skip to main |
skip to sidebar
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (581)
Giuseppe Leuzzi
Straordinario, ma non tanto?, aneddoto di Josef Nerling, l’ad di
Porsche Italia, a pranzo con Paolo Bricco per “Il Sole 24 Ore”: il matrimonio a
Catania dei suoi genitori nel 1970, Josef, grafico di Amburgo, con Agata,
insegnante di applicazioni tecniche alle medie, “fu una tale rarità da
meritarsi una pagina di giornale (l’autorevole quotidiano di Amburgo “Die
Welt”, n.d.r.). Mia mamma ricevette una telefonata dall’ambasciata tedesca di
Roma, dove erano stupiti per la richiesta di documenti del suo fidanzato e
volevano sincerarsi che fosse tutto a posto. Per loro era una scelta
incomprensibile”.
Prima pagina scandalizzata del “Corriere della sera”, e una pagina avvelenata a
seguire del leghista in titolo del quodiano Stella, per un cartello
stradale pieno di strafalcioni ad Agrigento. La colpa è dell’Anas ma è
addossata alla città, trasformata in “la capitale sgrammaticata della cultura.
Un “servizio” corredato dai soliti sfondoni sulla (contro la) Valle dei templi,
che è invece il sito classico forse meglio conservato al mondo. Opera del
direttore Fontana, che è di Frosinone, su input degli stringer calabro-siculi
che riforniscono il superleghista Stella, col contributo del willing
executioner Buttafuoco (l’opportunismo non costa, non ci sono
Norimberghe, e rende). L’odio-di-sé fino al kamikaze.
Agrigento è “capitale della cultura” 2025. Gli strafalcioni sul cartello sono
talmente grossolani che non possono essere stati fatti che ad arte - non c’è
grafico o digitatore che possa farli per ignoranza. Per provocazione o per
gusto della beffa. Questo naturalmente Stella non può capirlo – questa forma di
umorismo, “zannella” in calabrese. E Buttafuoco? La Lega val bene un inchino –
un catanese presidente a Venezia?
“Capitale della cultura” porta in dote, in un anno, un milione di euro dal governo. Per
progetti di spesa precisi, non modificabili, a rendiconto controllato. Cosa fa
un milione a Milano, o a una città lombarda, o veneta, concorrente di
Agrigento?
Quanti di quei “piccioli” pubblici che schifa per Agrigento non prende
Buttafuoco per fare l’onorifico presidente della Fondazione della Biennale (€
145 mila)? O se, stando a Venezia, legge il locale gazzettino: che ne dice dei 50 milioni per una stazione sciistica a Valbondione, nella bergamasca, a 1.000 metri, dove non nevica più da mezzo secolo - 50 milioni, non uno, di piccioli pubblici? L’odio-di-sé è rispettabile – è una nevrosi.
Però.
Ritorno al paese
Si chiama mixité, prossimità o mescolanza sociale, la
nuovissima frontiera dell’urbanistica. La creazione di comunità interconnesse,
seppure attive in settori diversificati e non comunicabili, ma in qualche modo
interdipendenti. Come nel vecchio quartiere, o nella comunità di paese o
villaggio – comunità per nascita. Ad essa si accompagna la reviviscenza del
commercio di prossimità, il vecchio fornitore vicino di casa, dopo decenni fi
grandi spazi e centri commerciali. E della “città di quindici minuti – della
vita senza pendolarismo.
Mixité, termine francese di una tendenza elaborata in Giappone vent’anni
fa, dall’architetto Riken Yamamoto, è così definita dalla Treccani: una
“strategia progettuale” per il passaggio “da un modello industriale a uno
basato sul terziario e sull’informazione”. La rivoluzione industriale ha
comportato un’urbanistica basata sulla “zonizzazione” (dall’inglese zoning),
cioè dalla compartimentazione delle aree urbane per la attività produttive ivi
svolte. Con la “mixité” si crea una correlazione “tra vita pubblica, sociale e
lavorativa, e quella privata”.
Un ritorno al paese, dopo un secolo, o due, di urbanizzazione spinta? Il nuovo
non può essere vecchio – e poi l’urbanistica ama le teorizzazioni lasche. Ma il
senso di comunità ritorna - seppure senza radici, al contrario della vita di
paese. Che, addentrandosi nella frigidità dell’urbanistica, può
riacquistare un futuro – non è più condannato all’urbanizzazione.
Un freno? Un vantaggio? L’“Economist” oggi, al termine della plurisecolare corsa
anglosassone all’urbanizzazione anonima (alla moltiplicazione della rendita
urbana, il motore dell’accumulazione, del capitale, della ricchezza monetaria) lo
dice un “ritorno al futuro”. Chiedendosi perché “i sud-europei saranno presto
le popolazioni con la più lunga aspettativa di vita nel mondo”, si risponde che
“conta la dieta, ma anche la struttura urbana e la vita sociale”.
Il
radicamento è comunque in Italia tuttora, malgrado le tante ondate migratorie,
un fatto. Al modo come lo
sente ancora di recente in Francia, in Normandia, nel 2000, la scrittrice
premio Nobel Annie
Ernaux riandando alla sua giovinezza ne “La vergogna” - che ha scritto su
e sotto l’influsso del paese
di origine, Yvetot: “Nel ’52 non posso pensarmi al di fuori di Y. Delle sue
strade, i suoi negozi, i
suoi abitanti, per i quale io sono Annie D. o «la piccola D.» (Ernaux è uno
pseudonimo, il nome è
Duchesne, n.d.r.). Non c’è per me altro mondo. Tutte le considerazioni
contengono Y., è in rapporto
alle sue scuole, alla sua chiesa, ai suoi negozi di novità, alle sue feste, che
ci si situa e che si
desidera”.
La vita
di paese, sulla quale l’Italia resta ancora malgrado tutto conformata, può non
restare destinata
all’estinzione. È un dato di fatto per la gran parte degli italiani, la cui
urbanizzazione è recente,
postbellica, e non pacifica, specie per la grande massa degli emigrati interni
– e per le comunità
di emigrazione, desertificate. Lo sradicamento non è senza danni,
per tutti i soggetti coinvolti.
Il radicamento rimane ancora un valore, più che una tara o un peso.
Giufà o lo humour perduto del Sud
Il “filosofo Giufà, così stupido da raggiungere livelli eccelsi di
intelligenza delle umane cose”, indigna il linguista, e filosofo, Lo Piparo
agli ottant’anni (“Sicilia isola continentale. Psicologia di una identità”).
Che indispettito lo erige a testimone della “identità siciliana” – “una
allucinazione o, con le parole usate da Goethe per Villa Palagonia (a Bagheria,
in “Viaggio in Italia”, n.d.r.), «un niente che pretende di essere qualcosa»”.
Povero Giufà, oberato da tante colpe! O forse solo di una - per Lo Piparo:
vedere cose che non ci sono, e non vedere le cose che invece ci sono. Il Giufà
reale è un altro - anche se con lo
stesso nome poi adottato in siculo-italiano, Ğuhä: è forse la cosa araba che
più e meglio ha attecchito in Sicilia – più p.es. della poligamia (addossarsi
due mogli, tre, quattro?). E anche in Turchia, dove ha cambiato nome, si chiama
Karaguz. Più vaporoso e ingegnoso che stupido o folle.
L’arabista Francesca Maria Corrao ne raccoglieva gli aneddoti, da varie
tradizioni mediterranee, a inizio millennio, “Le storie di Giufà”. Una raccolta di tre raccolte in realtà, del Giufà siciliano, di quello arabo e di quello turco (la curiosa scoperta consentendo che il Giufà preteso filosofo che indigna Lo Piparo, quello della luna nel pozzo, è arabo e non siciliano...). La grecista
Jolanda Insana, poetessa, ne tracciava la genealogia dieci anni fa, poco prima
di morire, sulla rivista “Zapruder”. Come quello “che combatte una
piccola, grande guerra contro la fame, i soprusi e l’ingiustizia, e che per
sopravvivere da truffato si fa truffatore, da inseguito inseguitore, da
affamato affamatore, da ingannato ingannatore”. E quello che veniva
raccontato ai bambini in Calabria e in Sicilia, che “è sì lo scemo del
villaggio, ma è anche sofistico giocatore di parole e senso, ferocemente
attaccato alla lettere dei nomi e delle cose, benché si muova in un orizzonte limitato
e chiuso, in un ambito ristretto di egoismi e bisogni primari, ma anche di
resistenza all’oltraggio e all’ingiustizia, sempre o quasi sempre contraddetta
dalla costante ricerca dell’interesse e del tornaconto personale”. Un po’ poeta
anche, anche lui: “Epperò con qualche ventata di follia, di pura fantasia, di
pura agnizione del creato, del mistero e della bellezza” – uno che prova a
liberare la luna caduta nel pozzo (l’epitome della stoltezza per Lo
Piparo), e si rifiuta, animalista ante litteram, di prestare
l’asino al vicino violento.
Un personaggio quasi millenario, emerso nell’Anatolia del Duecento (in realtà
prima, per molte tracce, n.d.r.), dipoi “figliando e moltiplicandosi per ogni
dove con fratelli e fratelli Bertoldi bertoldini cacasenno”. Con vari nomi:
Nasreddin Hoca nell’originale sufi, Guha in Egitto, Djoha nell’ebraismo
sefardita, Gimpel in quello askenazita (quello yiddisch dei racconti di
Singer(1)), Djuha nel Maghreb, Giucà a Trapani, e in Albania, Giucca in Toscana
- e anche Karayozi in greco, Nasreddin Hoca in Turchia, nei circoli sufi (con l’analogo Karaguz, una sorta di Pulcinella del teatro d’ombre - Karayozi nella Grecia ottomana), Giaffah in Sardegna, Gihane a
Malta.
Insana, vigile poetessa di Messina trapiantata a Roma, lo rievocava in uno coi
ricordi della sua propria infanzia. Con nostalgia oltre che con acume. Ma lo
sapeva anche sempre vivo, e uno che “combatte insieme a noi” - come? “buttandosi” in
politica. “Se Giufà che c’era oggi non c’è più, c’è oggi
Giufà che non c’era?”, si domandava, e si rispondeva: “C’è, c’è, e gli
esemplari sono tanti. Prevedibile
e non più paradossale, deficiente e arrogante è sempre miracolato ma le sue
storie le vantaggio, e per non lasciare la cadrega distrugge e stravolge il senso e
la verità delle parole con bagliori accecanti di vomitevole furbizia, con
battutine sceme”. Chi può dire di non incontrarne?
A monte dell’irritazione-insinuazione di Insana c’è la sparizione del Sud
irridente. Ironico e scherzoso. Dello humour, senza il quale il Sud non
è. Il
Sud irridente è sparito?
Quelle di Giufà sono storie per ridere, di
stoltezza o furbizia, e sempre mansuete, comprese quelle cruente. Per
l’imprevedibilità mansueta dell’asino - la raccolta di Corrao originariamente s’intitolava
anche “dell’asino”: lo scarto della fantasia con l’irresponsabilità del
folle-giovane. Il personaggio, senza età, è presumibilmente giovane, anzi adolescente
– sventato come un adolescente (è scomparsa anche l’adolescenza). E sono storie
del Sud, giocate sul paradosso fine a se stesso: l’uomo del Sud è Giufà,
irridente e perduto. Un personaggio e un linguaggio comuni nel Mediterraneo:
Giufà è Ğuhâ in Nord Africa - mutato in Karaguz solo in Turchia (e in Karayozi nella
Gracia già ottomana). Di storie scomparse dunque, come tutto il folklore, con la
scomparsa del Sud.
(1)Isaac Bashevis Singer, ebreo polacco da quasi vent’anni immigrato negli
Usa, esordì nel1953 a 51 anni in inglese (tradotto da Saul Bellow), su una
grande rivista americana, la “Partisan Review”, col famoso incipit: “Sono
Gimpel l’idiota. Non che io mi senta un idiota. Anzi. Ma è così che mi
chiama la gente”.
Cronache della differenza: Milano
Piersilvio Berlusconi ringrazia i dipendenti pr il
“grande, enorme, mondiale” successo dell’azienda. “Un successo dovuto a tutti
voi” eccetera. E poi fa loro un regalo. Non duemila euro in busta paga, nemmeno
mille: un acuto dei Volo. Fosse successo a Catanzaro?
Però, sarà la taccagneria fa fare la ricchezza di Milano?
Questa storia dell’Inter è curiosa. Piena di mafia, anche se milanese, con un
paio di assassinii. E niente. Per niente al confronto, biglietti venduti a condizione
di favore agli ultras, la Procura di Torno ha processato con
clamori la squadra, e il procuratore sportivo non stava nella pelle
per sanzionare a sua volta il club torinese. A Milano, dove gli
assassinii, gli arsenali (bombe, armi da guerra) e il racket (varie forme di
racket) attorno all’Inter sono fatti e non chiacchiere, niente: l’avocato Chiné
(la “giustizia sportiva”) muto, la Procura di Milano quasi. Omertà a Milano?
È anche vero che procuratori e giudici sono meridionali: Chiné e Gravina (calcio)
come De Pasquale, Greco et al. Ma ce ne sono anche di
settentrionali e lombardi, Davigo, Storari et al. Una “vera”
Italia unita, nel nome di Milano, anche nel malaffare.
Col papa argentino Milano non ha più il cardinale. Aveva anche una sua chiesa,
e un suo rito, l’ambrosiano, e niente. Francesco ne ha nominati in undici anni
140 o 150 (oggi sono 253, una cifra enorme), ma niente Milano. Il giorno di
sant’Ambrogio ne ha fatti 21 nuovi, e sempre niente Milano.
Papa Francesco ha fatto cardinali il suo predicatore, il vescovo di Città della
Pieve, quello di Asolo, quello di Colle Val d’Elsa e Montalcino, quello
dell’Aquila, e tanti altri, anche senza titolo, ma niente Milano. Che è la
città forse più religiosa – comunque vicina alla chiesa. La sospetterà di
demonismo?
Torino inventava e Milano rubava: è stata tutta la storia economica dei (primi)
150 anni dell’Italia – con l’eccezione del cinema, spostato da Mussolini da
Torino a Roma, e dell’automobile, rimasta a Torino. Ora si prende il
tennis, le Atp Finals – dopo l’Olimpiade invernale. Appena una cosa rende, la
artiglia.
Marina Corradi celebra sommessa sul “Foglio” “noi quando andiamo a Roma”, il
regno della luce - noi milanesi: “Ci si alza presto. È ancora buio. La
domenica, nessuno”. Al Gianicolo alle 7 e 30, con l’Acqua Paola che scroscia
abbondante e cristallina, eccetera. Fino a sera: “Torniamo al Nord infine, e il
cielo spento sul Po accende già la nostalgia”.
La fortuna di Milano è ammirare gli altri, prendere da chi e cosa è il meglio.
Perché allora leghista? Milano ha un nemico “interno”?
La città è ossessionata dalle baby gang, figli
d’immigrati per lo più – anche i Carabinieri lo sono, ma il piccolo-medio
cittadino di più. Che spadroneggiano per le strade, minacciano, spaccano. Pur
non essendo una città violenta. Non da ora, da sempre. Quando a Londra
imperversavano gli hooligans, anni 1960, Milano non se ne privò.
Anzi, è da un paio di secoli, almeno, che non se ne priva, se la “compagnia
della Teppa”, da cui teppismo, che agiva attorno al Castello, data del
1917-1821. È l’aria? È un locale rito di passaggio?
leuzzi@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento