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domenica 13 aprile 2025

Quel parolaio di Joyce

“Per me sta diventando sempre più difficile, perfino insensato, scrivere in un inglese ufficiale. E la mia lingua mi sembra sempre più un velo che occorre strappare per pervenire alle cose (o al Nulla) celate oltre di esso. Grammatica e stile. A me sembrano diventati inattuali come un costume da bagno vittoriano o l’imperturbabilità di un vero gentiluomo. Una maschera”.
Scrivendo distesamente al drammaturgo tedesco per comunicargli il rifiuto (motivato) di tradurre in inglese il poeta “Ringelnatz” (Hans Böttcher), Beckett si dice anche disorientato dal linguaggio corrente, dal suo proprio, l’inglese. Per la deriva “parolaia”. Di cui fa responsabile anche “l’ultima opera di Joyce” (probabilmente “Finnegans Wake”, che sarà pubblicato due anni dopo ma veniva scritto dal 1923 e certamente era noto almeno in parte a Beckett): “Una apoteosi della parola”.
Meglio Gertrude Stein: “Forse i logografi di Gertrude Stein sono più vicini a quanto ho in mente”. Anche se per caso: “Almeno la tessitura del linguaggio è diventata porosa”. Anche se, “purtroppo, solo per caso, e in conseguenza di una tecnica simile a quella di Feininger” (celebrato fotografo americano ani 1930, n.d.r.). Cercare un rapporto tra i due. “come è di moda”, è insensato. Ma “sulla via che porta a questa letteratura della non parola, per me tanto desiderabile, qualche forma di ironia nominalistica può costituire una fase necessaria”.
E dunque, in fatto di “ironia nominalistica”, Joyce o Stein?
Samuel Beckett ad Axel Kaun
9 luglio 1937, tumblr, online

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