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A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (590)
Giuseppe Leuzzi
Le città più trafficate (inquinate, invivibili)
d’Italia? Del Sud, naturalmente. In mancanza di meglio, o di più serietà, ci si
basa su “un rapporto del 2016” – di chi non si sa. Su sette città con più smog
da circolazione automobilistica, cinque sono meridionali. In aggiunta a Milano
e Roma naturalmente. In ordine crescente di velenosità: Palermo, Messina, Napoli, Reggio
Calabria e Catania (Roma dopo Palermo, Milano prima di Catania). Tutte peraltro
città di mare, che respirano.
Oggi però “Il Sole 24 Ore” ha
una statistica insidiosa – vera, Eurostat: “Nel 2024 l’occupazione in Italia è cresciuta
più rapidamente di quella media in Europa, anche in molte aree del Mezzogiorno”.
Ma le regioni del Sud sono le peggiori delle 240 censite, escludendo i
territori “d’oltremare” (nel caso la Guyiana francese): Campania, Sicilia,
Calabria, Puglia, a partire dal fondo.
La graduatoria non tiene conto
del “nero” – il tasso d’occupazione resta in Italia al 62 per cento, contro una
media Ue del 70+. Al Sud indubbiamente c’è più “nero” – se non più povertà.
Se non c’è mafia
non c’è delitto
Le mafie delle “curve” Inter e
Milan, traffico di droga, biglietti e posteggi, con assassinii, sono di ordinaria
amministrazione nelle cronache giudiziarie, nazionali e milanesi. Uno
penserebbe il contrario – tifo calcistico, zone urbane, grandi numeri. Ma non
prendono più spazio e attenzione di un caso di stalking dell’ex, di mobbing in
azienda, di ordinaria amministrazione in tempi di pace. Non c’è inchiesta
giudiziaria più “babba” di questa, pur grave – intercettazioni? connessioni? la
politica? Eccetto che se emerge tra i filibustieri un calabrese, o un siciliano.
Allora paginate.
Si arriva così al “Washington Post”, che fa questa
cronaca dell’affare – in breve e in ritardo, ma in prima pagina:
“La criminalità
organizzata era nel business multimiliardario del calcio italiano prima dei
fondi americani e degli stati del Golfo Persico”.
“I gruppi di
tifosi in Italia conosciuti come «ultras» sono allo stesso tempo un’identità
politica, un business e la parte più rumorosa di uno stadio. I loro
leader sono diventati importanti intermediari di potere, capitalizzando la
quasi religiosità che circonda le squadre più famose d’Italia. Alcuni ultras
hanno forgiato connessioni con l’élite politica; altri sono diventati
potenti trafficanti di droga.
Bellocco e
Beretta (ultras Inter, n.d.r.) erano diventati figure
influenti nella città più ricca d’Italia, fiorendo nel nesso di ricchezza
lecita e illecita. Ciò che pochi sapevano era che due uomini lavoravano per la
mafia italiana trasformando tutto, dalla vendita di biglietti al business delle
birre, in un flusso di entrate per la criminalità organizzata.
“L’indagine
avrebbe stabilito che anche la leadership ultras dell’altra grande squadra
della città rivale storica dell’Inter, l’AC Milan, lavorava per la mafia.
“Ciò mentre il
calcio italiano si trasformava in un business multimiliardario, attirava
una nuova gamma di interessi finanziari, dagli stati del Golfo Persico ai
finanzieri americani. Si è scoperto che il crimine organizzato era già dentro
il business. Vedendo uno sport inondato di denaro, la mafia è venuta
alla ricerca di un pezzo dell’azione: bagarinaggio, gestione di
concessioni, parcheggi, merchandise. Gli ultras, con la loro influenza di lunga data e le
connessioni nei club, così come la loro reputazione per la violenza, erano il
canale della mafia.
“Anche se i gruppi
criminali non si sono infiltrati negli spogliatoi o hanno compromesso i
risultati, dicono gli investigatori, hanno sviluppato linee di comunicazione
con giocatori, allenatori e altri funzionari della squadra — una sorprendente
collisione dei due mondi.
“La mafia si era
insinuata in altre squadre di alto livello. Nel 2018, gli investigatori
italiani hanno scoperto che i mafiosi si erano infiltrati nel gruppo ultra della Juventus di Torino, un’altra delle squadre più famose d’Europa,
sequestrando grandi quantità di entrate da bagarinaggio”.
Il giovane
Bellocco non è una pedina marginale, in una rete di piccoli-grandi affari di
balordi “organizzati”, in un mondo di coatti esaltati, che vanno alla partita per
menare le mani. Le “curve”, per essere veramente tali e punibili, devono essere
“criminalità organizzata”. Ma organizzata come? Con “cupole”, ordini del giorno,
assemblee, comitati ristretti, tribali, di posse, familiari? Non è
giornalismo esotico di colore - un americano tra le “curve” di Milano. È l’informazione,
l’unica. Ed è il sistema giudiziario-repressivo, i Carabinieri. Finché non
moriva (assassinato, per caso e senza sviluppi, senza vendette), uno di Rosarno
non c’era la notizia, non c’era la mafia delle curve, il pizzo, il riciclaggio di
denaro sporco, i traffici anzi potevano svolgersi in tranquillità.
Si stava meglio
quando si stava peggio
Ci fu bene un periodo, nel
lungo dopoguerra, in cui il Meridione rischiò il “balzo in avanti” verso lo
sviluppo. Fu quello del ventennio 1951-1971. Con una riduzione forte del divario
di reddito Nord-Sud. Nei cinquant’anni successivi il divario è rimasto uguale.
In un quadro generale che, forse non per caso, vede il complesso dell’Italia ferma
negli ultimi trent’anni, dall’avvento della globalizzazione – con tassi di crescita
del’economia dello zero virgola, e redditi reali in perdita vertiginosa di
potere d’acquisto, di valore reale.
Nei venti anni del “miracolo”
meridionale il pil pro capite, ricalcolato oggi a parità di potere d’acquisto,
progredì mediamente del 6,3 per cento l’anno – come il Giappone (la Cina dell’epoca,
la “lepre” mondiale della crescita) negli stessi anni. Contro il 4,9 per cento medio del
Centro-Nord. Un incremento solo in minima parte, lo 0,5 per cento, dipendente dalla
bassa dinamica della popolazione residente -
per effetto della parallela robusta emigrazione dal Sud al Nord (due milioni
e mezzo di trasferimenti si conteggiano).
Fu il ventennio della Cassa
per il Mezzogiorno, benché invisa all’ideologia liberale, e subito poi all’opportunismo
leghista - e in parallelo dell’obbligo fatto per legge agli enti economici pubblici, all’Iri e all’Eni principalmente, e poi all’Enel, di destinare al Sud il 40
per cento degli investimenti. Di un organismo creato da De Gasperi a Ferragosto
dell’anno prima, 10 agosto 1950. Ma non improvvisato.
La Cassa per opere
straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale nasceva su iniziativa
della Svimez, Associazione per lo sviluppo del’Industria nel Mezzgiorno, creata
a fine 1946 dal ministro per l’Industria Rodolfo Morandi, su impulso dell’economista
Pasquale Saraceno, di Donato Menichella, direttore generale della Banca d’Italia,
già direttore generale Iri, e di altri uomini
Iri, Nino Novacco, Francesco Giordano, Giuseppe Cenzato. Sul modello delle
agenzie di sviluppo locale avviate negli Stati Uniti negli anni del “New Deal”
post-recessione.
Paolo Baratta, che della Svimez
è stato a lungo animatore, ne traccia ora un voluminoso rapporto “dall’interno”.
Fu un miracolo. “Un miracolo non di beneficenza” - di opere del regime,
politiche. Il motore del funzionamento furono gli investimenti. Che in Italia passarono
dal 14 al 25 per cento del pil. E al Sud dal 20 al 37 per cento del totale nazionale,
mediamente ogni anno. La quota industriale sulla popolazione attiva al Sud
passò dal 21 al 32 per cento.
In particolare pesarono, oltre
alle opere pubbliche – infrastrutture - della Cassa per il Mezzogiorno, gli investimenti industriali. Specialmente
pubblici, di Eni e Iri, ma anche privati: chimici (Montedison), tessili (Lanerossi,
Rivetti), farmaceutici, agroindustriali, e persino Fiat.
Il Sud è povero perché
è ricco
Si può anche argomentare che il
Sud è vittima, più o meno volenterosa, di Giustino Fortunato. Della triplice
piaga “ereditaria” dell’illustre parlamentare: frane, terremoti e malaria. Tra “il nodo calcareo degli Abruzzi a
settentrione che è tutto un serbatoio da pascolo, e la punta granitica delle
Calabrie che è un vero sfasciume pendulo sul mare”.
Fortunato parlava in polemica
col mito della “naturale” fertilità del Mezzogiorno, e va bene. Però, ci sono più frane in Piemonte,
per esempio, in Liguria, anche in Toscana, e nell’Appennino tosco-emiliano che
al Sud. Né i terremoti sono un’esclusiva di Napoli, la Calabria e la Sicilia. All’Abruzzo
è bastata l’autostrada, e il pendolarismo ferroviario, di Remo Gaspari, per
diventare il fornitore del grande mercato romano, e uscire dal “Sud” – con
scuole, ospedali, restauri urbani, e immigrazione. Dove il Sud è rimasto Sud,
in Calabria e in Sicilia soprattutto? Dove la politica è incapace, quando non
distruttiva. Si vede a occhio nudo in Calabria, dove il reggino, già ricco
all’uscita dalla guerra, si è disastrato con i “boia chi molla”, restando in balia delle
mafie, e di politici di terza o quarta categoria, mentre il cosentino brullo e
povero, amministrato da Giacomo Mancini, è ordinato, pulito, benestante, come
una Toscana.
Ed è pure vero che il bisogno è raro, e limitato –
fatta la tara dell’“industria” dell’assistenza pubblica (del vecchio tipo “una
pensione d’invalidità non si nega a nessuno”). L’emigrazione giovanile è da più
tempo solo professionale - fino a qualche anno fa, ora la demografia ha inaridito
anche questa. E comunque si può vivere bene col poco – da “ricchi”, per il differente
costo della vita, con stipendio pubblico, per quanto da insegnante. E lo “sfasciume
“ è piuttsto verde, e anche coltivato. Dovendo stare agli stereotipi è più vero
quello che fa il meridionale indolente perché non deve faticare per mangiare.
leuzzi@antiit.eu
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