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Se i morti degli altri sono i nostri
Racconti di Resistenza,
politica. La storia della violenta repressione della giunta militare in Corea
nel 1980 in sette racconti. Due contemporanei ai fatti, 1980, gli altri
successivi datati a varie epoche: la giornalista d’inchiesta, 1985, il
prigioniero, 1990, l’operaia, 2002, la madre del ragazzo, 2010. Fino
all’epilogo, 2013, la storia della storia. Non una raccolta di racconti, ma un
racconto scaglionato in più tempi, da più punti di vista. Su vari personaggi,
ragazzi al tempo della repressione del 1980, ma di fatto sulla lunga stagione
coreana di dittatura militare, sulle tante forme di violenza - e di resistenza.
“la Repubblica” inaugura
la serie “Voci d’Oriente”, di scrittori asiatici, con un romanzo politico,
l’unico della mezza dozzina pubblicati dalla poetessa e romanziera coreana
Nobel 2024. Un coro polifonico di vittime del massacro operato dalla dittatura militare
nel maggio 1980 a Gwangju. Delle voci minime dei ragazzi che ordinano, rassettano,
lavano i cadaveri, li avvolgono in teli d’occasione o bare di compensato,
accudiscono i parenti che arrivano a mano a mano per il riconoscimento. In
ambienti angusti, al freddo, nella putredine. Smarriti, tormentati,
perseguitati. Tra timori e voci di un ritorno in forze dei militari autori
dell’eccidio.
La Corea del Sud è di
modernizzazione recente - è membro dell’Onu solo dal 1991. A partire dal 1961 è
stata governata da una dittatura militare. A fine ottobre 1979 il primo dittatore,
il generale Park, fu assassinato dal suo capo dei servizi segreti - a sua volta
poi impiccato. Arrivato al vertice dei servizi segreti nell’aprile del 1980, il
generale Chung Doo-hwan immediatamente cacciò il presidente pro tempore
e si prese i pieni poteri. Impose la legge marziale, e le proteste represse con
la violenza, specie dei paracadutisti, di cui era stato comandante, specie a
Gwangju, dove si erano succedute manifestazioni di protesta - governerà con
pugno di ferro, tra esecuzioni e torture, per otto anni, gli anni del “miracolo
economico”, del “decollo”, del boom, sarà poi condannato a morte, ma
graziato (è morto novantenne nel 2021).
Han Khang, nove anni,
lasciava Gwangju per Seul con la famiglia qualche giorno prima dei massacri.
Non ne ebbe cognizione all’epoca - giusto qualche allusione tra adulti, o uno
strano libro di foto di cadaveri. Ci tornerà 33 anni dopo, racconta in epilogo,
documentatissima, sul vago ricordo delle conversazioni parentali che chi aveva
comprato la loro casa, tradizionale coreana, aveva affittato un piccolo
ambiente nel cortile a due ragazzi, fratello e sorella, che avevano partecipato
alle proteste, ne erano rimasti vittime - e avevano creato problemi agli
affittuari. I massacri sono ricostruiti con i loro occhi.
Seguiamo queste vittime
dopo il massacro. Il ragazzo in cerca dell’amico. La giornalista dapprima
censurata poi torturata. L’operaia che il poliziotto borghese calpesta con
ferocia a sangue. L’investigatrice-narratrice lo stesso. Il prigioniero confuso
dalla sopravvivenza. Una storia di sevizie, carcere, delazioni, soprusi. E poi
dinieghi. Fino a che si comincia ad ammettere. Perfino a celebrare le vittime
della persecuzione. Come a dire che l’umanità resta dubbia.
Una storia truce. Affliggente,
anche perché ripetitiva, come una nenia lugubre. Sebbene scritta con levità,
almeno in traduzione, “poetica”: lirica, elegiaca, modernamente epica, senza
barocchismi.
Ha Kan è nata letterata,
si può dire. In una famiglia di scrittori, anche di nome il padre e un
fratello. Poetessa al debuto, poi via via natratrice. Ma col problema persistente,
malgrado la notorietà, della traduzione. Il successo internazionale arriva nel
2016 con la sua prima traduzione inglese, subito premiata con l’International Booker
Prize – seguito a ruota dal Prix Médicis a Parigi e il Premio Malaparte. Se non
che la traduzione inglese, su cui vengono fatte le altre traduzioni - il romanzo
è “La vegetariana” - è presto scoperto infedele per molti aspetti, alcuni dei
quali poi ammessi dalla traduttrice. Ultimamente, dopo il Nobel, un suo romanzo
è stato tradotto da Lia Jovenitti, iamatologa ripiegata da tempo a Seul, dove
ha famiglia ed esercita l’export-import, direttamente dall’originale. Le altre
traduzioni, compresa questa (ripresa dall’edizione Adelphi, 2017), sono dall’inglese.
Milena Zemira Ciccimarra, la traduttrice accreditata di Han Kang, risulta avere
fatto tesoro delle correzioni apportate alle traduzioni inglesi. Ma, certo, di
che parliamo quando parliamo di Han Kang? Di Nobel alle traduttrici?
Una nota storica non
avrebbe guastato - il racconto si vuole storico.
Han
Kang, Atti
umani.
“la Repubblica”, pp. 191 € 9,90
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