Giuseppe Leuzzi
Postpartita
funereo alla Domenica Sportiva, dopo Juventus-Inter. I commentatori Adani e
Rimedio s’ingolfano in astruserie che nessuno capisce, ma con aria cupa. La
conduttrice tace, benché a rischio audience – telecomando. Tacciono perfino Panatta e Pecci,
solitamente pronti di spirito, specie sui gerghi “tecnici”. Sono tenuti
all’incomprensibile epicedio? Ma né il presidente dell’Inter, Marotta, né il
tecnico Inzaghi sono di quelli intromettenti, non nelle cose dei giornalisti,
non se n’è mai letto. Sarà l’aria di Milano - la Domenica Sportiva si fa a
Milano – che non può perdere.
“il Venerdì di Repubblica”
celebra la maeustra Marianna Leonetti che
a Carfizzi (Crotone) insegna ai bambini a scrivere l’arbëreshë che parlano
quotidianamente. Senza mai ricordare che Carfizzi è il paese di uno scrittore,
Carmine Abate, forse il più quotato dei
narratori di realtà locali. Il più illustre comunque dei “figli di
carfizzoti tornati dalla Germania”, come dice il reportage.
L’odio-di-sé forse è solo
trascuratezza.
“I
bergamaschi, cui mi onoro di appartenere, erano 161 su circa mille. Sarebbero
stati molti di più se i parroci di paese non li avessero minacciati a fucilate
per non farli partire”, Donato Losa di Milano scrive alla posta del “Corriere
della sera”. Spiegando: “Nessuno dei mille era di dubbia moralità, nessun
bergamasco era un ex carcerato. Erano persone con un sogno da realizzare e in
cui credere”. Ottima trama (un po’ vieta, ma nella trascuratezza di oggi di
grande impatto) per l’ennesimo filone garibaldino – meglio dei lazzaroni eroi per
caso. In chiave bergamasca poi – ma con o senza il contrappunto di Feltri-Crozza?
L’unificazione che non fu di
Cavour
Vale
più di molte analisi storiche il documento che “Zenone di Elea” ha recuperato
negli archivi e messo in rete qualche anno fa, il “Sunto dell’amministrazione
delle Province Napolitane” di Costantino Nigra (di cui questo sito ha dato
dettagliata lettura), plenipotenziario di Cavour a Napoli tra gennaio e maggio
del 1861, dopo i primi disastrosi quattro mesi di luogotenenza affidata a Luigi
Carlo Farini. Una disamina dei problemi: l’ostilità del clero e
dell’aristocrazia, i troppi licenziamenti, di impiegati e di operai, il
malcontento dell’esercito meridionale (cioè garibaldino), “i capitoli di Gaeta
che permisero a Francesco Secondo il soggiorno a Roma” (lo voleva in carcere?),
i briganti sobillati naturalmente da Francesco II comodo a Roma (non si dice ma
si fa capire). Senza un perché del malcontento del clero, private
repentinamente della manomorta – con l’esito di lasciare i poveri e molti
malati senza accudimento, che era l’opera dei preti. O dei briganti. Una sola
notazione di rilievo, seppure escusatoria: “L’antica abitudine di considerare
il Governo come naturale nemico della società”.
Quattro
mesi di gestione cavouriana del Regno del Sud, nemmeno il tempo di farsene
un’idea. E poi Cavour moriva. Sarebbe stata un’altra storia? Da questa premessa
è da dubitare: le prime trenta righe levano il fiato, sono trenta, o più, manchevolezze,
dei regnanti, ex, e dei sudditi. Dappertutto camorra, brigantaggio e latrocinio.
Ignoranza, miseria e fame. E “una schiera immensa d’impiegati, d’amministratori, d'ingegneri, d’avvocati… La polizia trista, arrogante, malvagia … I lavori pubblici
pagati e non fatti……Clero immenso, ignorante…. La mendicità esercitata, sotto
forme diverse, da tutte le classi dei cittadini, non escluse le più elevate”. E
“non giornali, non libri” – a Napoli?
Nigra
farà poi carriera brillante nella Parigi di Napoleone III. Dell’esperienza
napoletana non avrà nessuna memoria, nemmeno negativa. Il sito che ne cura
l’immagine non menziona la gita a Napoli. La Treccani lo dice inadatto
all’incarico, e fallimentare: “Il 1861 non fu per lui un anno fortunato”,
segretario generale della “seconda luogotenenza napoletana…. allo scopo di
guidare più in fretta possibile l’unificazione amministrativa del Mezzogiorno,
delle Marche e dell’Umbria”. Ma non nasconde la verità: “Si rivelò inadatto e
fu il primo fallimento nella sua brillante carriera pubblica, perché privo di
esperienza di governo e portato più a mediare con cautela che a decidere con
decisione”. O a decidere di non decidere, che il Sud non meritava, era incurabile,
etc..
Il radicamento aiuta, ma è un
atto volontario
“Il
paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non
essere soli” , è Cesare Pavese (“La luna e falò”), tipico “uomo di città” ma
mai stanco di narrare il paese. Qualche anno dopo, 1954, Ernst Jünger, in
autobus da Villasimius a Cagliari, viene continuamente rimandato alla vista di
una torre dei saraceni, tanto che finisce per vederla con gioia ad ogni curva
serpentina: “La rivedevo con gioia ad ognoi curva, guardiana di un cantone del
Mezzogiorno divenuto per me un pezzo di patria spirituale: è la vera presa di
possesso”.
In realtà, la presa di possesso di Jünger non è della
torre, come per un qualsiasi turista stagionale, ma la vita che sotto quella
torre ha trascorso per alcune settimane – di un’intensità tale, nella sua
semplicità, nel suo “nulla”, che ha dovuto scriverla, raccontar(se)la,
elaborarla. È però vero che la “presa di possesso” non è legata al luogo di nascita.
La scrittrice americana Lucia Berlin, emigrata in Cile con la famiglia quando
aveva pochi anni, spiega in un delicato
racconto, “Andado” (ora nella raccolta “Sera in paradiso”) che si è scoperta
avere “la
qualità di adattamento comune ai mocciosi
di militari e ai figli di diplomatici”, ragazzi che “imparano
rapidamente, non solo la lingua o il gergo ma cosa fare, cosa dover sapere. Il
problema per questi ragazzi non è di essere isolati o estranei, ma che si
adattano così rapidamente e così bene”.
Il paese è l’infanzia. Anche
il quartiere lo è, la strada, il palazzo, l’appartamento in città possono
essere l’infanzia. E la memoria servire dettagliata. Mentre il radicamento è
una infanzia di altro, di linguaggio e di sui, territoriale, sociale, anche
socievole. E soprattutto dalla memoria lunga, a differenza della città, fatta
per dimenticare. E plurale: una memoria in qualche modo condivisa, anche con
estranei. È il paradosso di Ulisse, che scopre chi è dagli altri, dopo lunga
peregrinazione – da chi l’ha sempre conosciuto, cioè dalla nascita, e ne
conserva la memoria, per quanto estraneo (l’aedo cieco che a casa sua canta gli
eroi della guerra di Troia).
Il cuore della Lega anti-Meridione
è al Sud
“Lega a congresso con tanto
Sud”, titolo. Testo: “Non si sa quando, non si sa come, ma si che la maggior
parte dei delegati saranno meridionali”. Così il “Corriere della sera” tenta di
spiegare la cosa: “Partito non più nordista
ma nazionale, anche nei delegati che saranno chiamati al voto pe il nuovo mandato. Ai delegati del Sud è
infatti affidato il compito non detto di mettere al sicuro il risultato del
leader”. Di confermare cioè il contestato Salvini alla segreteria.
Il giornale di Milano lo registra con dispetto, perché
non gli piace Salvini - la Lega sì, Salvini no. E subito dopo lo dice. Non per
spiegare l’arcano del Sud a congresso dalla Lega, ma il perché di tanto Sud a
Giussano, o dov’è che votano per il Congresso: “Nel partito si parla di tesseramenti
avventurosi… In breve, dei circa sette o ottocento delegati, moltissimi saranno
del meridione”. Cento? Settecento? Non si sa. Salvini si è comprato i delegati,
il solito Sud corrotto? Non si dice: Però, l’articolista si fa spiegare da “un
leghista pragmatico”: “Ci sono territori al Sud in cui la Lega prende più che
al Nord”. E qui, bisogna riconoscere, non c’è perfidia, è un dato di fatto: la
Lega senza il Sud forse non andrebbe in Parlamento.
leuzzi@antiit
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