Trasfigurazione del sordido – se la scrittura fa miracoli
Di
vite Lucia Berlin ne ebbe molte, anche più di una nello stesso anno, per i problemi
fisici che la assediarono, sotto lo sguardo da rubacuori, complici le lenti a
contatto, che ne illustra le copertine, e peggio ancora per l’alcolismo, e l’incostanza
sentimentale-sessuale. Questa raccolta di racconti brevi e minimi, inediti o
dispersi, con qualche lacerto di romanzo abbandonato, curata dal figlio Jeff,
si segnala per le trenta pagine di cruda cronologia che il curatore, a vent’anni dalla morte della madre, ha
credito utile far conoscere. Abusata metodicamente dal padre e dal nonno
paterno, una madre inerte, alcolizzata, violentata a 14 anni da un amico del
padre in Cile, cresciuta con la scoliosi e col busto, sposa poco più che
adolescente per andare via di casa, e presto divorziata, sposa, fidanzata o
compagna di molti uomini, a letto anche con un diciottenne vicino di casa,
babysitter dei propri figli, fidanzata di un altro diciottenne, “il miglior
amico di Mark”, il suo primogenito, madre di quatro figli, i primi due col
primo marito da studenti, quattro maschi, che accudisce e anche educa, stuprata
anche dagli spacciatori che rifornivano il marito di cui ha conservato il
cognome (Buddy Berlin, un ricco concessionario di automobili, con tenuta al
mare, in Messico, ma eroinomane), girovaga da Albuquerque a Berkeley e Boulder,
e fino a New York, tra un ricovero per dintossicazione e un lavoretto (per lo
più in ambito medicale, il più lungo in una clinica per aborti), cambiando
abitazione, quando non città, ogni pochi mesi. Con (poche) pause d’insegnamento,
di letteratura, lettura e\o scrittura, in licei, in università – fino
all’ultimo incarico all’università del Colorado a Boulder, gli unici anni,
cinque o sei, tranquilli della sua esistenza, poco prima della morte.
Non
è la solita biografia americana, dell’artista “maledetto”. Una vita si direbbe
impossibile, tragica, pestifera. Vissuta invece gioiosamente, quasi, nelle
scritture. Lucia Berlin è il miracolo della scrittura, in senso proprio, taumaturgico.
Non c’è realtà spicciola, anche sordida, comunque minima, inutile, che non
vivifichi. Perfino i turni, e le liti veterane-novizie, tra le telefoniste del
grande ospedale – nel racconto più lungo, “Il centralino”. Racconti, si
direbbe, di poveracci, per lo più donne, e di anziani in bisogno. “Mamma e
papà” riesce a rendere teneri gli ultimi mesi o anni dei genitori del primo
marito.
Per
quanto raccogliticcia, da amatori, anche questa raccolta è godibile. Di grande
abilità nel racconto dell’indistinto, o del noto, o del superfluo. Ne “La vita
di Elsa” un vecchio marinaio spagnolo in casa di riposo, che collabora con “un
progetto artistico sovvenzionato dallo Stato” raccontando la sua vita,
“ottant’anni, ancora atletico e muscoloso”, rappresenta in poche righe l’emigrazione
per disperazione: “L’unica storia d’amore che le raccontò fu una relazione di
tre giorni con una puttana saltata giù da un sampàn a Singapore. Mr. Ramirez
era da solo a bordo, tutti gli altri erano in licenza. La ragazza era salita in
coperta arrampicandosi a una cima, e si rifiutava di andarsene. Voleva che la
sposasse, e la portasse negli Stati Uniti, non capiva che non era americano.
Non era una nave americana… Avevano cucinato…. ballato….dormito su un materasso
in coperta, sotto le stelle. Alla fine, piangendo, la ragazza era ridiscesa sul sampàn a filo dell’acqua. Lì sopra c’era
tutta la sua famiglia, visibilmente delusa”.
Una
pagina sulla chirurgia estetica, “La bellezza lascia il tempo che trova”,
toglie il respiro. Più spesso è l’indistinto quotidiano la materia del racconto.
Il vicino di casa vecchio nei suoi movimenti, le sue abitudini. La coppia
giovanissima che non ha tempo per parlarsi. E progetti di romanzo: un
rifacimento di “Tess dei d’Uberville”, un’autobiografia intitolata “Suicide”.
Lucia
Berlin, Una nuova vita, Bollati
Boringhieri, pp. 254 € 17
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