzismo

La testimonianza forse più partecipata, e verace, di Gaza sotto i bombardamenti israeliani, già quindici anni fa.
Reduce da una convulsa attività di volontariato, nell’Est Europa, in Africa, in Medio Oriente, in tutte le mansioni, con corrispondenze per Radio Popolare, “il Manifesto” e altri media, già espulso dall’esercito israeliano più volte, da Gaza, dove rientrava ogni volta dal mare, da Gerusalemme Est, dalla Cisgiordania, l’autore è morto il 14 aprile 2011 a Gaza, a 36 anni, ucciso da un gruppo terrorista islamico. Fautore dei “due Stati” degli accordi di Oslo, ma non per questo inviso a Israele. Il rapporto specialmente agitato di Arrigoni con i governi israeliani negli anni s’innesta sul sospetto, se non un’accusa, di razzismo, di Israele nei confronti dei “palestinesi di Gaza”, cioè poveri. In particolare qui Arrigoni denuncia “la personalissima jihad israeliana contro i luoghi sacri dell’Islam lungo la Striscia”.
Notevole comunque la sottolineatura del fattore religioso (si era al tempo del terrorismo islamico, “religioso”). “Sono venti le moschee finora rase al suolo”. E: “Fortunatamente nessun «razzo» qassam ha ancora sfiorato le pareti di una sinagoga, altrimenti siamo certi che avremmo giustamente avvertito levarsi al cielo grida di sdegno da ogni angolo del mondo. Dio deve pagare il dazio di ricevere preghiere dai palestinesi”.
La denuncia è il filo della cronaca dell’operazione “Piombo fuso”, dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009. Una testimonianza dal vivo, sotto forma di denuncia, che ha avuto all’uscita nel 2009 eco larga – subito tradotta nelle maggiori lingue europee (e in arabo, con una postfazione di Ilan Pappè, lo storico israeliano autore della “Storia della Palestina” e di “La pulizia etnica della Palestina”).   
Arrigoni fu rapito - e ucciso nello stesso giorno - a Gaza il 14 aprile 2011 da un gruppo terrorista del jihadismo salafita, con l’accusa di “diffondere la corruzione” nella Striscia – questa raccolta di testimonianze-corrispondenze fu pubblicata una settimana dopo. Arrigoni era vicino a Hamas, alla cui organizzazione doveva i rientri nella Striscia via mare, ogni volta che l’esercito israeliano lo espelleva.
Vittorio Arrigoni, Gaza.
Restiamo umani, Manifestolibri, p. 127 € 12

domenica 6 aprile 2025

La Cina non vuole litigare

La risposta è fredda da Pechino ai dazi di Trump. Che viene percepito oggi come nella sua prima presidenza: come una manifestazione del declino americano, scomposto nel suo tentativo di reazione. Segno di una rivalità destinata a protrarsi. Ma con gli Stati Uniti disancorati dalla gestione multilaterale degli affari internazionali che aveva assicurato la loro lunga egemonia – e il “decollo”, economico e politico, della Cina.
Una valutazione, nel linguaggio cinese, “benevola”. Di Trump (e Biden) e degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni come dei “vecchi”. Nel senso comune del linguaggio cinese, come di qualcuno anziano, da trattare con sufficienza benché autoritario o scontroso – “vecchia America” come di qualcuno che, per quanto benvoluto, può non essere ragionevole, e anzi irritabile.
La risposta ai dazi è avvenuta senza polemiche, e modulata in vista di una trattativa. Con la quale rabbonire il gigante – ché tale è sempre percepito – americano. Inoltre, l’America è pur sempre in Cina il gestore e garante di quarant’anni di benessere, quelli delle “riforme e apertura” avviate da Deng.
La direzione è chiara: “rispettare e negoziare” con la “vecchia America”. Ma ora, rispetto al 2016, con un deterrente in più: una domanda interna (mercato nazionale) inattaccabile dai dazi. Considerate anche l’autosufficienza tecnologica, oggi rispetto agli anni pre-covid, e l’ampia disponibilità di risorse, sia fisiche che finanziarie.

L’amore, unico rimedio alla violenza

Una presentazione breve dei romanzi della scrittrice coreana premio Nobel - compreso quello cui sta lavorando, “Huin”, bianco, sulla “vita” della sorella maggiore, morta due ore dopo la nascita, e sulla madre. Una dozzina di pagine. Più il discorso breve, una paginetta, tenuto a Stoccolma, al banchetto per il premio con i reali di Svezia.
Centrale, nell’attività della scrittrice, “Atti umani”: la scoperta, tardiva, e la narrazione delle tragedie nella città dove è nata, Gwanju, nel 1980, al tempo della sanguinosa dittatura militare. Con la scoperta che il suo tema è, come già nei quadernetti da bambina, l’amore, “il filo d’oro che unisce i nostri cuori”.
Han Kang, Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, Adelphi, pp. 39 € 6

sabato 5 aprile 2025

Letture - 574

letterautore


Amore\dolore
– “È l’amore a generare la sofferenza, e certe sofferenze testimoniano l’amore?”, si chiede la Nobel coreana Han Kang negli appunti sul suo romanzo “Atti umani”, che intitola “Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di che siamo fatti”, p.26. Colpita dal “dolore che i lettori confessavano di aver provato leggendolo”. È “il desiderio di amare gli esseri umani che ci strazia il cuore, quando quell’amore viene infranto?”.
 
Brahms
- “Brahms è la continuazione di Schubert….”, Riccardo Muti in dialogo con Cacciari in “Le sette parole di Cristo”, 125: “Brahms è di Amburgo, ma rinasce «viennese»…”
 
Camera locanda
- Usava nelle città di forti pellegrinaggi, p.es. Roma, nel Cinque-Seicento, una sorta di B&b odierno - da cui poi l’uso di “locanda” come di pensione da poco prezzo.
 
Cherubini
– Un avatar di Brahms, in epoca (post-)romantica. malgrado la differenza d’epoca? “In Brahms non c’è trascendenza, è pura immanenza”, Riccardo Muti in dialogo con Cacciari in “Le sette parole di Cristo”, p.125: “Nel suo studio alle pareti aveva le immagini di tre musicisti: Bach, Beethoven e Cherubini. Nella biblioteca di Brahms c’erano molte composizioni di Cherubini. Ora, posso capire bene che Beethoven adorasse Cherubini perché sono entrambi «architetti della musica». Cherubini infatti non ci colpisce per la bellezza delle melodie quanto per la costruzione delle sue opere. Ma Brahms? Perché mai doveva amare Cherubini? Brahms è la continuazione di Schubert….
 
Commedia\tragedia
– La commedia disfa il nodo, la tragedia lo rompe o lo taglia”, scrive Arrigo Boito a Verdi mentre prova a ricavare un libretto da Shakespeare, “Le allegre comari di Windsor” – sarà il “Falstaff”. Citando, come maestri di “scioglimento” del nodo drammaturgico, Molière, Beaumarchais e Goldoni.
 
Dutch
- Sta per “olandese”. È tutto “Dutch” nella parlata inglese fino a pochi decenni fa tutto ciò che è male. Graham Greene lo usa - ironicamente - “ ancora in “Loser take all”:“Il coraggio olandese per l’assassinio”.
 
Einaudi
- La casa editrice Calvino così sintetizza nel periodo aureo 1945-1950, in una lettera a “Chichita”, la futura moglie, il 3 febbraio 19634: divisa “tra il mitico Pavese e il vitalistico Vittorini”.
 
Incubo
- Ne fa la sintesi, nei vari linguaggi, Vittorio Lingiardi in “Greeneland, Dreamland”, premesso a G.Greene, “Un Mondo tutto mio”: “Per gli antichi romani era Incubus, spirito maligno «che giace sopra di te» nel sonno; per i greci era Efialtes, demone che addirittura, anche qui etimologicamente, «ti salta sopra». Nei miti nordici la creatura che si siede sul torace di chi dorme portando brutti sogni si chiama Mare, da cui nightmare. E poiché mare, in inglese, significa anche giumenta, ecco che l’incubo, ce lo ricorda Borges, è una cavalla che corre nella notte”.
 
Mishima
- È - si voleva - D’Annunzio. Ne ricorda indirettamente la caratterizzante influenza Edoardo Quarantelli, l’affabile ex libraio di Aseq al Pantheon, chiacchierando con Gnoli sul “Robinson” a proposito di Pierre Pascal, il segretario di Maurras che divenne un “frrancese di Roma” e suo buon cliente-conoscente: “A Parigi Pascal frequentò René Guénon, Edouard Schuré, Paul Valéry e Léon Daudet. Aveva una conoscenza piena della lingua e della cultura giapponese. Aiutò Mishima a trovare il corrispondente in lingua giapponese per certe parole che D’Annunzio aveva usato nel suo ‘Le Martyr de Saint Sébastien” – scritto in francese. 
 
Musica
- È, sarebbe, irriproducibile? È la conclusione di Muti nel suo dialogo con Cacciari sulla natura del suono, “Le ultime parole di Cristo”, p. 127: “La musica dovrebbe rimanere sul pentagramma, per non essere tradita…. È come quando si accarezzano le ali di una farfalla, la farfalla muore”.
 
Russia
- “I Russi sanno pure ridere!”, scrive, ridendo?, Michieletto sul “Foglio”, spiegando la sua messinscena di Prokof’ev, “Matrimonio al convento”, al Theater an der Wien. Un’opera buffa, attorno alla classica serva-padrona, con “il classico contorno di scambi d’identità, innamorati in fuga, frati beoni” - sull’esempio londinese della ballad opera, secondo Settecento, che però costituiva un adattamento dell’opera buffa. “La lingua russa è particolarmente adatta alla commedia”, spiega il regista: “Suoni plastici, enfatici e solenni, che Prokof’ev usa in modo funambolico e fragoroso”.

Scrittore – Un illusionista? Sì, dice Emanuele Trevi di G. Greene su “La Lettura”, lo stile, l’esperienza di mondo, lo scandaglio del cuore umano, ma “forse c’è qualcosa, nella grandezza letteraria, di più artigianale: una capacità innata di orientare la mente del lettore, di governare con destrezza la fiammella (sempre minacciata di estinzione) della sua immaginazione… (Un) talento del far vedere attraverso le parole che è sottilmente imparentato con l’illusionismo e la telepatia”.

Sistema - I giocatori al casinò che in continuo ne elaborano per “sbancare il banco” Graham  Greene, “Loser takes all”, li dice teologi: i giocatori al casinò con i “sistemi” dice “come i teologi, pazientemente tentando di razionalizzare un mistero”.

 
Sogni
- “Una volta che ci si educa a tenere una matita e un quaderno vicino al letto, si sogna per lo meno quattro o cinque volte per notte”, Graham Greene dice dei sogni che infine sta raccogliendo in “Un Mondo tutto mio”. Lo conferma lo psicoanalista James E. Grotstein, in “Chi è il sognatore che sogna il sogno?”: “L’atto del sognare suggerisce con vigore che l’essere umano deve nascere con una propensione alla narrazione di storie, alla ricerca di storie e alla reazione alle storie, propensione che scaturisce dal vertice estetico”
 
Vero\Falso
-Di un racconto non si saprebbe dire. “Lo starno caso del dottor Jekyll e del signor Hide”, che lo rese famoso, e “Olalla”, le due storie Stevenson ebbe in sogno. Ma da sveglio gli sembravano falsi - scrisse “Dottor Jekyll” perché “mi ritrovavo veramente senza un soldo” - e la prima stesura arrivò perfino a bruciarla.  Con “Olalla” non si conciliò. A un amico lo confronta negativamente cn “Markheim”, che si direbbe invece un racconto falso: “Il guaio di Olalla è che mi suona falso, ma non so come… C’è un problema singolare; che cosa rende vero un racconto?  Markheim è vero”, scrisse, “Olalla falso, e non so perché”.
Non per il setting, l’ambientazione? “Markheim” racconta di un ladro che il giorno di Natale uccide il negoziante che sta derubando, e ne rimane sgomento. “Olalla” è un racconto che Stevenson pubblica per Natale, ma costruito, con generi alla moda, non tutti a lui consueti: la Spagna, il romanzo gotico, il vampirismo, il soprannaturale – Stevenson lo aveva scritto sulla base di un sogno.

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