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La scoperta di Craxi
Un’agiografia. Da miscredente – antipatizzante:
“Sono uno dei tanti italiani a cui Craxi, quando era Craxi, non piaceva” è l’attacco.
Ma subito poi, con Cazzullo giovane cronista alla “Stampa”, con i giornalisti in genere, Craxi si ricorda “molto gentile” - il gerarca in stivaloni di Forattini, il “cinghialone”
di Feltri (Vittorio).
Un volume grande, di grafica curata, lussuosa,
cartonato bianco immacolato, ripieno di foto di Craxi, anche magro e con i capelli,
sorridente e attento per lo più e non spavaldo, già dalla copertina, e una bio-carrellata
da cronista, di semplice dati ed eventi. Ma curiosamente attendibile, a ogni
riscontro. E problematica, articolata com’è sulla conclusione che poi
confluisce nel titolo, polemica benché piana: di questi uomini non ce n’è più,
l’Italia non li nutre e non se li merita – o non sarà l’Italia che scrive?
Un monumento editoriale - un tributo,
affettuoso, generoso. Apprezzabile anche perché è il solo in circolazione. Il libraio,
che attorno al “Cazzullo che riempie le librerie” apre uno scaffale Craxi, non
riesce a mettere assieme più di quattro titoli oltre questo - di cui solo due di qualche
consistenza, Massimo Franco e Fabio Martini (“Controvento. La vera storia di
Bettino Craxi”), di cui il primo, “Il fantasma di Hammamet”, di trent’anni fa, è
l’ennesima damnatio memoriae appena camuffata, il settarismo non è
morto. Ma il richiamo maggiore è probabilmente che la ricostruzione di Cazzullo
su cui il volume si regge è piena di verità. Una rarità in Italia, dove la
storia politica, non solo della Repubblica ma anche del fascismo, e anzi del Risorgimento,
è impossibile – politica è sinonimo di faziosità.
“I racconti e le immagini” è il sottotitolo.
Il libro si avvale di una ricchissima documentazione fotografica, di Craxi giovane
agitprop socialista scaricato nelle periferie, del dignitosissimo padre, una
sorta di nobiluomo siculo in missione a Milano, di cui è stato vice-prefetto
alla Liberazione, dei familiari, e non sfigura nemmeno di fronte al santino Berlinguer.
Poco è preso da Craxi al governo, la parte comunque che la damnatio non è
riuscita a elidere: l’inflazione ridotta dal 25 al 3 per cento, il referendum
contro la scala mobile, l’Italia quinta economia mondiale, prima della Gran
Bretagna, una politica atlantica ma anche socialista, contro gli avventurismi
americani - in piazza contro la guerra in Vietnam, in piazza e con Nenni contro i colonnelli in Grecia, a Santiago del Cile all'abbattimento di Allende, e poi a Sigonella, e contro l’assassinio di Gheddafi.
Un racconto lusinghiero, per un approccio
non più settario. Partendo dalla fine, ingloriosa, in Tunisia – non gli fu
consentito di farsi operare in Italia. L’inizio della fine Cazzullo pone nel
passo falso di Craxi al referendum del 9 giugno 1991 sulla preferenza unica.
Lui invita a non votare, Dc e Pci invece mobilitano gli elettori, e quasi il 100
per cento, fra astenuti e favorevoli, gli vota contro. Cazzullo lo rimprovera: “Alla fine di giugno,
Craxi celebra il congresso a Bari. Fa molto caldo, la camicia madida di sudore
lascia intravedere la canotta, e non è un bell’intravedere”.
Anche il giudizio politico comincia a prendere
forma, dal vero invece che dalla narrazione tuttora granitica, post-comunista. Cazzullo non prende
posizione, malgrado il titolo. Il suo punto di vista argomenta con quelli degli
altri, di chi ha preso parte ai vari eventi, per come li ricorda o ricostruisce,
o preferisce presentarli. Ma con evidente giudizio critico, nel taglio e nel montaggio
degli stessi ricordi. Per una volta, merito non minore e forse anticipatore, ridimensionando
il ruolo e il potere del Pci - e giustamente, da troppo tempo ruota di scorta
della Dc, e non della migliore (uno guarda all’eredità romana, al Pd della
capitale, e trasecola, tale è l’ammasso, non sbrogliabile, di arraffoni).
Il resto, evidentemente, si ridimensiona.
Non solo il non nominato Francesco Saverio Borrelli, andreottiano terribilista
a Milano. Ma anche un Michele Serra, che si acquisì l’agognata ascesa da
moralista triste a “la Repubblica” con la prima pagina del suo “Cuore”, “un
gigantesco fotomontaggio di Craxi dietro le sbarre con il titolo Pensiero stupendo,
e un fotomontaggio più piccolo del figlio, sempre in carcere, con il titolo Pensierino
stupendino”.
A conclusione Cazzullo si concede una considerazione: l’Italia è perduta, si è perduta. Non vota, non fa figli, e lavora anche poco. Il che è vero ma non è la fine: l’Italia purtroppo non è stata e non sa essere altro. Con un dubbio, però, riguardante i Cazzullo, i suoi giornalisti (che sgomentano i corrispondenti esteri), anche quelli colti e bene intenzionati: l’Italia è peggio o meglio della sua stampa, della sua immagine?
Craxi l’antipatizzante, per essere
socialista soprattutto, quindi inviso a nove italiani su dieci - e soprattutto
ai direttori e padroni di giornali, a cui il buongoverno è inviso, “se non c’è crisi
non si vende” - sapeva di politica, sapeva di libertà e buongoverno. Un solo
errore fece, Cazzullo ci rimediti, e fu di attenersi all’ordine delle cose, ad
Arnaldo Forlani segretario della Dc invece che ad Andreotti, nella fatale
elezione presidenziale del 1992, e l’ha pagata caro, carissimo. L’inizio del
suo racconto, del resto, è sintomatico: il 23 ottobre 1999 “la quinta sezione
penale del tribunale di Palermo, dopo una camera di consiglio durata undici
giorni, assolse Andreotti Giulio dall’accusa infamante di aver favorito la mafia”,
e come no, quando mai, il 24 Craxi fu ricoverato all’ospedale di Tunisi per morirvi.
L’ultima beffa del sardonico Giulio – con gargantuesca camera di consiglio a
Roma, e a Milano un Pulcinella tenuto fermo sul no.
Con una “cronologia essenziale”, ma ragionata.
E con un ricordo di Gianni Pennacchi.
Aldo Cazzullo, Craxi, l’ultimo vero
politico, Rizzoli, pp. 279, ril., €25
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