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mercoledì 5 marzo 2025

La scoperta dell’America, di Trump

Un saggio in sessanta pagine, molto gornalistico, anche cronachistico, di lettura agevole e piacevole, che vale un trattato socio-politico. Per l’indigenza degli studi in Italia, e di un giornalismo neghittoso? Quello che sia, ma le cose che non sappiamo evidentemente sono molte, se questa brochure è una sorpresa. Anche, o più, per la corposità del soggetto. A  partire dai dazi, la questione che ci toglie il fiat, sembra.
Una trattazione preceduta peraltro da una excusatio: “Gli stessi americani sono a maggioranza scontenti, pessimisti, sfiduciati” – “i due terzi pensano che l’America sia su una cattiva strada, il 70 per cento pensa che la situazione economica sia negativa, la reputazione delle istituzioni è calata ai minimi storici, solo il 20 per cento degli americani ha fiducia nel proprio governo”. E i problemi non mancano, per primo “il debito totale - sommando, com’è giusto fare, quello pubblico a quelli privati - ”, che è al 255 per cento del pil. E hanno votato Trump, come a dire peggio non può andare, vediamo se questo cambia qualcosa. Senonché “il debito della Cina è al 300 per cento del pil. E la Cina non ha una moneta che tutti vogliono”. Il dollaro è sempre sovrano, è il 60 per cento delle riserve valutarie mondiali, ed è usato in nove compravendite su dieci, e in sette su dieci operazioni finanziarie. Cinquant’anni fa “l’America era il più grande importatore mondiale di energia…. Oggi ha conquistato l’autosufficienza energetica, ha sorpassato Russia e Arabia Saudita nella produzione di petrolio e gas, e al tempo stesso” ha ridotto le emissioni carboniche pro capite “a livelli equivalenti a 110 anni fa”.
E l’economia americana è la più solida e la più equilibrata socialmente, malgrado la sfiducia dei sondaggi. Sono giusto gli europei a cullarsi nello stereotipo dell’America dei riccastri, “il Far West del capitalismo selvaggio, il paese delle disuguaglianze estreme. Ma è negazionismo allo stato puro”. Negli Stati Uniti i redditi più bassi aumentano da trent’anni “in misura superiore alla media” – i redditi del 20 per cento più povero sono aumentati del 74 per cento, contro una media complessiva del 55 per cento. E più sono aumentati negli ultimi sei anni. Del resto, l’America è il polo di attrazione maggiore delle migrazioni spontanee “(europei inclusi)”.  
Gli Stati Uniti hanno il 26 per cento del pil mondiale, “la stessa posizione che occupavano agli inizi degli anni Novanta”, quando erano la sola superpotenza. “Nel 2008 le economie degli Stati Uniti e dell’eurozona si equivalevano, oggi quella americana vale il 40 per cento in più” - effetto dell’Europa al traino della Germania di Merkel, va aggiunto, del “troppo poco troppo tardi”, ma questo è un altro argomento, Rampini si limita alla constatazione.
E dunque, perché l’America scontenta si è affidata a Trump? Perché è fatta così. Lo aveva già fatto, con Reagan, “cowboy rozzo e ignorante”, nel 1980, e le è andata bene – dopo il Watergate, la sconfitta in Vietnam, l’invasione di macchine giapponesi e tedesche: Reagan che ribalta tutto, sindacati e statalismo, contro scioperi di mesi, altra presidenza, va aggiunuo, che debutta con una selva di ordini esecutivi, e Obama dirà “uno dei più grandi presidenti della storia” – all’insegna, anche allora, del “Make America Great Again”.
Terrificanti, benché fattuali, le due pagine centrali sui democratici che “hanno fatto di tutto per resuscitare il Vecchio Donald”. La Silicon Valley una oligarchia? nazifascista? Musk e Bezos fino al ciclo elettorale precedente avevano sostenuto i democratici, senza scandalo. Soros “ha versato in finanziamenti alla campagna del partito democratico il quadruplo dei fondi che Musk ha dato a Trump. Altri miliardari (Bill Gates, Michael Bloomberg) hanno continuato a sostenere la sinistra. Kamala Harris ha incassato e ha speso molti più soldi di Trump nel 2024”.   
C’è, non detta ma ben rappresentata, la verità che l’America non è l’Europa, sofisticata, accigliata, maestra di scuola. Quando le cose non funzionano l’americano cambia, radicalmente. Questa rivolta Rampini spiega in entrata plasticamente, con un’immagine: quella di un ex presidente, Trump, “soggetto al rito della foto segnaletica”. Una umiliazione? Un abuso, che i Democratici non capiscono (“un criminale alla Casa Bianca?” fu lo slogan di Kamala Harris in campagna elettorale), di cui Trump ha fatto un’arma: esibendola sui social per due anni e sette mesi, in campagna elettorale con un link per la raccolta fondi, sopra lo slogan “Mai arrendersi”. Un mondo da Far West? Un mondo stanco di falsi processi, di “un’impunità permissiva” teorizzata e applicata da troppi giudici, i furti nei negozi “tollerati e depenalizzati” – dalla stessa Harris, procuratrice federale a San Francisco, p.es. – specie per “delinquenti appartenenti a minoranze etniche «protette»”. Così come le intemperanze del Black Lives Matter, gli assalti di gruppi radicali di sinistra a “sedi governative, commissariati di polizia” – su cui si conformeranno i trumpiani dell’assalto al Congresso: “Tutte cose che hanno contribuito a spostare a destra anche fasce consistenti di black e latinos: perché proprio nei loro quartieri l’insicurezza è più elevata”.
Tutte cose, si può aggiungere, che l’ora vice-presidente Vance raccontava e spiegava nel suo bestseller “Hillbilly Elegy” dieci anni prima. E per i bianchi – che “sono pur sempre il 60 per cento della popolazione” - l’insopportabile aggravio della cancel culture e della critical race theory: non ci sono farabutti nella storia che bianchi.
Che cosa attendersi?  Sul riequilibrio politico e militare tra Stati Uniti ed Europa già molto si sa.  Sui dazi invece no: “Il livello medio attuale dei dazi Usa è del 2 per cento”. Sarà vero? Certo è facile per gli europei vendere automobili in Usa, impossibile per gli americani venderne in Europa – a meno di non fabbricarle in Europa. E così per molti altri prodotti, compresi quelli agricoli. Di certo la minaccia dei dazi funziona. Per ora sempre rinviata, ha visto Messico e Canada impegnarsi positivamente a ridurre le distanze.  

Sui dazi Rampini fornisce un insight che avrebbe dovuto figurare da tempo nell’informazione: come già Milton Friedman per gli anni di Reagan, c’è ora in America un titolato teorico dei dazi, Stephen Miran, che Trump ha messo a capo dei Consiglieri Economici della presidenza. Non altrettanto titolato che Friedman, che era già premio Nobel, ma accademico e agguerrito sì: i mercati concorrenziali ipotizzati dal liberismo non esistono, il sistema produttivo che condiziona I mercati internazionali, quello cinese, è dirigista e statalista, quindi i dazi sono necessari, contro il dumping. Gli Stati Uniti sono d’altra parte il più grande mercato d’importazione. Effetto dei dazi bassi o inesistenti. Potrebbero mettere a frutto questo fatto, sempre secondo Miran, farne una posizione di forza – un monopsonio, monopolio al consumo – per imporre dazi anche elevati: i venditori si affretteranno ad assorbirli nei prezzi che praticano, non potendo rinunciare a vendere negli Usa. Ipotetico, ma possibile - quello che è certo, si può aggiungere, è che i dazi sono stati causa ed effetto della Brexit.

Un’analisi forte, fattuale. Tra situazioni reali, locali, eventi, festival perfino, e un viaggio a Miami. 

Federico Rampini, Quello che dovete sapere sull’America di Trump, “Corriere della sera”, pp. 60, gratuito col giornale

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