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Roma “divina” – per una filosofia della città
La bellezza è degli insiemi, non
delle singole cose, o componenti. E può essere ricercata (costruita), oppure
casuale. Come è quella della natura. Ma anche di manufatti che se non sono nati
con canoni estetici ne prendono le proprietà, ne hanno gli effetti.
Questa è la “filosofia della città” che Simmel abbozza. Una breve raccolta,
a cura di Federica Corecco e Christian Zürcher: “Roma. Un’analisi estetica”, un
testo pubblicato sul settimanale “Die Zeit” di Vienna nel numero di maggio
1898, è un saggio, la bellezza dell’antico. Completano la compilazione sette
paginette su Firenze, e altrettante su Venezia: due articoli di giornale, del
1906 e del 1907, ma pieni di senso. Andrea Pinotti prova nella corposa
introduzione a dare un filo unitario alle annotazione del turista, facendone un
“filosofo della città”.
Roma, sempre “costruita” per migliaia di anni, “obbedendo unicamente a esigenze
del presente e al gusto o alla moda della propria epoca”, è un “opus
superogationis”, un’opera supererogatoria - con qualche stiracchiamento del
temine teologico: un’opera il cui valore “supera di gran lunga le originarie
intenzioni”. Che erano solo celebrative, si potrebbe osservare, dei vari
trionfi, “monumentali”. Ma con la notazione più pertinentemente teologica:
“Allo stesso modo le azioni dell’uomo, governate dalla particolarità e
dall’angustia dei loro obiettivi, confluiscono tuttavia nella realizzazione del
piano divino del mondo di cui non sanno nulla”.
Come Roma ci arriva? È una città che si parla. “La città è condizionata dalla
natura collinare del terreno. Quasi ovunque gli edifici si situano in un
rapporto di reciprocità tra alto e basso”, e “si richiamano l’un l'altro”. Con
un senso vivo dell’unità e del diverso - nuovo. Sorprendente: “Dalla
molteplicità esteriore, o persino interiore, verso l’unità interiore”.
Firenze è il luogo “in cui per la prima volta si avvertì che tutta la bellezza
e il significato a cui l’arte aspira si presenta come un’elaborazione della
manifestazione naturale delle cose…. Nei palazzi di Firenze, di tutta la
Toscana, percepiamo l’aspetto esteriore come l’espressione esatta del loro
senso interiore”. Che non è etrusco?
Firenze è anche la continuità: “Il
tempo, qui, non genera una tensione distruttrice tra le cose, come accade con
il tempo reale, ma anzi assomiglia al tempo ideale nel quale vive l’opera d’arte;
il passato, qui, ci appartiene quanto la natura, che è anch’essa eterno presente”.
Il che è, curiosamente, il limite dell’arte: “I limiti interni di Firenze sono
i limiti dell’arte”. Dell’arte rispetto al mondo, alla natura: “La terra di
Firenze non è una terra su cui ci si getta per sentir battere il cuore dell’esistenza
nel suo oscuro calore, nella sua forza informe – come potremmo sentirci nelle
foreste tedesche, in riva al mare e persino in un qualunque giardino fiorito di
un’anonima cittadina di provincia… Non è una terra per noi, in un’epoca in cui
si intende ricominciare tutto da capo… Firenze è la città degli uomini
compiutamente maturi che hanno raggiunto l’essenza della vita o vi hanno
rinunciato e che, per tale possesso o tale rinuncia, vogliono cercare
unicamente la sua forma”.
Venezia è il luogo dell’uniformità. E della mascheratura: “Venezia è la città
dell’artificio…. Tutti a Venezia si muovono come su un palcoscenico: con la
loro operosità, che non produce nulla, o con le loro vuote fantasticherie”. E
subito poi: “Persino il ponte perde qui la sua forza vivificante”.
A Venezia molto è in rapporto a (a
differenza da) Firenze. Una città d’acqua, senza il respiro del tempo, delle
stagioni. Una città di “strette calli” e di “stanze, ambiente chiuso,
circoscritto. Con “l’apparenza di un’intimità e di un’«amabilità» in cui non c’è
traccia dell’anima”.
Di
Roma-meraviglia il filosofo della città non sa che dire di troppo, dando un
senso alle impressioni quotidiane di chi ci vive. Riprende Feuerbach: “Roma
assegna a ciascuno il proprio posto” (ma è Anselm, il pittore, figlio dell’archeologo
e nipote del filosofo, che visse a Roma diciotto anni, dal 1855 al 1873 – e morirà
a Venezia poco dopo, nel 1880). Non nel senso della dispersione, non a escludere
ma a inglobare. Succede con Roma come
con Goethe, come ci identifichiamo con le personalità elevate: ha l’autorevolezza
dei Grandi Personaggi, per cui “ciò che in qualsiasi altro posto risulterebbe
del tutto insignificante acquisisce, in quanto parte costitutiva di Roma, un
senso che trascende di gran lunga il suo significato immediato, quello che le è
proprio «in sé e per sé» In virtù dell’unità per cui Roma fa sì che si fondano
tutti i suoi contenuti”. Una unità di cultura: “Se a Roma non ci si sente soffocare,
ma anzi si ha l’impressione di aver raggiunto l’apice della propria
personalità, questo è certamente un riflesso della spontaneità esasperata dell’uomo
interiore. In nessun altro luogo al mondo un caso felice ha disposto gli
oggetti in modo tanto adeguato al nostro spirito da invitarlo a sviluppare la
forza capace di riunirli in una unità piena, superando così le enormi distanze
della sua immediata datità. Questa è anche la ragione per cui Roma si imprime
in modo tanto indelebile nella nostra memoria”. “In nessun altro” è esagerato,
bisognerebbe avere visto tutto, ma il senso resta.
Georg Simmel, Roma, Firenze, Venezia, Meltemi, pp. 69 € 8
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