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lunedì 24 marzo 2025

Se i morti degli altri sono i nostri

Racconti di Resistenza, politica. La storia della violenta repressione della giunta militare in Corea nel 1980 in sette racconti. Due contemporanei ai fatti, 1980, gli altri successivi datati a varie epoche: la giornalista d’inchiesta, 1985, il prigioniero, 1990, l’operaia, 2002, la madre del ragazzo, 2010. Fino all’epilogo, 2013, la storia della storia. Non una raccolta di racconti, ma un racconto scaglionato in più tempi, da più punti di vista. Su vari personaggi, ragazzi al tempo della repressione del 1980, ma di fatto sulla lunga stagione coreana di dittatura militare, sulle tante forme di violenza - e di resistenza.
“la Repubblica” inaugura la serie “Voci d’Oriente”, di scrittori asiatici, con un romanzo politico, l’unico della mezza dozzina pubblicati dalla poetessa e romanziera coreana Nobel 2024. Un coro polifonico di vittime del massacro operato dalla dittatura militare nel maggio 1980 a Gwangju. Delle voci minime dei ragazzi che ordinano, rassettano, lavano i cadaveri, li avvolgono in teli d’occasione o bare di compensato, accudiscono i parenti che arrivano a mano a mano per il riconoscimento. In ambienti angusti, al freddo, nella putredine. Smarriti, tormentati, perseguitati. Tra timori e voci di un ritorno in forze dei militari autori dell’eccidio.
La Corea del Sud è di modernizzazione recente - è membro dell’Onu solo dal 1991. A partire dal 1961 è stata governata da una dittatura militare. A fine ottobre 1979 il primo dittatore, il generale Park, fu assassinato dal suo capo dei servizi segreti - a sua volta poi impiccato. Arrivato al vertice dei servizi segreti nell’aprile del 1980, il generale Chung Doo-hwan immediatamente cacciò il presidente pro tempore e si prese i pieni poteri. Impose la legge marziale, e le proteste represse con la violenza, specie dei paracadutisti, di cui era stato comandante, specie a Gwangju, dove si erano succedute manifestazioni di protesta - governerà con pugno di ferro, tra esecuzioni e torture, per otto anni, gli anni del “miracolo economico”, del “decollo”, del boom, sarà poi condannato a morte, ma graziato (è morto novantenne nel 2021).
Han Khang, nove anni, lasciava Gwangju per Seul con la famiglia qualche giorno prima dei massacri. Non ne ebbe cognizione all’epoca - giusto qualche allusione tra adulti, o uno strano libro di foto di cadaveri. Ci tornerà 33 anni dopo, racconta in epilogo, documentatissima, sul vago ricordo delle conversazioni parentali che chi aveva comprato la loro casa, tradizionale coreana, aveva affittato un piccolo ambiente nel cortile a due ragazzi, fratello e sorella, che avevano partecipato alle proteste, ne erano rimasti vittime - e avevano creato problemi agli affittuari. I massacri sono ricostruiti con i loro occhi.
Seguiamo queste vittime dopo il massacro. Il ragazzo in cerca dell’amico. La giornalista dapprima censurata poi torturata. L’operaia che il poliziotto borghese calpesta con ferocia a sangue. L’investigatrice-narratrice lo stesso. Il prigioniero confuso dalla sopravvivenza. Una storia di sevizie, carcere, delazioni, soprusi. E poi dinieghi. Fino a che si comincia ad ammettere. Perfino a celebrare le vittime della persecuzione. Come a dire che l’umanità resta dubbia.
Una storia truce. Affliggente, anche perché ripetitiva, come una nenia lugubre. Sebbene scritta con levità, almeno in traduzione, “poetica”: lirica, elegiaca, modernamente epica, senza barocchismi.
Ha Kan è nata letterata, si può dire. In una famiglia di scrittori, anche di nome il padre e un fratello. Poetessa al debuto, poi via via natratrice. Ma col problema persistente, malgrado la notorietà, della traduzione. Il successo internazionale arriva nel 2016 con la sua prima traduzione inglese, subito premiata con l’International Booker Prize – seguito a ruota dal Prix Médicis a Parigi e il Premio Malaparte. Se non che la traduzione inglese, su cui vengono fatte le altre traduzioni - il romanzo è “La vegetariana” - è presto scoperto infedele per molti aspetti, alcuni dei quali poi ammessi dalla traduttrice. Ultimamente, dopo il Nobel, un suo romanzo è stato tradotto da Lia Jovenitti, iamatologa ripiegata da tempo a Seul, dove ha famiglia ed esercita l’export-import, direttamente dall’originale. Le altre traduzioni, compresa questa (ripresa dall’edizione Adelphi, 2017), sono dall’inglese. Milena Zemira Ciccimarra, la traduttrice accreditata di Han Kang, risulta avere fatto tesoro delle correzioni apportate alle traduzioni inglesi. Ma, certo, di che parliamo quando parliamo di Han Kang? Di Nobel alle traduttrici?
Una nota storica non avrebbe guastato - il racconto si vuole storico.

Han Kang, Atti umani. “la Repubblica”, pp. 191 € 9,90


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