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mercoledì 8 gennaio 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (581)

Giuseppe Leuzzi

Straordinario, ma non tanto?, aneddoto di Josef Nerling, l’ad di Porsche Italia, a pranzo con Paolo Bricco per “Il Sole 24 Ore”: il matrimonio a Catania dei suoi genitori nel 1970, Josef, grafico di Amburgo, con Agata, insegnante di applicazioni tecniche alle medie, “fu una tale rarità da meritarsi una pagina di giornale (l’autorevole quotidiano di Amburgo “Die Welt”, n.d.r.). Mia mamma ricevette una telefonata dall’ambasciata tedesca di Roma, dove erano stupiti per la richiesta di documenti del suo fidanzato e volevano sincerarsi che fosse tutto a posto. Per loro era una scelta incomprensibile”.
 
Prima pagina scandalizzata del “Corriere della sera”, e una pagina avvelenata a seguire del leghista in titolo del quodiano Stella, per un cartello stradale pieno di strafalcioni ad Agrigento. La colpa è dell’Anas ma è addossata alla città, trasformata in “la capitale sgrammaticata della cultura. Un “servizio” corredato dai soliti sfondoni sulla (contro la) Valle dei templi, che è invece il sito classico forse meglio conservato al mondo. Opera del direttore Fontana, che è di Frosinone, su input degli stringer calabro-siculi che riforniscono il superleghista Stella, col contributo del willing executioner Buttafuoco (l’opportunismo non costa, non ci sono Norimberghe, e rende)L’odio-di-sé fino al kamikaze.
 
Agrigento è “capitale della cultura” 2025. Gli strafalcioni sul cartello sono talmente grossolani che non possono essere stati fatti che ad arte - non c’è grafico o digitatore che possa farli per ignoranza. Per provocazione o per gusto della beffa. Questo naturalmente Stella non può capirlo – questa forma di umorismo, “zannella” in calabrese. E Buttafuoco? La Lega val bene un inchino – un catanese presidente a Venezia?
 
“Capitale della cultura” porta in dote, in un anno, un milione di euro dal governo. Per progetti di spesa precisi, non modificabili, a rendiconto controllato. Cosa fa un milione a Milano, o a una città lombarda, o veneta, concorrente di Agrigento?
Quanti di quei “piccioli” pubblici che schifa per Agrigento non prende Buttafuoco per fare l’onorifico presidente della Fondazione della Biennale (€ 145 mila)? O se, stando a Venezia, legge il locale gazzettino: che ne dice dei 50 milioni per una  stazione sciistica a Valbondione, nella bergamasca, a 1.000 metri, dove non nevica più da mezzo secolo - 50 milioni, non uno, di piccioli pubblici? L’odio-di-sé è rispettabile – è una nevrosi. Però.  
 
Ritorno al paese
Si chiama mixité, prossimità o mescolanza sociale, la nuovissima frontiera dell’urbanistica. La creazione di comunità interconnesse, seppure attive in settori diversificati e non comunicabili, ma in qualche modo interdipendenti. Come nel vecchio quartiere, o nella comunità di paese o villaggio – comunità per nascita. Ad essa si accompagna la reviviscenza del commercio di prossimità, il vecchio fornitore vicino di casa, dopo decenni fi grandi spazi e centri commerciali. E della “città di quindici minuti – della vita senza pendolarismo.
Mixité, termine francese di una tendenza elaborata in Giappone vent’anni fa, dall’architetto Riken Yamamoto, è così definita dalla Treccani: una “strategia progettuale” per il passaggio “da un modello industriale a uno basato sul terziario e sull’informazione”. La rivoluzione industriale ha comportato un’urbanistica basata sulla “zonizzazione” (dall’inglese zoning), cioè dalla compartimentazione delle aree urbane per la attività produttive ivi svolte. Con la “mixité” si crea una correlazione “tra vita pubblica, sociale e lavorativa, e quella privata”.
Un ritorno al paese, dopo un secolo, o due, di urbanizzazione spinta? Il nuovo non può essere vecchio – e poi l’urbanistica ama le teorizzazioni lasche. Ma il senso di comunità ritorna - seppure senza radici, al contrario della vita di paeseChe, addentrandosi nella frigidità dell’urbanistica, può riacquistare un futuro – non è più condannato all’urbanizzazione.
Un freno? Un vantaggio? L’“Economist” oggi, al termine della plurisecolare corsa anglosassone all’urbanizzazione anonima (alla moltiplicazione della rendita urbana, il motore dell’accumulazione, del capitale, della ricchezza monetaria) lo dice un “ritorno al futuro”. Chiedendosi perché “i sud-europei saranno presto le popolazioni con la più lunga aspettativa di vita nel mondo”, si risponde che “conta la dieta, ma anche la struttura urbana e la vita sociale”.
Il radicamento è comunque in Italia tuttora, malgrado le tante ondate migratorie, un fatto. Al modo come lo sente ancora di recente in Francia, in Normandia, nel 2000, la scrittrice premio Nobel Annie Ernaux riandando alla sua giovinezza ne “La vergogna” - che ha scritto su e sotto l’influsso del paese di origine, Yvetot: “Nel ’52 non posso pensarmi al di fuori di Y. Delle sue strade, i suoi negozi, i suoi abitanti, per i quale io sono Annie D. o «la piccola D.» (Ernaux è uno pseudonimo, il nome è Duchesne, n.d.r.). Non c’è per me altro mondo. Tutte le considerazioni contengono Y., è in rapporto alle sue scuole, alla sua chiesa, ai suoi negozi di novità, alle sue feste, che ci si situa e che si desidera”.
La vita di paese, sulla quale l’Italia resta ancora malgrado tutto conformata, può non restare destinata all’estinzione. È un dato di fatto per la gran parte degli italiani, la cui urbanizzazione è recente, postbellica, e non pacifica, specie per la grande massa degli emigrati interni – e per le comunità di emigrazione, desertificateLo sradicamento non è senza danni, per tutti i soggetti coinvolti. Il radicamento rimane ancora un valore, più che una tara o un peso.  
 
Giufà o lo humour perduto del Sud
Il “filosofo Giufà, così stupido da raggiungere livelli eccelsi di intelligenza delle umane cose”, indigna il linguista, e filosofo, Lo Piparo agli ottant’anni (“Sicilia isola continentale. Psicologia di una identità”). Che indispettito lo erige a testimone della “identità siciliana” – “una allucinazione o, con le parole usate da Goethe per Villa Palagonia (a Bagheria, in “Viaggio in Italia”, n.d.r.), «un niente che pretende di essere qualcosa»”.
Povero Giufà, oberato da tante colpe! O forse solo di una - per Lo Piparo: vedere cose che non ci sono, e non vedere le cose che invece ci sono. Il Giufà reale è un altro  - anche se con lo stesso nome poi adottato in siculo-italiano, Ğuhä: è forse la cosa araba che più e meglio ha attecchito in Sicilia – più p.es. della poligamia (addossarsi due mogli, tre, quattro?). E anche in Turchia, dove ha cambiato nome, si chiama Karaguz. Più vaporoso e ingegnoso che stupido o folle.
L’arabista Francesca Maria Corrao ne raccoglieva gli aneddoti, da varie tradizioni mediterranee, a inizio millennio, “Le storie di Giufà”. Una raccolta di tre raccolte in realtà, del Giufà siciliano, di quello arabo e di quello turco (la curiosa scoperta consentendo che il Giufà preteso filosofo che indigna Lo Piparo, quello della luna nel pozzo, è arabo e non siciliano...). La grecista Jolanda Insana, poetessa, ne tracciava la genealogia dieci anni fa, poco prima di morire, sulla rivista “Zapruder”. Come quello “che combatte una piccola, grande guerra contro la fame, i soprusi e l’ingiustizia, e che per sopravvivere da truffato si fa truffatore, da inseguito inseguitore, da affamato affamatore, da ingannato ingannatore”.  E quello che veniva raccontato ai bambini in Calabria e in Sicilia, che “è sì lo scemo del villaggio, ma è anche sofistico giocatore di parole e senso, ferocemente attaccato alla lettere dei nomi e delle cose, benché si muova in un orizzonte limitato e chiuso, in un ambito ristretto di egoismi e bisogni primari, ma anche di resistenza all’oltraggio e all’ingiustizia, sempre o quasi sempre contraddetta dalla costante ricerca dell’interesse e del tornaconto personale”. Un po’ poeta anche, anche lui: “Epperò con qualche ventata di follia, di pura fantasia, di pura agnizione del creato, del mistero e della bellezza” – uno che prova a liberare la luna caduta nel pozzo (l’epitome della stoltezza per Lo Piparo), e si rifiuta, animalista ante litteram, di prestare l’asino al vicino violento.
Un personaggio quasi millenario, emerso nell’Anatolia del Duecento (in realtà prima, per molte tracce, n.d.r.), dipoi “figliando e moltiplicandosi per ogni dove con fratelli e fratelli Bertoldi bertoldini cacasenno”. Con vari nomi: Nasreddin Hoca nell’originale sufi, Guha in Egitto, Djoha nell’ebraismo sefardita, Gimpel in quello askenazita (quello yiddisch dei racconti di Singer(1)), Djuha nel Maghreb, Giucà a Trapani, e in Albania, Giucca in Toscana - e anche Karayozi in greco, Nasreddin Hoca in Turchia, nei circoli sufi (con l
analogo Karaguz, una sorta di Pulcinella del teatro dombre - Karayozi nella Grecia ottomana), Giaffah in Sardegna, Gihane a Malta.

Insana, vigile poetessa di Messina trapiantata a Roma, lo rievocava in uno coi ricordi della sua propria infanzia. Con nostalgia oltre che con acume. Ma lo sapeva anche sempre vivo, e uno che “combatte insieme a noi” - come? “buttandosi” in politica. “Se Giufà che c’era oggi non c’è più, c’è oggi Giufà che non c’era?”, si domandava, e si rispondeva: “C’è, c’è, e gli esemplari sono tanti. Prevedibile e non più paradossale, deficiente e arrogante è sempre miracolato ma le sue storie le vantaggio, e per non lasciare la cadrega distrugge e stravolge il senso e la verità delle parole con bagliori accecanti di vomitevole furbizia, con battutine sceme”. Chi può dire di non incontrarne?
A monte dell’irritazione-insinuazione di Insana c’è la sparizione del Sud irridente. Ironico e scherzoso. Dello humour, senza il quale il Sud non è. Il Sud irridente è sparito?
Quelle di Giufà sono storie per ridere, di stoltezza o furbizia, e sempre mansuete, comprese quelle cruente. Per l’imprevedibilità mansueta dell’asino - la raccolta di Corrao originariamente s’intitolava anche “dell’asino”: lo scarto della fantasia con l’irresponsabilità del folle-giovane. Il personaggio, senza età, è presumibilmente giovane, anzi adolescente – sventato come un adolescente (è scomparsa anche l’adolescenza). E sono storie del Sud, giocate sul paradosso fine a se stesso: l’uomo del Sud è Giufà, irridente e perduto. Un personaggio e un linguaggio comuni nel Mediterraneo: Giufà è Ğuhâ in Nord Africa - mutato in Karaguz solo in Turchia (e in Karayozi nella Gracia già ottomana). Di storie scomparse dunque, come tutto il folklore, con la scomparsa del Sud. 
(1)Isaac Bashevis Singer, ebreo polacco da quasi vent’anni immigrato negli Usa, esordì nel1953 a 51 anni in inglese (tradotto da Saul Bellow), su una grande rivista americana, la “Partisan Review”, col famoso incipit: “Sono Gimpel l’idiota. Non che io mi senta un idiota. Anzi. Ma è così che mi chiama la gente”.
 
Cronache della differenza: Milano
Piersilvio Berlusconi ringrazia i dipendenti pr il “grande, enorme, mondiale” successo dell’azienda. “Un successo dovuto a tutti voi” eccetera. E poi fa loro un regalo. Non duemila euro in busta paga, nemmeno mille: un acuto dei Volo. Fosse successo a Catanzaro?
Però, sarà la taccagneria fa fare la ricchezza di Milano?
 
Questa storia dell’Inter è curiosa. Piena di mafia, anche se milanese, con un paio di assassinii. E niente. Per niente al confronto, biglietti venduti a condizione di favore agli ultras, la Procura di Torno ha processato con clamori la squadra, e il procuratore sportivo non stava nella pelle per  sanzionare a sua volta il club torinese. A Milano, dove gli assassinii, gli arsenali (bombe, armi da guerra) e il racket (varie forme di racket) attorno all’Inter sono fatti e non chiacchiere, niente: l’avocato Chiné (la “giustizia sportiva”) muto, la Procura di Milano quasi. Omertà a Milano?
 
È anche vero che procuratori e giudici sono meridionali: Chiné e Gravina (calcio) come De Pasquale, Greco et al. Ma ce ne sono anche di settentrionali e lombardi, Davigo, Storari et al. Una “vera” Italia unita, nel nome di Milano, anche nel malaffare.
 
Col papa argentino Milano non ha più il cardinale. Aveva anche una sua chiesa, e un suo rito, l’ambrosiano, e niente. Francesco ne ha nominati in undici anni 140 o 150 (oggi sono 253, una cifra enorme), ma niente Milano. Il giorno di sant’Ambrogio ne ha fatti 21 nuovi, e sempre niente Milano.
 
Papa Francesco ha fatto cardinali il suo predicatore, il vescovo di Città della Pieve, quello di Asolo, quello di Colle Val d’Elsa e Montalcino, quello dell’Aquila, e tanti altri, anche senza titolo, ma niente Milano. Che è la città forse più religiosa – comunque vicina alla chiesa. La sospetterà di demonismo?
 
Torino inventava e Milano rubava: è stata tutta la storia economica dei (primi) 150 anni dell’Italia – con l’eccezione del cinema, spostato da Mussolini da Torino a Roma, e dell’automobile, rimasta a Torino.  Ora si prende il tennis, le Atp Finals – dopo l’Olimpiade invernale. Appena una cosa rende, la artiglia.
 
Marina Corradi celebra sommessa sul “Foglio” “noi quando andiamo a Roma”, il regno della luce - noi milanesi: “Ci si alza presto. È ancora buio. La domenica, nessuno”. Al Gianicolo alle 7 e 30, con l’Acqua Paola che scroscia abbondante e cristallina, eccetera. Fino a sera: “Torniamo al Nord infine, e il cielo spento sul Po accende già la nostalgia”.
La fortuna di Milano è ammirare gli altri, prendere da chi e cosa è il meglio. Perché allora leghista?  Milano ha un nemico “interno”?
 
La città è ossessionata dalle baby gang, figli d’immigrati per lo più – anche i Carabinieri lo sono, ma il piccolo-medio cittadino di più. Che spadroneggiano per le strade, minacciano, spaccano. Pur non essendo una città violenta. Non da ora, da sempre. Quando a Londra imperversavano gli hooligans, anni 1960, Milano non se ne privò. Anzi, è da un paio di secoli, almeno, che non se ne priva, se la “compagnia della Teppa”, da cui teppismo, che agiva attorno al Castello, data del 1917-1821. È l’aria? È un locale rito di passaggio?

leuzzi@antiit.eu

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