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Antropologia del silenzio – nella guerra civile iraniana
Adelkhah, antropologa,
iraniana con la doppia nazionalità, francese, arrestata il 5 giugno 2019 senza
una motivazione, è stata detenuta in varie carceri, ma prevalentemente a Evin,
il carcere di Teheran, per quattro anni e mezzo. Senza mai un capo d'accusa. Il
suo arresto, spiega, non è stato quello delle “tante donne pronte a grandi
sacrifici personali e familiari per dare il loro contributo a un futuro
migliore”. Al momento dell’arresto conduceva una ricerca sulla formazione del
clero nella provincia di Qom, la città che è un po’ il centro dello sciismo. Ma
non di questo si è trattato, la ricerca non le è stata contestata.
Senza un’accusa, qualsiasi
accusa, non c’è possibilità di difesa, naturalmente. Per lei antropologa, avvezza
a decifrare segni, sono stati anni di vuoto totale. Riempiti dalla comunanza
con le altre detenute, obbligata ma alla fine più benefica che pesante. Una forma
di compartecipazione dei destini più variati. Anche di chi “vi trova un rifugio
per studiare lontano dai vincoli familiari”. E perfino di “costruirsi un capitale
politico e simbolico”.
Ciò che più l’ha colpita è
trovare in prigione no solo “oppositori della Repubblica islamica” ma anche “alcuni
dei suoi servitori e sostenitori, membri delle famiglie dei martiri, comandanti
delle Guardie della Rivoluzione, deputati e ministri”. La rivoluzione che divora
i suoi figli? Non sembra il caso, niente di rivoluzionario a Teheran.
“La guerra civile
iraniana - perché di questo si tratta – si svolge in gran parte nelle carceri”.
All’ombra del silenzio: “Il silenzio è parte del mondo carcerario e ha una funzione
strutturante”. Fa la realtà – “la cosa peggiore del silenzio è che si può sapere
perché lo si rompe, ma non sempre perché lo si mantiene”. Un’antropologia del
silenzio.
Fariba Adelkhah, Prisonnière
à Teheran, Seuil, pp. 248 € 19,50
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