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Quel parolaio di Joyce
“Per me sta diventando
sempre più difficile, perfino insensato, scrivere in un inglese ufficiale. E la
mia lingua mi sembra sempre più un velo che occorre strappare per pervenire
alle cose (o al Nulla) celate oltre di esso. Grammatica e stile. A me sembrano
diventati inattuali come un costume da bagno vittoriano o l’imperturbabilità di
un vero gentiluomo. Una maschera”.
Scrivendo distesamente al
drammaturgo tedesco per comunicargli il rifiuto (motivato) di tradurre in
inglese il poeta “Ringelnatz” (Hans Böttcher), Beckett si dice anche
disorientato dal linguaggio corrente, dal suo proprio, l’inglese. Per la deriva
“parolaia”. Di cui fa responsabile anche “l’ultima opera di Joyce”
(probabilmente “Finnegans Wake”, che sarà pubblicato due anni dopo ma veniva
scritto dal 1923 e certamente era noto almeno in parte a Beckett): “Una apoteosi della parola”.
Meglio
Gertrude Stein: “Forse i logografi di Gertrude Stein sono più vicini a quanto
ho in mente”. Anche se per caso: “Almeno la tessitura del linguaggio è
diventata porosa”. Anche se, “purtroppo, solo per caso, e in conseguenza di una
tecnica simile a quella di Feininger” (celebrato fotografo americano ani 1930, n.d.r.).
Cercare un rapporto tra i due. “come è di moda”, è insensato. Ma “sulla via che
porta a questa letteratura della non parola, per me tanto desiderabile, qualche
forma di ironia nominalistica può costituire una fase necessaria”.
E
dunque, in fatto di “ironia nominalistica”, Joyce o Stein?
Samuel Beckett ad Axel
Kaun
9 luglio 1937, tumblr, online
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