Il dollaro è troppo
forte, va svalutato, o altrimenti…. Il presidente dei consiglieri economici di
Trump, del Council of Economic Advisers, aveva anticipato a novembre l’attuale
strategia dei dazi: un dollaro più debole oppure dazi a tutti. “Storicamente”,
dichiara in apertura dello studio, “gli Stati Uniti hanno perseguito approcci multilaterali
per gli aggiustamenti monetari. Molti analisti credono che non ci sono mezzi
per provocare unilateralmente la svalutazione della moneta, ma questo non è
vero”. E promette, ma senza toni minacciosi: “Descriverò alcune potenziali vie
per una strategia di aggiustamento monetario, multilaterale o unilaterale, e i
mezzi per mitigare effetti collaterali indesiderati”. Mettere dazi su misura a
tutti i partner la prima mossa.
Il debito va ristrutturato
(quello che, incidentalmente, l’Italia non ha fatto prima di aderire all’euro e
ora le costa così tanto caro, la “palla al piede”). E nello stesso tempo va riguadagnata, col rilancio della produzione interna sostituiva di importazioni, con i dazi e la svalutazione del dollaro, la creazione in America di posti di lavoro
qualificati, a reddito elevato – oggi l’occupazione è al massimo, malgrado l’entrata
ogni anno di milioni di immigrati, legali e non, ma molti devono fare due e tre
lavori per sopravvivere.
Lo studio è chiaro, esplicito. Prevede perfino un intervento unilaterale del Tesoro americano, che la legge consentirebbe, un International Emergency Economic Powers Act del 1977. Una legge che conferisce alla presidenza poteri discrezionali anche in materia di “guerre economiche”, fino a una supertassa (“tassa d’uso”) sulle riserve straniere in dollari.
Miran non è un economista
in cattedra. Dottorato a Harvard, ha lavorato nell’industria finanziaria – da ultimo
a lungo, Senior Strategist, nella società di gestione investimenti Hudson Bay
Capital. Ma nella trattazione fa riferimento spesso all’attuale ministro del Tesoro,
il banchiere Scott Bessent, socio di Soros per un quarto di secolo, poi titolare
di una società d’investimenti analoga allo Hudson Bay Capital, il Key Square
Group. Il quale ne ha avallato, e applicato fino ad ora alle lettera, presupposti e misure.
Miran è esplicito: ci
vuole una “versione 21mo secolo di accordo valutario multilaterale”. Analogo all’Accordo
del Plaza del 1985, imposto e ottenuto da Reagan, con beneficio di tutti – segnò
l’avvio della globalizzazione, che in effetti è stata la maggiore rivoluzione
economica da due o tre secoli, dopo quella industriale. In sostanza, una
ristrutturazione del debito lordo statunitense, che è a livelli e viaggia a ritmi
italiani, attorno al 130 per cento del pil. Per il quale paga cifre enormi.
Il “mondo” dovrebbe
vendere i suoi dollari, per rivalutare le proprie monete. Favorendo anche,
indirettamente le esportazioni americane. E\o scambiare i Treasury Bond, i Bot
americani, di cui è goloso, per la stabilità e per gli elevati rendimenti, con obbligazioni dello
stesso Tesoro americano ma a scadenza “secolare” – a lungo termine.
Il “privilegio esorbitante
del dollaro”, denunciato da molti economisti in polemica con Washington dagli
anni 1960, si è trasformato in un handicap. Per l’economia. Specialmente per l’industria
– quindi per il lavoro, l’occupazione qualificata, i redditi. Questo sistema, del
dollaro über alles, “avvantaggia i settori finanziari dell’economia”, ma
danneggia la produzione, e la produttività.
La critica non è nuova. Le
prime risalgono a una quindicina d’anni fa, per esempio di Fred Bergsten, che è
stato vice-ministro del Tesoro di Carter e poi animatore di molte istituzioni
di studi economici internazionali. Del resto, Miran è in linea col “dilemma del
dollaro “ di Triffin, che richiama subito, l’economista americano-belga che
criticava negli ani 1950 gli accordi monetari di Bretton Woods, il sistema dei
cambi fissi, basato sul dollaro: il dollaro, moneta nazionale, non può fare da moneta
mondiale. Per farlo, per essere effettivamente moneta di riserva globale, gli Stati
Uniti devono costantemente indebitarsi. Creare più moneta di quanto ne hanno
bisogno, avere (e finanziare) una bilancia dei pagamenti costantemente in deficit.
Miran lo spiega con un grafico eloquente: pur con oscillazioni, il trend
è netto, si va da un avanzo di 150 miliardi nel 1960 a un disavanzo di 1.200
miliardi nel 2024, con un deterioramento costante nei sessant’anni.
Coi dazi il deprezzamento
sarà automatico? Si può dire che Trump – Miran per lui - vuole rivoluzionare il
dollaro. O almeno indebolirlo.
Con la Cina il discorso americano
è semplice: “La lista degli abusi della Cina sul sistema internazionale del
commercio è lungo e variato, dai sussidi di Stato alle industrie da esportazione
a puri e semplici furti della proprietà intellettuale e ai sabotaggi aziendali”. Rappresaglie? “Poiché gli Stati Uniti sono un
grande bacino di domanda per il mondo, con robusti mercati dei capitali, possono
fare fronte a rappresaglie più facilmente di qualsiasi altra nazione con probabilità
di vincere, come a un game of chicken” – “gioco del pollo”: nella teoria
de giochi chi sa fermarsi immediatamente prima del baratro, avendo accumulato un
tragitto più più lungo dell’avversario. Era una scommessa, il chicken run,
all’origine, nel film “Gioventù Bruciata, 1955. E non è una scommessa semplice –
quasi una “roulette russa”.
Stephen Miran, A User’s
Guide to Restructuring the Global Trading System, Hudson Bay Capital, free
online
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