skip to main |
skip to sidebar
La scoperta dell’America, di Trump
Un saggio in sessanta pagine, molto
gornalistico, anche cronachistico, di lettura agevole e piacevole, che vale un
trattato socio-politico. Per l’indigenza degli studi in Italia, e di un giornalismo
neghittoso? Quello che sia, ma le cose che non sappiamo evidentemente sono molte,
se questa brochure è una sorpresa. Anche, o più, per la corposità del
soggetto. A partire dai dazi, la
questione che ci toglie il fiat, sembra.
Una trattazione preceduta peraltro da una excusatio:
“Gli stessi americani sono a maggioranza scontenti, pessimisti, sfiduciati” – “i
due terzi pensano che l’America sia su una cattiva strada, il 70 per cento pensa
che la situazione economica sia negativa, la reputazione delle istituzioni è calata
ai minimi storici, solo il 20 per cento degli americani ha fiducia nel proprio
governo”. E i problemi non mancano, per primo “il debito totale - sommando, com’è
giusto fare, quello pubblico a quelli privati - ”, che è al 255 per cento del
pil. E hanno votato Trump, come a dire peggio non può andare, vediamo se questo
cambia qualcosa. Senonché “il debito della Cina è al 300 per cento del pil. E la
Cina non ha una moneta che tutti vogliono”. Il dollaro è sempre sovrano, è il 60
per cento delle riserve valutarie mondiali, ed è usato in nove compravendite su
dieci, e in sette su dieci operazioni finanziarie. Cinquant’anni fa “l’America
era il più grande importatore mondiale di energia…. Oggi ha conquistato l’autosufficienza
energetica, ha sorpassato Russia e Arabia Saudita nella produzione di petrolio
e gas, e al tempo stesso” ha ridotto le emissioni carboniche pro capite “a
livelli equivalenti a 110 anni fa”.
E l’economia americana è la più solida e la
più equilibrata socialmente, malgrado la sfiducia dei sondaggi. Sono giusto gli
europei a cullarsi nello stereotipo dell’America dei riccastri, “il Far West del
capitalismo selvaggio, il paese delle disuguaglianze estreme. Ma è negazionismo
allo stato puro”. Negli Stati Uniti i redditi più bassi aumentano da trent’anni
“in misura superiore alla media” – i redditi del 20 per cento più povero sono
aumentati del 74 per cento, contro una media complessiva del 55 per cento. E
più sono aumentati negli ultimi sei anni. Del resto, l’America è il polo di attrazione
maggiore delle migrazioni spontanee “(europei inclusi)”.
Gli Stati Uniti hanno il 26 per cento del
pil mondiale, “la stessa posizione che occupavano agli inizi degli anni
Novanta”, quando erano la sola superpotenza. “Nel 2008 le economie degli Stati
Uniti e dell’eurozona si equivalevano, oggi quella americana vale il 40 per
cento in più” - effetto dell’Europa al traino della Germania di Merkel, va
aggiunto, del “troppo poco troppo tardi”, ma questo è un altro argomento,
Rampini si limita alla constatazione.
E dunque, perché l’America scontenta si è
affidata a Trump? Perché è fatta così. Lo aveva già fatto, con Reagan, “cowboy
rozzo e ignorante”, nel 1980, e le è andata bene – dopo il Watergate, la
sconfitta in Vietnam, l’invasione di macchine giapponesi e tedesche: Reagan che
ribalta tutto, sindacati e statalismo, contro scioperi di mesi, altra presidenza, va aggiunuo, che debutta con una selva di ordini esecutivi, e Obama dirà
“uno dei più grandi presidenti della storia” – all’insegna, anche allora, del
“Make America Great Again”.
Terrificanti, benché fattuali, le due
pagine centrali sui democratici che “hanno fatto di tutto per resuscitare il
Vecchio Donald”. La Silicon Valley una oligarchia? nazifascista? Musk e Bezos
fino al ciclo elettorale precedente avevano sostenuto i democratici, senza
scandalo. Soros “ha versato in finanziamenti alla campagna del partito
democratico il quadruplo dei fondi che Musk ha dato a Trump. Altri miliardari
(Bill Gates, Michael Bloomberg) hanno continuato a sostenere la sinistra. Kamala
Harris ha incassato e ha speso molti più soldi di Trump nel 2024”.
C’è, non detta ma ben rappresentata, la
verità che l’America non è l’Europa, sofisticata, accigliata, maestra di
scuola. Quando le cose non funzionano l’americano cambia, radicalmente. Questa
rivolta Rampini spiega in entrata plasticamente, con un’immagine: quella di un
ex presidente, Trump, “soggetto al rito della foto segnaletica”. Una
umiliazione? Un abuso, che i Democratici non capiscono (“un criminale alla Casa
Bianca?” fu lo slogan di Kamala Harris in campagna elettorale), di cui Trump ha
fatto un’arma: esibendola sui social per due anni e sette mesi, in campagna
elettorale con un link per la raccolta fondi, sopra lo slogan “Mai
arrendersi”. Un mondo da Far West? Un mondo stanco di falsi processi, di
“un’impunità permissiva” teorizzata e applicata da troppi giudici, i furti nei
negozi “tollerati e depenalizzati” – dalla stessa Harris, procuratrice federale
a San Francisco, p.es. – specie per “delinquenti appartenenti a minoranze
etniche «protette»”. Così come le intemperanze del Black Lives Matter, gli
assalti di gruppi radicali di sinistra a “sedi governative, commissariati di
polizia” – su cui si conformeranno i trumpiani dell’assalto al Congresso:
“Tutte cose che hanno contribuito a spostare a destra anche fasce consistenti
di black e latinos: perché proprio nei loro quartieri l’insicurezza è più elevata”.
Tutte cose, si può aggiungere, che l’ora
vice-presidente Vance raccontava e spiegava nel suo bestseller “Hillbilly Elegy”
dieci anni prima. E per i bianchi – che “sono pur sempre il 60 per cento della
popolazione” - l’insopportabile aggravio della cancel culture e della critical
race theory: non ci sono farabutti nella storia che bianchi.
Che cosa attendersi? Sul riequilibrio politico e militare tra Stati
Uniti ed Europa già molto si sa. Sui
dazi invece no: “Il livello medio attuale dei dazi Usa è del 2 per cento”. Sarà
vero? Certo è facile per gli europei vendere automobili in Usa, impossibile per
gli americani venderne in Europa – a meno di non fabbricarle in Europa. E così
per molti altri prodotti, compresi quelli agricoli. Di certo la minaccia dei dazi funziona. Per ora sempre rinviata, ha visto Messico e Canada impegnarsi positivamente a ridurre le distanze.
Sui dazi Rampini fornisce
un insight che avrebbe dovuto figurare da tempo nell’informazione: come già
Milton Friedman per gli anni di Reagan, c’è ora in America un titolato teorico
dei dazi, Stephen Miran, che Trump ha messo a capo dei Consiglieri Economici
della presidenza. Non altrettanto titolato che Friedman, che era già premio Nobel,
ma accademico e agguerrito sì: i mercati concorrenziali ipotizzati dal
liberismo non esistono, il sistema produttivo che condiziona I mercati
internazionali, quello cinese, è dirigista e statalista, quindi i dazi sono necessari,
contro il dumping. Gli Stati Uniti sono d’altra parte il più grande
mercato d’importazione. Effetto dei dazi bassi o inesistenti. Potrebbero mettere
a frutto questo fatto, sempre secondo Miran, farne una posizione di forza – un monopsonio, monopolio al
consumo – per imporre dazi anche elevati: i venditori si affretteranno ad assorbirli
nei prezzi che praticano, non potendo rinunciare a vendere negli Usa.
Ipotetico, ma possibile - quello che è certo, si può aggiungere, è che i dazi sono stati causa ed effetto della Brexit.
Un’analisi forte, fattuale. Tra situazioni
reali, locali, eventi, festival perfino, e un viaggio a Miami.
Federico Rampini, Quello che dovete sapere
sull’America di Trump, “Corriere della sera”, pp. 60, gratuito col giornale
Nessun commento:
Posta un commento