venerdì 25 aprile 2025

Problemi di base ragionevoli - 856

spock


Il pensiero è un sogno – il sogno dell’intelligenza?
 
Razionale e non ragionevole?
 
“I modelli, anche i più violenti, sono cavallereschi, la vita non lo è”, Primo Levi?
 
Prendersi cura degli altri fa bene alla salute?
 
“Il reale è altrettanto magico quanto il magico è reale”, E. Jünger?
 
“Per essere felici bisogna credere anzitutto nella possibilità di esserlo”, L. Tolstoj?

spock@antiit.eu

Per una storia (da fare) della Liberazione

La verità della pubblicazione arriva a metà volume, al saggio dello storico Ranzato, “Da Roma al Nord”. Roma è l’unica città che non insorge, contro l’occupazione nazifascista. Come sancito dalla prima “Storia della Resistenza italiana”, quella do Battaglia: “La capitale resta l’unica grande città italiana in cui la Resistenza non abbia coronato i suoi sacrifici raggiungendo l’obiettivo dell’insurrezione”. Ma non era stata la prima grande città ad essere liberata per il decorso “normale” della guerra, l’avanzata degi Alleati e il ritiro dei nazifascisti?
“La deplorazione”, può dire Ranzato, “aveva un’assoluta inconsistenza, poiché non teneva conto della grande sfasatura temporale tra gli eventi che si comparavano”. E cioè: “Le insurrezioni delle grandi città del Nord avvennero undici mesi dopo la liberazione di Roma… Nel giugno del 1944  in nessuna di quella città sarebbe stato possibile sollevare il popolo”.
I nazifascisti lasciavano Roma in perfetto assetto di guerra, per ripiegamento, non per disfatta. Ranzato lo racconta con la testimonianza del generale Cadorna - che avrebbe preso il comando del Corpo Volontari della Libertà: la ritirata era di “uomini perfettamente equipaggiati e ordinati che non davano l’impressione della disfatta… A sera sul viale del Re (viale Trastevere, n.d.r.) muoveva una colonna di grossi carri armati: procedeva tra due fitte ali di popolo silenzioso”.
Ma è anche vero che l’assessore alla Cultura del Campidoglio, Massimiliano Smeriglio,  può rivendicare: “La Resistenza italiana inizia a Roma l’8 settembre del 1943, quando i granatieri del battaglione «Sassari» dell’Esercito, lasciati senza ordini, scelgono di combattere, uniti alla popolazione che accorre dai quartieri limitrofi – Testaccio, Garbatella, Ostiense – per tentare di respingere l’esercito tedesco… che entrava in città”.
L’Italia libera ricomincerà da Roma, già prima del 25 aprile.
Una storia della Liberazione ancora da scrivere.
Ottavio Ragone-Conchita Sannino (a cura di), Roma libera. Capitale della rinascita, “la Repubblica”, pp. 163, ill., gratuito in edicola

giovedì 24 aprile 2025

Letture - 576

letterautore

Digressione – È la fuga in musica? Dà aria alla narrazione, argomenta Gioacchino Lanza Tomasi, in una pagina di “Lampedusa e la Spagna”, pp. 51-52, che da musicologo apparenta alla fuga: “In musica la costruzione della fuga si articola nel rapporto fra la sezione libera del divertimento e la riesposizione in contrappunto obbligato di soggetto e controsoggetto”.
 
Don Chisciotte – È il “romanzo di formazione” di Montaigne? È la lettura che Gioacchino Lanza Tomasi, ispanista per nascita (la madre era una nobile spagnola), ne fa in “Lampedusa e la Spagna”, attribuendola all’autore del “Gattopardo”: “Aveva capito che le avventure di don Alonso Quijano erano l’origine di Montaigne”. Ma non dice come.
Sempre attribuendo la scoperta a Tomasi di Lampedusa, Lanza Tomasi ne fa anche un pilastro della futura narrativa europea – “il modello da cui Henry Fielding prende le mosse per superare la forma del romanzo epistolare”. Nonché l’inventore della “digressione” – “senza la quale l’argomento principale risulterebbe oppressivo”.
 
Italia - “Nato nelle Serre calabresi, il nome Italia finì a Milano, per poi tornare anche da noi, ma ufficialmente solo dopo il 1860”, Ulderico Nisticò, “Controstoria delle Calabrie”, 200.
 
Italiano – Si penserebbe sia la koiné,la lingua comune, nelle squadre di calcio, che è uno sport collettivo e quindi ha bisogno di una lingua condivisa, anche se ormai – o tanto più che – la regola per molti undicesimi la presenza di giocatori di diversa provenienza e lingua. E invece no. Cazzullo può scriver e nella posta del “Corriere della sera” che alcuni hanno imparato in fretta e altri mai: “Appena arrivarono alla Juve, Boniek e Platini impararono subito la nostra lingua, e vinsero tutto…. De Ligt parlava italiano dopo cinque minuti di Juventus, mentre dopo tre anni e mezzo di Inter Denzel Dumfries continua a esprimersi in inglese. Lukaku, invece, otto lingue, parla l’italiano benissimo: «Devo poter dire al compagno dove voglio la palla». Kvara e Osimhen l’italiano a Napoli non l’hanno ma imparato; il belga Mertens e il coreano Kim padroneggiavano il dialetto”.
E degli italiani fuori? Trapattoni in Germania, allenatore del Bayern, non imparò nulla. I tanti tedeschi in Italia invece imparavano presto. Bierhoff aveva perfino un italiano elegante. Cristiano Ronaldo in tre anni non ha imparato una parola.
 
Lampedusa – Fu militare nelle due guerre, spiega Gioacchino Lanza Tomasi in “Lampedusa e la Spagna”. Nel ‘15-‘18 sottotenente di artiglieria – come Gadda, che però si congedò capitano. Finito nella rotta di Caporetto, fu fatto prigioniero – come Gadda su altra parte del fronte - dai soldati bosniaci e confinato nel campo di Szombathely. Richiamato nel 1939, fece tre mesi a Poggioreale, “un tugurio”.
 
Roberto Bazlen la lettura del “Gattopardo” lasciò perplesso. Salvatore Silvano Nigro riprende la “scheda di lettura” che inviò a Sergi Solmi, Einaudi, il 7 maggio del 1959 - quindi sei mesi dopo  la pubblicazione del romanzo per la cura di Giorgio Bassani da Feltrinelli il 25 ottobre 1958, e il successo istantaneo per passaparola (si studiava una riedizione, un passaggio di editore?): “Non è un gran che; comunque la pagina più brutta vale tutti i «gettoni»… Riassumendo, un buon technicolor da e per gente per bene”.
I Gettoni erano la collana di novità che Vittorini dirigeva per Einaudi, che pure aveva pubblicato testi e nomi poi illustri.
 
Luoghi “Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”, Antonio Tabucchi, “Viaggi e altri viaggi”.
 
Malaparte – “Demi-monde….un parvenu di regime che s’aggirava in un salotto con un cappello piumato”, nel giudizio di Tomasi di Lampedusa, secondo Gioacchino Lanza Tomasi – come riportato da Salvatore Silvano Nigro nella nota a Gioacchino Lanza Tomasi, “Lampedusa e la Spagna”.
Di suo, Lanza Tomasi scrive, a proposito della biblioteca dell’autore del “Gattopardo” – in un italiano un po’ zoppicante (refusi?): stimava Moravia, aveva apprezzato Morante, “Menzogna e sortilegio”, aveva letto Papini, “a cui aveva riservato il giudizio contrario, ma anche Longanesi e qualche libri (sic!) di  Malaparte. Su quest’ultimo rammento una sua osservazione classista, non in senso marxiano ma nel contesto di una classe dirigente antica rispetto alla classe dirigente nuova”. Reticente?
 
Menzogna – È la verità odierna? Questo sito lo argomentava recensendo il vecchio saggio di Alexandre Koyré, “Sulla menzogna politica”. Starnone lo spiega al “New Yorker”, nella intervista che accompagna la pubblicazione sulla stessa rivista del racconto “Tortoiseshell”, con cui ha voluto accompagnare l’uscita in America del suo ultimo romanzo, “L’uomo al mare” (“sono i due soli testi miei che fanno riferimento esplicito a Hemingway, ho pensato che era carino se si traducevano entrambi”). Appaiando bugie e storytelling, la forma odierna di espressione.
Il racconto è di “un tipo particolare di bugiardo”, spiega, “uno che mente per il piacere di mentire”. Costruito sulla scoperta che “Cat in the Rain”, gatto nella pioggia, uno dei “49 racconti” di Hemingway, era stato tradotto erroneamente sul fatto principale, la natura del gatto di cui viene fatto dono a una signora americana in albergo. La lettura, ammirata, era del 1961, il racconto, dopo la scoperta della mistraduzione, ha poi preso dieci anni, tra 2003 e 20123. “Forse”, si spiega Starnone, “influenzato anche dall’attuale generale tendenza a sostituire espressioni come «il mio punto di vista», «la mia versione degli eventi», «la mia ipotesi», «la mia teoria», «le mie fantasie», e «le mie bugie» con «la mia narrativa». Oggi tutto è genericamente detto una «narrativa», perfino, a torto o a ragione, la scienza e le matematiche”. La favola, o la bugia, alla realtà dei fatti.
Nel racconto di Hemingway, “Gatto sotto la pioggia”, nella prima traduzione, di Giuseppe Trevisani, alla donna che non trova più il gatto che voleva prendere, viene regalato un gatto di maiolica. È la rivelazione, la forza della scrittura, il giovane Starnone parte in volata – così dice. Se non che Hemingway – che lui peraltro non ama - non ha scritto questo, ha scritto “a big tortoiseshell cat”, un gatto che viene ritradotto “tartarugato vivo”. E questo un po’ lo sconvolge, essere partito di carriera su una “errore di traduzione”. Ma decide che a lui piace di più l’“originale”, l’errore, che del gatto tartarugato non gli interessa. 
In effetti il gatto “tartarugato”,
tortie in America e nel racconto, esiste, è una specie anche popolare, a giudicare dai social.
Ne “I quarantanove racconti”, il “Gatto sotto la pioggia”, prende poche pagine – un alito curiosamente di malinconia (curiosamente per un Hemingway ancora giovane). Una gentildonna americana in viaggio in Italia col marito un giorno di pioggia vede dalla stanza d’albergo un gatto gocciolante ripararsi sotto un tavolino sul marciapiedi. Scende per prenderlo, ma il gatto non c’è più. Una cameriera sollecita inviata dal direttore dell’albergo con l’ombrello accompagna dentro la signora, un po’ allarmata dal “gatto sotto la pioggia”. In camera lei si dice scontenta malgrado la vacanza. Ha capelli corti da maschietto e non ha più voglia di fare l’efebo. Vuole lasciarseli crescere, prendere un’aria femminile, prosperosa, e avere un gatto per farci le fusa. Il marito ascolta muto e assente distratto, finché non bussano. È la cameriera, che porta alla signora un dono del direttore, un gatto - in terracotta? tartarugato?
 
Nureyev – Misogino lo dice Enzo Palo Turchi, che lo ha incontrato spesso, in amicizia. “A cena mi colpiva che ignorasse completamene le donne.”, spiega in un’intervista. “Per dire: se nella nostra tavolata ce n’erano quattro, a loro non rivolgeva la parola”.
 
Refusi – “Stampato in Francia dalla libraia Sylvia Beach, composto da tipografi francesi su un manoscritto approntato da dattilografe francesi, annotato con una calligrafia pressoché illeggibile, la prima e bellissima edizione dell’Ulisse era un dòmino di trasformazioni, un paradossale gioco linguistico, con quasi cinquemila errori, sette per pagina, la maggior parte dei quali sono ora parte dell’opera” - Leonardo G. Luccone, “Anche i refusi sono letterari” (“Robinson” 20 aprile).
Dòmino o domino? Gioco di carte o mantello con cappuccio di carnevale a Venezia?
 
letterautore@antiit.eu

Papa Francesco si racconta

Papa Bergoglio si spiega, come al suo solito molto faceto. In castigliano rioplatense, come a lui più naturale. Wenders, che ha preparato il film lungamente, è la voce narrante, in italiano (ma il film narra anche in tedesco e in inglese). Intervalla quella che si suppone essere stata un’intervista (papa Francesco è sempre in primo piano, seduto, sorridente, con la stessa espressione divertita, giovanile, spontanea) con scene e interventi in occasioni pubbliche. Soprattutto dei tanti viaggi del pontefice, in Africa, America Latina, Medio Oriente, perfino al Congresso degli Stati Uniti. E nelle conferenze stampa in aereo.
Un documentario, ma il papa non lo fa pesare. Sembra un attore nato, dalle mile espressioni pur con la camera fissa.
Il festival di Cannes lo ha presentato fuori concorso, nel 2018.
Wim Wenders, Papa Francesco – Un uomo di parola, Sky Cinema, Now

 

mercoledì 23 aprile 2025

Ombre - 771

Putin avrebbe volto essere a Roma per i funerali del papa? Probabile, anche se solo per incontrare Trump, rubare la scena a Zelensky. Ma Piantedosi avrebbe dovuto farlo arrestare – un altro caso Al Masri. Questa Corte Penale Internazionale, che è inutile a fini digiustizia, è un grosso impiccio.
 
Papa Francesco sarà stato il papa più citato al mondo. Per via delle interviste, telefonate, conferenze stampa, social, frasi celebri e a effetto. Più che per la dottrina – le encicliche ripetono, magnificandoli anche, concetti tradizionali, compresa l’enciclica verde. Una settantina delle interviste sono state lunghe e meditate abbastanza da essere pubblicate in libro - la statistica è di Luis Eduard López Badilla, un marianista messicano, per suo conto autore di una quarantina di libri.
 
È stato anche il papa più mediatico, ufficialmente e informalmente. Specie nei viaggi internazionali. All’andata usando fare la conoscenza dei giornalisti al seguito uno a uno, andandoli a trovare seduti in cabina, lui in piedi nel corridoio, malgrado i mali di schiena. Al ritorno improvvisando una conferenza stampa, con domande all’impronta, e risposte che mai mancavano di sorprese. Protagonista anche di dieci film in undici anni, con la sua partecipazione attiva, specie in quello di Wenders, 2018, Papa Francesco - un uomo di parola (Pope Francis - a man of his words), e di una serie Netflix.
 
Sibillina viene detta la risposta di Unicredit all’uso che Giorgetti ha fatto del “golden power”,  sull’Ops Bpm. Ma che rispondere? La “golden share” fu introdotta a protezione dalle scalate delle grandi aziende pubbliche, Eni, Enel, etc, che andavano sul mercato. Nel 2012 l’onnilegista Monti la trasformò in “golden power”, un sovraestensione della “golden share” ma con limiti: la “minaccia di grave pregiudizio” per gli interessi pubblici viene valutata dal Governo tenendo conto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza. Che ha di ragionevole un ministro che assoggetta al suo giudizio – personale, ministeriale – l’attività di un (grande) soggetto economico?
Il “vaffanculo” è approdato in Parlamento, ma fra banchieri, in affari, non ha senso.
 
Il “golden power “ di Giorgetti è un abuso di potere e anche incostituzionale. Ma l’attività non può fermarsi in attesa dei tribunali. Si capisce che la risposta di Unicredit sia una non-risposta. O non il segnale che lunedì l’Ops potrebbe non partire? Diretto ad Agricole, il maggiore azionista di Bpm che nelle more dell’Ops ha raddoppiato la quota. Pregustandosi socio ben remunerato di Unicredit - nonché beneficiario dei “ritagli”, gli sportali in eccesso per ragioni di antitrust, con i quali Agricole è cresciuto in Italia.
Altrimenti avremmo un “golden power” a favore di una banca straniera. Con la Lega tutto è possibile, ma ci sono limiti.  
 
Osceno invece che sibillino il silenzio sull’oscena Ops di Mps su Mediobanca-Generali. Della pulce che schiaccia l’elefante – una pulce reduce dalla rovina di 50-60 mila piccoli azionisti. Silenzio sulla Lega che si fa una banca, e che banca.
 
Dal “discorso di Monaco” (una lezione sulla democrazia, agli europei) alla visita in Vaticano da buon cattolico, l’Italia scopre Vance. Che si era tutto detto dieci anni in un libro che fu best—seller in America per molti mesi. Ma che nessuno, nemmeno Rampini per dire, ha letto. Dove racconta il mondo da cui poi è uscito (e da cui è stato eletto?). Di una democrazia che è una conquista sempre futura.
 
Per la visita a Roma di Vance e famiglia la città scopre che le famiglie non possono accedere all’Orto Botanico: è chiuso in modo tale che non un passeggino non vi passa in nessun modo. È l’unico giardino di Trastevere, che però la Sapienza – o Roma 1 – da alcuni anni si è chiuso, per farsi pagare il biglietto. Per il mantenimento delle preziose piante. Che però, viste dall’alto, dal Gianicolo, sono malandatissime - a stento se si ripulisce stagionalmente il sottobosco.
La Repubblica, che va per gli ottant’anni, non ha piantato un albero – giusto quelli che Fanfani piantò personalmente, con la vanga.
 
È più ridicola la furbata di mettere il Ponte sullo Stretto tra le spese della difesa, per farlo fuori bilancio, oppure lo sono questi bilanci fatti coi trucchi?
 
Nella conferenza stampa al caminetto congiunta con Meloni, Trump ha potuto dire che “in molti Stati la benzina costa meno di due dollari”, intendendo al gallone, un po’ meno di quattro litri. In Italia costa due dollari al litro. Gli Stati Uniti sono proprio un altro mondo.           
 
Solo “La Gazzetta dello Sport” vende più copie di un ano fa, un paio di migliaia. Tutti gli altri quotidiani vendono di medo. Meno 10 mila copie il “Corriere della sera”, meno 7 mila “la Repubblica”, “la Stampa”, meno 6 mila il “Resto del Carlino- QN”, meno 4 mila “Il Messaggero”, “La Nazione”, etc. Ma è anche vero che, comprando il giornale, uno si chiede: perché?
 
Appena Meloni ha ricevuto un invito dalla Casa Bianca, Macron si è precipitato a Washington, senza un motivo e senza un risultato. E questa è l’Europa.
 
Proporre la celebrazione della vittoria sul nazismo in Ucraina invece che in Russia è una provocazione storica, ovvio – doppiamente tale perché innecessaria. Gli ucraini hanno combattuto più – e più volentieri – con i tedeschi che con i russi nella guerra. Erano ucraini, abili e applicati, lo spauracchio dei giovani resistenti veneti nei racconti molteplici che ne sono stai fatti. C’erano più neonazisti in Ucraina, e più rumorosi, prima della guerra, che neofascisti in Italia.
Kallas o chi per lei lo ha proposto dice tutto del rischio che l’Europa corre, al carro delle beghe tribali tra slavi – con i baltici pendenti tra Germania e Russia.
 
“Il 22 per cento dei contribuenti paga il 64 per cento dell’Irpef”. S’intende l’uguaglianza come il perno della democrazia, uno dei perni. Ma il fisco è per definizione ingiusto, “ineguale”. Proprio il fisco del partito dell’uguaglianza. Legalmente ingiusto, beffa suprema.
Senza dire che gli stessi che non sfuggono all’Ipef non sfuggono nemmeno alle tante “patrimonialine” collegate all’Irpef. Pagare l’imposta sul reddito è come proclamarsi di classe eletta, quindi da sanzionare “democraticamente”. Poi di dice Trump, le destre, il populismo.
 
“Il piano di Londra e Parigi per garantire la pace: 30 mila soldati senza mandato a combattere”. Dei vigili urbani. Tanto rumore per nulla? No, è il modo di essere di Macron – allontana i cattivi pensieri, come p. es. governare.
E questa è tutta l’Europa, dell’“ammuìna” – “faciti ‘a faccia feroci/ cchiù feroci ancora”.
 
“Così tramonta il ruolo guida degli Usa”: il “Corriere della sera” scova un Mohammed El-Erian, economista a Cambridge, per smontare quello che è sotto gli occhi di tutti: che Trump (l’America) ha aperto la partita con la Cina, e che non può non vincerla.
Il “Corriere della sera” che tifa Cina?

Non c’è chiesa senza Roma

La chiesa può essere acefala? Senza l’Auctoritas papale? È successo con l’ortodossia. Che però si è poi frammentata e si frammenta. E sempre i frammenti si danno un’Autorità, per quanto minima – senza contare che la più grande, quella russa, si vuole la Terza Roma.
Quanto al governo sinodale, evocato da papa Francesco, è la cosiddetta “chiesa tedesca” oggi, peraltro divisa tra sinistra e destra. Come già il gallicanesimo, peraltro braccio secolare dello Stato, per quanto non massonico.
Nell’Indocina ancora francese - ma fino poi alla guerra del Vietnam, ogni vescovo in pratica aveva la sua chiesa (la cosa si può leggere nelle corrispondenze di guerra di Graham Greene, e in alcuni dei suoi racconti).

Lampedusa visto da vicino

La storia, l’evocazione, di un’assenza: Lampedusa e la Spagna non hanno rapporto. Memorie grate piuttosto della famiglia, quella di nascita, dei Lanza, e quella acquisita, con la tardiva adozione da parte dell’autore del “Gattopardo”. Soprattuto della madre di Gioacchino, molto spagnola, Conchita Ramírez de Villa Urrutia y Camacho, contessa di Assaro. La Spagna di Tomasi di Lampedusa è il suo tentativo, poco convinto o applicato, di avvicarsi alle lettere ispaniche – anche per valorizzare il contributo del giovane Gioacchino, cresciuto bilingue.
Con aneddoti e aperçus dell’autore del “Gattopardo”. Non tanto di eccentricità, abitudini, gusti - a parte il pellegrinaggio mattutino tra i quattro caffè della via Ruggero Settimo, per conversare con i soliti amici, lo storico Gaetano Falzone, il magistrato Enrico Merlo, e Virgilio Titone, l’autore di “Sicilia spagnola”, ricerca seminale (che l’autore dice “veterinario di professione”: Titone non era uno storico, in cattedra?). Soprattutto dell’autore del “Gattopardo” è il racconto dell’intelligenza letteraria: “Quattro anni vicino a Lampedusa hanno lasciato in me una traccia indelebile”, di gusto e di capacità di lettura.
Un volume costruito alla vigilia della morte, con l’ausilio di Alejandro Luque, sulla base di una conferenza che Gioacchino ha tenuto a Siviglia nel 2008, invitato dalla Fundaciòn Tres Culturas andalusa a un convegno sulla Sicilia. Che forse avrebbe avuto bisogno di qualche correzione.
Il racconto è disteso anche sui cugini Piccolo - che anche Gioacchino ebbe modo di frequentare dopo l’adozione. In particolare su Lucio, il poeta: conoscitore universale di poesia, in ogni lingua, fine persuasivo dicitore, persino in farsì, di cui non sapeva la pronuncia. Con poche ma eloquenti notazioni su Palermo. Marginalmente anche su “Licy”, la straordinaria moglie, estone e psicoanalista, di Tomasi. E su Alice Barbi, già regina delle scene musicali, cantante di Lieder, ultima fiamma di Brahms, la straordinaria madre di Licy, la suocera di Tomasi – che non amava tanto.
Gioacchino Lanza Tomasi, Lampedusa e la Spagna, Sellerio, pp.121, ill. € 14

martedì 22 aprile 2025

Quante brecce aperte da Francesco nella chiesa

Veritiero – involontariamente? – il titolo del “Manifesto”: “Addio a Francesco, il papa che ha smosso le mura della Chiesa”. Altrove molto cordoglio, con dozzine di articolesse, si cavalca l’emozione per la morte del papa. “Il Manifesto” invece coglie, se non un lascito di rovine, un terremoto nella chiesa di Roma.
Il papa “venuto dalla fine del mondo” è stato molto presente, si può dire quotidianamente, su tutti i canali di comunicazione, su tutti gli argomenti. Ma senza autorevolezza, a parte la simpatia – per scelta forse, forse per temperamento. Molto distruggendo, poco o niente costruendo in sostituzione. In particolare per il suo stesso ruolo, di pontefice massimo.
Voleva forse confondersi col gregge, sul principio dell’uno vale uno. Ma ha svuotato, involgarito, con ciò stesso, seppure non formalmente, l’Autorità papale. Il processo decisionale che fa l’Auctoritas del papa, e la specificità della Chiesa - come riconosciuto e illustrato da Alessandro Passerin d’Entrèves, e con lui da Hannah Arendt.
Si sa – non si dice ma si dovrebbe sapere – che la democrazia moderna è quella della chiesa di Roma. Della monarchia costituzionale, elettiva. La chiesa ha perpetuato le procedure del diritto romano, ma ha dato loro sostanza democratica, con la cooptazione dal basso (oggi: mobilità sociale). E autorevolezza sulla base della decisione collegiale. Con delega all’Unus, l’imperatore, il capo, il papa – il governante. Che se ne avvale non per spregiare – distruggere – l’Auctoritas: il papa è un ispiratore e un condottiero, non un sfasciachiese. Piazza San Pietro fremente in attesa di un segno del papa, una parola, una benedizione, un “bagno di folla”, non è un colosseo: le persone, fedeli e non, hanno bisogno di ispirazione, di fede.  

Fino a quando la chiesa sarà romana

Roma, l’Italia, danno per scontato che la chiesa sia romana, e parli italiano – privilegi immensi, altro che il made in Italy, di cui non si ha nemmeno la percezione (l’Italia è un Paese sconosciuto a se stesso: l’unificazione, laica, massonica, della “borghesia della manomorta”, profittatrice, che ha costretto tre quarti del paese al “non possumus”, le ha tarpato la fantasia). L’impegno è stato mantenuto dai tre ultimi papi, stranieri, con il collegio cardinalizio di papa Bergoglio l’Italia è entrata in orbita remota. Il Vaticano sta sempre a Roma, San Pietro e Michelangelo non volano, ma il papa ne è sempre più lontano – Woytiła si faceva obbligo ogni domenica, vescovo di Roma, di visitare una parrocchia romana, Francesco mai.
Il patriarcato di Venezia e la chiesa ambrosiana hanno perduto con Francesco, di proposito e non per caso, il titolo al cardinalato. Mentre lo hanno acquisito decine di sconosciuti, a capo di chiese piccole e minime.
C’entra nell’intiepidimento delle radici romane della chiesa l’umoralità del papa argentino – parlava benissimo il dialetto piemontese dei suoi genitori, ma non ha imparato mai l’italiano. Ma la cosa è anche nei fatti, se la chiesa deve decentrarsi, o comunque indebolire la curia, e il papa di Roma si avvia ad essere uno tra gli altri – una specie di presidente svizzero, seppure a vita (o fino a che non sarà a termine).

Francesco e n’è andato e sconcertati ci ha lasciati

Tre ore di un dibattito sempre serrato, ben condotto (senza sovrapposizioni) e sempre interessante. Celebrativo, in morte del pontefice. Ma, malgrado l’emozione del momento, con percebili riserve in tutti gli otto commentatori in studio, con l’eccezione di padre Spadaro, coautore di molte opere del pontefice - dallo sguardo però perplesso. Anche da parte di giornalisti (Massimo Franco, Ignazio Ingrao, Carlo Musso, il biografo) o di religiosi (padre Fortunato, mons. Paglia) che con papa Francesco hanno avuto frequentazioni importanti e collaborazioni. Nonché di Andrea Riccardi, lo storico che ha fondato la Comunità di Sant’Egidio. E del novantenne woytiliano Svidercoschi, che Vespa e la regia hanno ostracizzato, a tratti irridente.
Si concorda che papa Bergoglio è stato scelto dal conclave perché anti-curia – venendo dopo Benedetto XVI, che della curia si ritiene stritolato. E perché “popolare” o “di borgata” ma “anticomunista”: oppositore polemico della “teologia della liberazione" - per questo votato da tutti gli americani, anche del Nord. Un “peronista”, in termini argentini, ciò che oggi si direbbe un populista.
A più ondate se ne ricorda la simpatia. Ma anche la modestia esibita, l’individualismo, esacerbato dalla diffidenza e dalle decisioni brusche, l’improvvisazione, a volte molesta e anche sconcertante: sull’omosessualità (“frociaggine”), sulla curia romana, sulle stesse sue riforme – il sinodo dei vescovi, convocato a Roma un anno e mezzo fa, che doveva ribaltare la gestione della chiesa, non più gerarchica (patriarcale) ma democratica, non fu mai frequentato da Francesco, non ebbe un indirizzo, non fu richiesto di proposte. Più un demolitore - qualcuno ha evocato Cossiga, nelle vesti di picconatore. Generale lo sgomento per i troppi cardinali, nominati a valanga, sconosciuti per lo più e senza pedigree. Sconosciuti anche tra di loro, poiché  non si sono praticate le Congregazioni dei cardinali. Il che rende il conclave una sorta di roulette – e mina l’autorevolezza del papato.
Bruno Vespa, Francesco: il papa che ha cambiato la chiesa, Rai 1, Raiplay

lunedì 21 aprile 2025

Problemi di base terminali - 855

spock


È buona cosa a fin di bene fare male?
 
“I vecchi usano tutti gli occhiali, ma vedono lontano”, papa Francesco?
 
E ci vedono bene?
 
“Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla”, Leopardi?
 
Ma la vita non è un miracolo?
 
E perché si visitano i cimiteri (se non c’è niente)?

spock@antiit.eu

I tormenti di papa Francesco

“Inno al genio femminile” è il sottotitolo. Con estratti (“pensieri”) di molte scrittrici, alla rinfusa, Austen e Saffo, Arendt e Christie, Dickinson, Edith Stein, Madre Teresa di Calcutta e Maria Montessori, Anna Frank, Santa Caterina da Siena, Virginia Woolf, et al., le considerazioni del papa defunto sull’avvento della donna, auspicato, prossimo. Non una professione di mariologia, come è stato di molti pontefici, ma una sorta di proclama femminista. Sul filo: “Il mondo attende la tua luce. Sei chiamata a splendere, perché tu sei unica”. Ma sul generico, senza entrare nelle questioni femminili, di sessualità, gestazione, ruoli – certamente non dentro la chiesa.
L’ultimo libro di papa Francesco. O forse il penultimo, o terz’ultimo. Amava molto esprimersi, in encicliche sui temi correnti, e in libri, riflessioni, memorie, interviste, incontri, commenti, conferenze stampa improvvisate – su domande cioè all’impronta, non vistate dall’ufficio stampa. E questo della donna nella società è solo uno dei tantissimi temi sensibili toccati da papa Bergoglio nei suoi dodici anni di pontificato. Con esiti sempre problematici: pedofilia dei preti, aborto, omosessualità, chiesa conciliare, progressismo, anche se pauperista e dittatoriale (Cina, Cuba, Venezuela), dialoghi pro forma (molto islam, molto Lutero, niente ebraismo), periferie. Non quelle urbane in questo caso, quelle ecclesiali – compreso il collegio cardinalizio, moltiplicato e avventizio, come a volerne diminuire l’autorevolezza e la compattezza.
Un papa che ha mosso molto le acque, su molti temi. Ridando vivacità alla chiesa, con la sua caratteristica sfida costante ai cattolici su ogni tema, come questo dell’avvento femminile. Sui media - gli effetti ancora non si vedono nella comunità dei credenti. Ma con un senso di durezza da ultimo, nella promessa e la richiesta insistite di pregare, come di un timore o una mancanza, senza la serenità che l’età e la salute comporterebbero.
Papa Francesco, Sei unica, Libreria pienogiorno, pp. 240 € 17

domenica 20 aprile 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (590)

Giuseppe Leuzzi


Le città più trafficate (inquinate, invivibili) d’Italia? Del Sud, naturalmente. In mancanza di meglio, o di più serietà, ci si basa su “un rapporto del 2016” – di chi non si sa. Su sette città con più smog da circolazione automobilistica, cinque sono meridionali. In aggiunta a Milano e Roma naturalmente. In ordine crescente di velenosità: Palermo, Messina, Napoli, Reggio Calabria e Catania (Roma dopo Palermo, Milano prima di Catania). Tutte peraltro città di mare, che respirano.
 
Oggi però “Il Sole 24 Ore” ha una statistica insidiosa – vera, Eurostat: “Nel 2024 l’occupazione in Italia è cresciuta più rapidamente di quella media in Europa, anche in molte aree del Mezzogiorno”. Ma le regioni del Sud sono le peggiori delle 240 censite, escludendo i territori “d’oltremare” (nel caso la Guyiana francese): Campania, Sicilia, Calabria, Puglia, a partire dal fondo.  
La graduatoria non tiene conto del “nero” – il tasso d’occupazione resta in Italia al 62 per cento, contro una media Ue del 70+. Al Sud indubbiamente c’è più “nero” – se non più povertà.
 
Se non c’è mafia non c’è delitto
Le mafie delle “curve” Inter e Milan, traffico di droga, biglietti e posteggi, con assassinii, sono di ordinaria amministrazione nelle cronache giudiziarie, nazionali e milanesi. Uno penserebbe il contrario – tifo calcistico, zone urbane, grandi numeri. Ma non prendono più spazio e attenzione di un caso di stalking dell’ex, di mobbing in azienda, di ordinaria amministrazione in tempi di pace. Non c’è inchiesta giudiziaria più “babba” di questa, pur grave – intercettazioni? connessioni? la politica? Eccetto che se emerge tra i filibustieri un calabrese, o un siciliano. Allora paginate.
Si arriva così al “Washington Post”, che fa questa cronaca dell’affare – in breve e in ritardo, ma in prima pagina:
La criminalità organizzata era nel business multimiliardario del calcio italiano prima dei fondi americani e degli stati del Golfo Persico”.
“I gruppi di tifosi in Italia conosciuti come «ultras» sono allo stesso tempo un’identità politica, un business e la parte più rumorosa di uno stadio. I loro leader sono diventati importanti intermediari di potere, capitalizzando la quasi religiosità che circonda le squadre più famose d’Italia. Alcuni ultras hanno forgiato connessioni con l’élite politica; altri sono diventati potenti trafficanti di droga.
Bellocco e Beretta (ultras Inter, n.d.r.) erano diventati figure influenti nella città più ricca d’Italia, fiorendo nel nesso di ricchezza lecita e illecita. Ciò che pochi sapevano era che due uomini lavoravano per la mafia italiana trasformando tutto, dalla vendita di biglietti al business delle birre, in un flusso di entrate per la criminalità organizzata.
“L’indagine avrebbe stabilito che anche la leadership ultras dell’altra grande squadra della città rivale storica dell’Inter, l’AC Milan, lavorava per la mafia.
“Ciò mentre il calcio italiano si trasformava in un business multimiliardario, attirava una nuova gamma di interessi finanziari, dagli stati del Golfo Persico ai finanzieri americani. Si è scoperto che il crimine organizzato era già dentro il business. Vedendo uno sport inondato di denaro, la mafia è venuta alla ricerca di un pezzo dell’azione: bagarinaggio, gestione di concessioni, parcheggi, merchandise. Gli ultras, con la loro influenza di lunga data e le connessioni nei club, così come la loro reputazione per la violenza, erano il canale della mafia.
“Anche se i gruppi criminali non si sono infiltrati negli spogliatoi o hanno compromesso i risultati, dicono gli investigatori, hanno sviluppato linee di comunicazione con giocatori, allenatori e altri funzionari della squadra — una sorprendente collisione dei due mondi.
“La mafia si era insinuata in altre squadre di alto livello. Nel 2018, gli investigatori italiani hanno scoperto che i mafiosi si erano infiltrati nel gruppo ultra della Juventus di Torino, un’altra delle squadre più famose d’Europa, sequestrando grandi quantità di entrate da bagarinaggio”.
Il giovane Bellocco non è una pedina marginale, in una rete di piccoli-grandi affari di balordi “organizzati”, in un mondo di coatti esaltati, che vanno alla partita per menare le mani. Le “curve”, per essere veramente tali e punibili, devono essere “criminalità organizzata”. Ma organizzata come? Con “cupole”, ordini del giorno, assemblee, comitati ristretti, tribali, di posse, familiari? Non è giornalismo esotico di colore - un americano tra le “curve” di Milano. È l’informazione, l’unica. Ed è il sistema giudiziario-repressivo, i Carabinieri. Finché non moriva (assassinato, per caso e senza sviluppi, senza vendette), uno di Rosarno non c’era la notizia, non c’era la mafia delle curve, il pizzo, il riciclaggio di denaro sporco, i traffici anzi potevano svolgersi in tranquillità.
 
Si stava meglio quando si stava peggio
Ci fu bene un periodo, nel lungo dopoguerra, in cui il Meridione rischiò il “balzo in avanti” verso lo sviluppo. Fu quello del ventennio 1951-1971. Con una riduzione forte del divario di reddito Nord-Sud. Nei cinquant’anni successivi il divario è rimasto uguale. In un quadro generale che, forse non per caso, vede il complesso dell’Italia ferma negli ultimi trent’anni, dall’avvento della globalizzazione – con tassi di crescita del’economia dello zero virgola, e redditi reali in perdita vertiginosa di potere d’acquisto, di valore reale.
Nei venti anni del “miracolo” meridionale il pil pro capite, ricalcolato oggi a parità di potere d’acquisto, progredì mediamente del 6,3 per cento l’anno – come il Giappone (la Cina dell’epoca, la “lepre” mondiale della crescita) negli stessi anni. Contro il 4,9 per cento medio del Centro-Nord. Un incremento solo in minima parte, lo 0,5 per cento, dipendente dalla bassa dinamica della popolazione residente -  per effetto della parallela robusta emigrazione dal Sud al Nord (due milioni e mezzo di trasferimenti si conteggiano).
Fu il ventennio della Cassa per il Mezzogiorno,
 benché invisa all’ideologia liberale, e subito poi all’opportunismo leghista - e in parallelo dell’obbligo fatto per legge agli enti economici pubblici, all’Iri e all’Eni principalmente, e poi all’Enel, di destinare al Sud il 40 per cento degli investimenti. Di un organismo creato da De Gasperi a Ferragosto dell’anno prima, 10 agosto 1950. Ma non improvvisato.

La Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale nasceva su iniziativa della Svimez, Associazione per lo sviluppo del’Industria nel Mezzgiorno, creata a fine 1946 dal ministro per l’Industria Rodolfo Morandi, su impulso dell’economista Pasquale Saraceno, di Donato Menichella, direttore generale della Banca d’Italia, già direttore generale Iri, e di altri  uomini Iri, Nino Novacco, Francesco Giordano, Giuseppe Cenzato. Sul modello delle agenzie di sviluppo locale avviate negli Stati Uniti negli anni del “New Deal” post-recessione.

Paolo Baratta, che della Svimez è stato a lungo animatore, ne traccia ora un voluminoso rapporto “dall’interno”. Fu un miracolo. “Un miracolo non di beneficenza” - di opere del regime, politiche. Il motore del funzionamento furono gli investimenti. Che in Italia passarono dal 14 al 25 per cento del pil. E al Sud dal 20 al 37 per cento del totale nazionale, mediamente ogni anno. La quota industriale sulla popolazione attiva al Sud passò dal 21 al 32 per cento.
In particolare pesarono, oltre alle opere pubbliche – infrastrutture - della Cassa per il Mezzogiorno,  gli investimenti industriali. Specialmente pubblici, di Eni e Iri, ma anche privati: chimici (Montedison), tessili (Lanerossi, Rivetti), farmaceutici, agroindustriali, e persino Fiat.
 
Il Sud è povero perché è ricco
Si può anche argomentare che il Sud è vittima, più o meno volenterosa, di Giustino Fortunato. Della triplice piaga “ereditaria” dell’illustre parlamentare: 
frane, terremoti e malaria. Tra “il nodo calcareo degli Abruzzi a settentrione che è tutto un serbatoio da pascolo, e la punta granitica delle Calabrie che è un vero sfasciume pendulo sul mare”.

Fortunato parlava in polemica col mito della “naturale” fertilità del Mezzogiorno, e  va bene. Però, ci sono più frane in Piemonte, per esempio, in Liguria, anche in Toscana, e nell’Appennino tosco-emiliano che al Sud. Né i terremoti sono un’esclusiva di Napoli, la Calabria e la Sicilia. All’Abruzzo è bastata l’autostrada, e il pendolarismo ferroviario, di Remo Gaspari, per diventare il fornitore del grande mercato romano, e uscire dal “Sud” – con scuole, ospedali, restauri urbani, e immigrazione. Dove il Sud è rimasto Sud, in Calabria e in Sicilia soprattutto? Dove la politica è incapace, quando non distruttiva. Si vede a occhio nudo in Calabria, dove il reggino, già ricco all’uscita dalla guerra, si è disastrato con i “boia chi molla”, restando in balia delle mafie, e di politici di terza o quarta categoria, mentre il cosentino brullo e povero, amministrato da Giacomo Mancini, è ordinato, pulito, benestante, come una Toscana.
Ed è pure vero che il bisogno è raro, e limitato – fatta la tara dell’“industria” dell’assistenza pubblica (del vecchio tipo “una pensione d’invalidità non si nega a nessuno”). L’emigrazione giovanile è da più tempo solo professionale - fino a qualche anno fa, ora la demografia ha inaridito anche questa. E comunque si può vivere bene col poco – da “ricchi”, per il differente costo della vita, con stipendio pubblico, per quanto da insegnante. E lo “sfasciume “ è piuttsto verde, e anche coltivato. Dovendo stare agli stereotipi è più vero quello che fa il meridionale indolente perché non deve faticare per mangiare.  

leuzzi@antiit.eu

La menzogna è un’arma

Si è sempre mentito, “a se stessi e agli altri”. Anche per difendersi: è “l’arma preferita degli inferiori e dei deboli”, e di chi è in pericolo, una formazione segreta, un gruppo di resistenza – “dissimulare ciò che si è, simulare ciò che non si è”.
Un libello contro Hitler e Mussolini, contro il nazismo e il fascismo, regimi totalitari, e un primo abbozzo di classificazione del totalitarismo – prima di Arendt e di Adorno. Una riflessione di ottant’anni fa che sembra scritta ora, in epoca di bugia quasi istituzionale, se non naturale – con l’estensione della propaganda fino ai social, e l’avvento dello storytelling invece della cronaca, o verità delle cose. Sulla menzogna come consustanziale ai regimi totalitari tra le due guerre, attraverso la propaganda – “totalitarismo e menzogna” è il tema, e potrebbe essere il titolo. Oggi però, si direbbe, veicolo “democratico”, attraverso il trucco linguistico dell’uno vale uno.
Sono dunque cento anni che la menzogna fa la politica, l’epoca dei media: la condiziona e la indirizza, moltiplicata e ramificata. “La menzogna è un’arma”. Ma è anche vero che “è soprattutto l’arma del più debole”. Delle donne, degli schiavi, delle società segrete – quindi dei gruppi di resistenza al potere, al totalitarismo (e agli avventuristi no, ai golpisti?)
Una dissertazione breve ma univoca - e quindi apparentemente trasgressiva: la bugia è buona e fa bene. Ma non quando è stata scritta, per una rivista pubblicata nel 1943, negli Stati Uniti, organo di un gruppo di studiosi francesi della resistenza gollista, in fuga dalla Francia occupata.
A cura, e con una esauriente postfazione, di Claudio Tarditi.
Alexandre Koyré, Sulla menzogna politica, Lindau, pp. 69 € 11

sabato 19 aprile 2025

No a Unicredit, Bpm ai francesi – il golden power della Lega

E dunque, come si era detto. Nulla osta con plauso all’acquisto di Mediobanca-Generali da parte di Mps, cioè di Giorgetti e la Lega. Sì ultracondizionato a Unicredit su Bpm. Il fantomatico comitato ministeriale del golden power (ma sono tutti mezze calzette della Lega) ha varato il progetto che si sapeva, del semifallito Mps che si prende per niente (per azioni Mps….) Mediobanca e Generali. Cioè mezza “Milano”, mezzo potere economico. E ha arricchito la corona rendendo Bpm indigesto a Unicredit. Allargando cioè la corona leghista allo stesso Bpm, seppure fuori (per ora) dal perimetro. All’improvviso la Lega ha tre grandi banche e Generali.
La cosa è stata spiegata solo da questo sito, e questo è incomprensibile. Che i media facciano finta di nulla. Ma è un altro problema: che un partito si faccia Stato e s’intrometta così pesantemente negli affari, e che ciò possa avvenire senza controllo, nemmeno di opinione.  
Il consiglio dei ministri di ieri è singolare per altri due punti.
Giorgetti, non trovando altri motivi d’ingerenza in termini di golden power, ha fatto obiettare ai suoi contabili la residua presenza di Unicredit in Russia. Un partito filorusso obietta a una (discreta, residua) presenza di una banca a Mosca, per non perdere del tutto l’avviamento e i crediti in essere.
Salvini e Giorgetti hanno posto, ufficialmente, Unicredit sotto indagine per la presenza nell’azionariato di fondi stranieri, con quote minime. Senza obiettare nulla a Bpm, che è invece controllata da una banca francese, Crédit Agricole - la seconda più grande in Francia, monopolista fuori di Parigi, la quale, proprio nei giorni del controllo del golden power, ha reso imbattibile il controllo di Bpm, salendo al 20 per cento.

Salvini e Giorgetti fanno le scarpe a Meloni

La Lega è approdata all’“abbiamo una banca” in consiglio dei ministri. Nel luogo più aperto e autorevole. Non fa più scandalo, evidentemente, che un partito si faccia una banca. E che banca: col semifallito Mps si compra Mediobanca e Generali, nientedimeno, un quarto o un terzo del risparmio italiano. Un affare ridicolo, tanto è volgare. Ma è la realtà che qualifica il governo Meloni: arrembaggi di pirati e quiescenze da incapienti - nel senso di ingenui o ignoranti. Forza Italia dice che si è opposta. Ma il consiglio è durato pochi minuti: convocato alle 18, un quarto d’ora “accademico”, quattro o cinque decreti da varare, e poi, in “varie ed eventuali”, Unicredit-Bpm, alle 19 c’era la notizia.
La Lega può farsi le banche per un problema di equilibri politici? Dei tre partiti di governo la Lega è quella perdente, alle ultime elezioni (europee e regionali), nei sondaggi, nel gradimento. Perdente anche nelle scelte politiche: contro l’Europa (da sola….), la Francia, la Germania, eccetera, contro l’Ucraina, per la Russia. Imbarazzante in America: Salvini non sapeva nemmeno che il suo referente Bannon, già suo stipendiato (Europee 2019), è ostracizzato dalla destra al governo - il vice-presidente Vance, nonché non invitare Salvini a Washington, come Bannon gli aveva fatto credere, ha evitato anche solo di stringergli la mano a Roma (Salvini è pur sempre un vice-presidente del consiglio, come Vance). Ma con le banche alla Lega la storia sarà diversa.
Viene in mente Craxi. Anche Craxi s’intendeva di affari internazionali, e sapeva muoversi - anche se non parlava inglese, il passepartout di Meloni. Ma finì male e malissimo. Oggi non c’è più il Pci, e neppure il vendicativo Andreotti, col nefasto Borrelli, che s’inventarono le “Mani Pulite”. Ma una fine politica s’intravede netta: Meloni, con tre volte i voti di Salvini, non governerà una sola regione del Triveneto, né la Lombardia, né Milano – le banche sono solo un appetizer. Dopodiché potrà andarsene tranquillamente esule da palazzo Chigi: le banche hanno molto potere, possono anche s
postare voti.

L’antifascismo e le eccellenze togate

In mancanza di altri argomenti, nella pretesa sinistra si torna a rinvigorire l’antifascismo. Specialmente contro il governo. Specialmente per la questione continua dei giudici, a difesa, senza se e senza ma. Senza mai porsi il problema di un ordine istituzionale – quello giudiziario – che non si è defascittizzato. La politica ha fatto da tempo ammenda, compresi i neofascisti propriamente detti. La giustizia no. E non solo per gli ermellini, le inaugurazioni sanzionatorie, e le eccellenze.
E non solo per il vecchio privilegio di poter passare stagionalmente, umoralmente, dal ruolo di pubblico accusatore, legibus solutus, a quello di giudice nel senso proprio, che non necessariamente deve avere una coscienza. Magari solo per una promozione, o per un aumento. Se con nocumento degli affari giudiziari non importa.
Un ordine avulso dalle leggi - specie la Cassazione è molto “irrituale”. Ma non è solo questione di forma. Non ha responsabilità per le condanne errate in punto di diritto. Non materiali, di denaro, a fronte dei risarcimenti che lo Stato deve ai condannati per errore, e non di qualifica (titoli, anzianità, carriere). E pretende di governarsi da sé, non solo al Csm, l’organo costituzionale di autogoverno, ma anche nella funzione amministrativa. In qualità di dirigenti del ministero della Giustizia. E perfino, in questo ministero, delle funzioni di ispezione, sulla Procure e sui Tribunali.
Una autoreferenzialità che si direbbe illegale, prima che anticostituzionale. A opera dei garanti della giustizia.
 

Diabolico Diabolik

Rivisto, il primo della serie quattro anni fa, ha tutta l’aria di restare un film di culto. Due ore e più ma ne vale la pena. Con una regale Miriam Leone “Eva Kant” (quanto rimpicciolita invece come “Miss Fallaci”), un Luca Marinelli “Diabolik” perfino espressivo, anche se solo con gli occhi, e una coorte di “caratteristi” di gran nome, Mastandrea, Serena Rossi, Scalera, Gerini, Daniela Piperno, Roberto Citran.
Manetti Bros, Diabolik, Rai 2, Raiplay

venerdì 18 aprile 2025

Problemi di base storici - 854

spock

La memoria è liberazione, o sottomissione?

 

È incostante?

 

Si può azzerare – si può azzerare?

 

Il passato è sofferenza?

 

“I popoli felici non hanno bisogno di una filosofia della storia”, A. Koyré?

 

“Non ci sono più popoli felici: la storia ci incalza da ogni parte”, id.?


spock@antiit.eu


L'Europa rapita a se stessa

“Come reagire all’eclissi di un’Unione che, di fronte alla guerra in casa, ha preso a camminare rasente ai muri e quasi vergognandosi di esistere?” Un disastro. “Serviva una storia fiabesca, capace di toccare l’anima dei semplici”. E Rumiz vi si è avventurato.
Prima un’escursione pratica, materiale, con un amico “in mare con la vecchia Moya, a vele spiegate fra Asia e Occidente”, nel Mediterraneo, che dell’Europa è padre e madre. Poi una lunga peripezia fantastica, una lunga notte, assonante - “sbadatamente verso mezzanotte,\ un vespaio di versi ho scoperchiato” – un lungo canto “alla dea madre del nostro continente”. Sulle immagini del cadavere nel sacco bianco sbarcato a Santa Maria di Leuca una notte di gennaio, e delle donne siriane a luglio a Porto Empedocle, che fanno ruota, modeste, e un canto intonano, “a bassa voce, un’incantevole nenia d’Oriente”, che “il dolore” fa emergere “della patria perduta e insieme la speranza di un mondo nuovo”.
Alla ricerca-ricostituzione di questo mondo-mito vecchio quattro moderni Argonauti partono, su un velo di leggenda, alla ricerca della Grande Madre Europa. Nel “mare di mezzo”, da cui Giove-Toro la rapì. La ritroveranno, come già succedeva in antico, in una giovane siriana, in fuga dalle guerre fratricide.
Il vecchio mito rigenerato in una favola contemporanea. Di un’Europa smarrita che vaga come i profughi che disperati l’abbordano – la vecchia Europa bagascia Rumiz vuole virginale.
Una celebrazione, per quanto disperata, dell’Europa. Che però, forse, sarà letta in futuro non remoto come un epicedio, quello dei “figli della guerra” che avevano potuto vivere tutta la loro vita in pace. Mai successo prima, nella pure lunga storia dell’umanità. Illudendosi che il mondo fosse cambiato. Salvo scoprire infine che la violenza resta fra noi? Un grido di dolore.
Un grido lungo diecimila versi. Di endecasilabi curati – marcianti, assonanti. La carica onirica spesso sacrificando al grido, alle “tematiche” attuali, polemiche, giornalistiche. Da cronista emerito di tutte le guerre, avendo vissuto la Bosnia (e la Serbia?) prima dell’Ucraina – e come dimenticare Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Berlino, la storia che non si fa?  
Paolo Rumiz, Canto per l’Europa, la Repubblica, pp. 326, il. € 8,90

giovedì 17 aprile 2025

Secondi pensieri - 558

zeulig

Censura – Tradizionale strumento del potere, è diventata, ormai consolidata, da tempo, strumento ideale. A lungo del politicamente corretto o cultura dei diritti, o cultura woke – fino a “Biancaneve” senza i nani. E ora del movimento MAGA , trumpiano, tradizionalista, gerarchico, nel nome della natura o naturalità.

 

Felicità – È l’eden. Il mondo fuori dalla storia – gli eventi, anche naturali, i sensi, i sentimenti, e

quello stranissimo animale del cervello.

 

Idee – Muovono il mondo. Per evidenza storica, prima che per la nota osservazione di Lord Keynes, miglior marxiano di Marx, “sono le idee più che gli interessi a dominare il mondo”. Anche se disinteressate e perfino casuali – incidentali, banali, balzane.

 

Ingannare – È delle donne, oltre che degli schiavi? Sembrerebbe l’assunto di Alexandre Koyré, in una delle prime note al saggio “Sulla menzogna politica”: “Ingannare significa anche umiliare, ciò spiega la menzogna spesso gratuita delle donne e degli schiavi”. Che non è una traduzione imperfetta, è scritto così anche nell’originale. Ma in un senso non può essere che: o mentire è “l’arma preferita degli inferiori e dei deboli”, come Koyré dice più avanti, oppure è l’abito mentale di chi è costretto a difendersi. In ogni caso sempre un assunto problematico.

 

Massa – È un qualificativo – un sostantivo in posizione attributiva, aggettivale – più che un sostantivo. In termini sociopolitici il concetto – la nozione, diversificazione – più semplice e più equivocato, da Ortega y Gasset a Canetti. Per l’uso corrente, nel linguaggio politico, già prima di Marx. Non è il numero che fa la “massa”. Non è la quantità ma la qualità: la massa, l’effetto massa, il prodotto di massa. Nella sua epoca storica d’oro, dei totalitarismi del primo Novecento, chiaramente identificava, più che il numero, la credulità, la dipendenza mentale, l’incapacità di analisi singola, comunque personale anche se poi “di massa”, delle parole ascoltate o lette. Applicabile anche, e forse di più, alle élites sociali – di più rispetto alla messe di numero, per le quali gi interessi materiali, univocamente significanti, è da ritenere possano essere esaustivi o prevalenti.

Analoga la confusione nel secondo dopoguerra, per la letteratura di massa. Per la diffusione della lettura attraverso i tascabili e best-seller. Un fenomeno non nuovo, per la diffusione già nell’Ottocento della letteratura da feuilleton, e in precedenza per il colportage, la letteratura frammentata, in fogli singoli, e diffusa nelle fiere. Qui i due significati peggiorativi venivano sussunti insieme, della grande diffusione e della scarsa qualità (del prodotto o della ricezione). Ma, sociologicamente, sempre lasciando prevalere il fattore numero, invece che la qualità.

Nelle forme di resistenza, mentale o politica più che armata, ai regimi totalitari del Novecento il gran numero spesso – nel regime sovietico, p.es. – è stato soverchiante rispetto al regime totalitario “di massa” – per tutti gli anni di Breznev, e poi con il collasso del regime.

 

Mentire - “Ingannare significa anche umiliare, ciò spiega la menzogna spesso gratuita delle donne e degli schiavi” – A. Koyrè, “Sulla menzogna politica”. Cioè, di chi per abitudine è, è stato, umiliato.

 

Può essere una forma di riconoscimento, fra sodali. Anche in una iniziativa – progetto, avventura, iniziativa, fino alla cospirazione – pubblica, alla luce del sole.

 

È anche una forma di resistenza, accettata. Il coagulante di una fede, religiosa, politica, esoterica. E un mezzo di proselitismo – della cooptazione come elezione: un lasciapassare per entrare a far parte di una comunità scelta, eletta, perfetta.

È un’arma, un mezzo di propaganda e di azione. E testimonianza di fede, fino al martirio – al sacrificio di sé.

 

È tema letterario, da Ulisse al “paradosso del mentitore” (di Epimenide che sostiene “tutti i cretesi sono bugiardi”, essendo egli un cretese), e a Vargas Llosa, “Mentira de príncipe”, sul “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa - anzi di una raccolta  di saggi, “La verdad de las mentiras”, la verità delle menzogne.

 

Parola – Dice ma anche nasconde, si sa. Serve a dire, comunicare, ma anche a eludere e celare. Non necessariamente in senso omissivo, anzi, anche in forma attiva. Se si è parte di una setta, di un gruppo segreto, se si è coinvolti in uno schieramento in guerra, o anche in uno stato sociale diviso, di fatto e di diritto, con padroni e servi. Se è necessario per salvare un innocente minacciato (Kant). Se si vuole minacciare invece che semplicemente comunicare – o anche solo decidere.


Sono più gli esiti negativi che si propongono all’uso della parola di quelli positivi. La parola è un dono? Se addomesticata.

Scienza – Un metodo e una deontologia innaturali – intellettuali. Per approfondire la conoscenza della natura e indirizzarne (modificarne) gli sviluppi. 

La matematica non è naturale, il calcolo (Galileo). La sperimentazione pure (Galileo).

Niente scienza moderna senza una precedente “fitta rete di dottrine magiche e mistiche”, A. Koyré, “Studi galileiani”? Lo stesso Koyré che afferma l’assunto lo nega aprendo la accolta, dove sottolinea la sperimentazione: per Galileo non si trattava “di combattere teorie erronee o insufficienti”, ma di rivoluzionare i quadri dell’intelligenza stessa; di sconvolgere un atteggiamento intellettuale, assai naturale in definitiva, sostituendolo con un altro, che naturale non era”.

Scrittura – Quella d’autore è anche filologia – anche quella dei “franchi narratori”. È come Mondrian dice: “Nessun pittore dipinge un albero perché ha visto un albero, ma perché ha visto come altri pittori hanno dipinti gli alberi”.

Spiritismo. È dottrina e pratica delle epoche razionaliste - propriamente (dichiaratamente) tali: Rinascimento, Illuminismo, Positivismo.

In che misura ne è parte anche Freud, la psicoanalisi nel complesso? Di qualche utilità terapeutica, ma occasionale – autosuggestione?

Storia“La dimensione tipica della storia non è l’universalità, ma la specificità: essa si occupa di situazioni particolari e le analizza adottando un punto di vista”, Ernesto Gali della Loggia, “Ma che storia racconti?”, “La Lettura” 6 aprile.

La memoria è liberazione o sottomissione – una forma di carcerazione? È un sussidio, un ausilio. Ma non si può azzerare.

Resiste, può resistere, alla menzogna. Solo il tradimento modifica il passato.

Tradimento – È contro di sé (autoaffligente), prima che aggressivo. Viene con piena coscienza, e con piena scienza degli eventi, gli atti, i ruoli, di altri ma in primo luogo dei propri.

Si pratica anche per libertinaggio, a fini cioè di piacere. Un tradimento vicendevole, il tradimento fra traditori. Dalla coppia che fa l’amore pensando ognuno ad altro partner, al doppiogiochista, il traditore che porta qualcuno a tradire, e poi lo tradisce.

zeulig@antiit.eu



La seduta sfuggente

Sette pazienti impazienti ottengono finalmente l’agognato appuntamento dal luminare con il quale sono in trattamento. Ma l’illustre psicopompo ha dato loro appuntamento a tutti alla stessa ora. Quando non si fa vedere. Oguno con la sua sindrome finirà per fare, non sapendolo, una terapia di gruppo. Senza coordinatore. Oppure sì, è uno di loro.
Come a dire che l’analisi non serve a niente? No, niente messaggi, è una situazione da film comico.  Con un cast di tutto rispetto: Buy, Lodovini, Mascino, Francesconi, Bisio, Santamaria, Leo Gassmann. Ma non si ride.
Paolo Costella, Una terapia di gruppo, Sky Cinema, Now
 

mercoledì 16 aprile 2025

Le banche alla Lega

Nel sommovimento bancario, l’Ops Unicredit su Bpm, avanzata il 24 novembre, e in partenza fra otto giorni, con documentazione approfondita delle sinergie e la creazione di valore che la fusione consentirebbe, resta soggetta a lento esame della speciale commissione al Tesoro del golden power, composta da non si sa chi, ma per conto del ministro Giorgetti della Lega.
Procede più rapidamente, per il sì e per il no, l’Ops Unicredit su Commerzbank, benché attardata dall’improvvisa crisi politica tedesca: su di essa si sono presto pronunciati l’Antitrust tedesco, senza porre problemi di golden power, la Bce, e perfino il governo nuovo in fase di costituzione a Berlino, non in termini di rigetto a prescindere.
L’Ops Mps su Mediobanca-cum-Generali, lanciata il 24 gennaio, e da chiudere a settembre, il nulla osta dell’ignoto (ma non tanto, sono tutti “professionisti” della Lega) comitato ministeriale l’ha ottenuto all'istante. Una offerta di scambio senza nessun piano tecnico-economico che lo giustifichi, solo di potere politico. È la Lega che si fa una banca. E che banca: col semifallito ex Monte dei Paschi si prende Mediobanca e Generali. Come dire mezza Milano. Coi soldi pubblici: quelli residui del salvataggio Mps, e quelli della necessaria ricapitalizzazione di Mps per poter digerire Mediobanca- Generali.  

Le banche, che saranno mai

Si procede sull’operazione Mps-Mediobanca-cum-Generali, che è solo politica, senza nessuna logica economica senza che nessuno obietti. Senza che nessuno nemmeno lo dica.
Che la cosa resti ignota alle opposizioni si capisce, per un po’ che si sappia di Conte o Schlein, o Landini. Ma neanche Meloni, titta presa a trovare un candidato suo alla Regione Lombardia, sembra capire.
Soprattutto, è assordante il silenzio dei media. Dopo tanto battagliare per il “mercato”. Che pure hanno specialisti in grado di capire cosa si sta facendo. Tutti leghisti? Tutti, di nuovo, statalisti?

Contro i dazi europei, non tariffari

Ci vuole l’autorevolezza di Sabino Cassese, l’esperienza, e la capacità di leggere, a 90 anni, per dire di che si tratta fra Trump e l’Europa, a proposito “dell’azione degli Stati Uniti, un po’ troppo rapidamente definita sovranista” – degli Stati Uniti e non di Trump: “Essa è mossa anche dallo scopo di abbattere barriere non tariffarie (di cui la Ue è maestra, Cassese ha già spiegato, n.d.r.) ed evitare sanzioni di giudici che incidano sull’azione globale di imprese nate in territorio americano. Trump alza le barriere tariffarie anche perché l’Unione Europea abbassi le barriere non tariffarie”.
I “dazi” europei sono le regolamentazioni. Per lo più bislacche, e sempre punitive – anti-industriali. Lamentate peraltro, prima che da Trump, da ogni singolo industriale italiano.

Con allegria - e mini-attori geniali - alla Liberazione

Musiche allegre e un tenente tedesco finalmente umano – come ogni altro. Non sono le sole sorprese della miniserie che ci condurrà alla celebrazioe degli ottant’anni della Liberazione. Di un gruppetto di ragazzini che trafficano con i diversi gruppi armati della Resistenza durante l’occupazione tedesca, sulle montagne piemontesi. Una miniserie tratta dal romanzo omonimo di Andrea Bouchard, ma tagliato e montato con insolita verve. Già la sola distinzione tra Verdi e Rossi (e mancano i Bianchi) è una curiosità totale per uno sceneggiato che si vuole celebrazione della Liberazione.   
Due puntate – e probabilmente la serie – sulle spalle della piccola Anna Losano, espressiva il giusto in ogni situazione, la dizione distinta e piana, i tempi perfetti. Ma tutto il cast è di prim’ordine, David Paryla soprattutto, il tenente buono. Il fratello minore della protagonista, ingegnoso e chiacchierone, Luca Charles Brucini, l’amica del cuore Carlotta Dosi, i nonni Carla Signoris e Bebo Storti.

La Rai moltiplica le produzioni per Millennials, per entrare nelle abitudini mentali delle ultime generazioni - adattando anche programmi vetusti, tipo “Dio ce la mandi buona”. Ma dalle 22 alle 24 – per lasciare più posto possibile allo sconcio “Affari tuoi”? Come a dire: per pensionati mezzo addormentati? E senza nemmeno un briciolo di promozione: tre milioni di spettatori sono niente per un programma di così alta qualità.

Susanna Nicchiarelli, Fuochi d’artificio, Rai 1, Raiplay

martedì 15 aprile 2025

Zelensky come i dazi, l’obiettivo è la Cina

Consegnare Zelensky alla storia (eletto il 21 aprile 2019, è già in proroga da un anno), e ottenere dalla nuova presidenza un’accettazione degli accordi di pace con Mosca – sia pure con riserva, con tutte le riserve possibili. È questo l’obiettivo, secondo la Farnesina, di Trump, che manda avanti da un lato la mediazione con Putin, senza gli ucraini, e dell’Ucraina fa menzione solo per criticare il presidente Zelensky.
Nella prima presidenza Trump aveva aiutato l’Ucraina. Avviando le forniture militari. Sconfitto da Biden, questa l’analisi molto semplice che se ne fa, ha legato l’Ucraina tutta a Biden, l’arcinemico. Per i fatti di corruzione con la “famiglia Biden” (il figlio Hunter), e per il coinvolgimento di Biden, e quindi degli Stati Uniti, nella sfida alla Russia. In un ruolo del tutto passivo.
Procedere a un’elezione presidenziale è complicato. E in tempo di guerra proibitivo – chi si candiderebbe a fare il Pétain, il Quisling? Da qui le pressioni su Zelensky per un “bel gesto”, da statista, con le dimissioni - avendo già capitalizzato ampiamente, in tutte le cancellerie del mondo, il ruolo di eroe e di martire.
In tutte le cancellerie del mondo eccetto Pechino, si fa osservare. Ma per questo tanto più necessaria apparirebbe a Washington una sostituzione rapida di Zelensky, e comunque una pace – o un armistizio, o una tregua: imperativo è slegare la Russia dalla Cina. Che resta l’unico bersaglio di questa presidenza – dazi, cambio, attivi commerciale e dei pagamenti.  Obiettivo un nuovo accordo del Plaza, 1985, quando il Nemico (commerciale, monetario) era il Giappone.


Cronache dell’altro mondo – abortive (33)

Nei primi due anni dopo che la Corte Suprema ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto il numero di aborti praticato annualmente negli Stati Uniti è aumentato. Molti Stati hanno imposto restrizioni dopo la sentenza della Corte Suprema: dodici hano adottato divieti quasi totali, e quattro hanno imposto il limite delle sei settimane. E tuttavia si è registrato un aumento degli aborti: da 930 mila nel 2020 a oltre un milione nel 2023.
La sola spiegazione che si dà è che gli attivisti pro-aborto hanno intensificato l’attività negli Stati dove l’aborto è accessibile. In particolare, sono aumentati gli aborti farmacologici. Autorizzabili ora via telesalute. A dicembre del 2021 la Federal Drug Administration ha eliminato l’obbligo di prescrivere il mifeprestone di persona. Il numero degli studi medici che stabiliscono l’idoneità della paziente online o al telefono, e mandano per email la prescrizione, è proliferato.
(“The New Yorker”)

Il lolitismo al tempo delle serie tv

Un, sano? vecchio, film sul lolitismo, senza mascherature: le ragazzette al liceo si litigano e si accaparrano gli insegnanti. Salvo poi farli penare, per avere ciò che pensavano di avere avuto – per di più sentimentali. Nei due tempi, della seduzione, e poi, ritrovandosi in età matura, dell’ancora vana rincorsa.
Si direbbe un film sul desiderio. Ma solo maschile? O fatto per esaltare – sfruttare – la popolarità di due personaggi di grandi serie tv, Jenna Ortega e Martin Freeman.
Jade Halley Bartlett, Miller’s Girl, Sky Cinema, Now

lunedì 14 aprile 2025

Letture - 575

letterautore


Cacciari
– “Verrà ricordato come l’abate Parini istitutore dele nuove dinastie milanesi”, Michele Masneri sul “Foglio quotidiano” – avendo “laureato in filosofia Lorenzo Prada (figlio di Miuccia, n,.d.), come del resto Barbara Berlusconi”.
 
Cani – Nel 1958, quando ancora non usavano in Italia, i cani portati a passeggio per New York per fare i bisogni sul marciapiedi indignavano Lucia Berlin – “poveri cani”. Tutto bene, scriveva ai suoi amici di sempre, Edward e Helene Dorns, “eccetto che per i cani da compagnia (toy dogs) – barboncini e chihuahua e grossi weimaraner, terribile terribile. Fanno lo schifo per strada, mentre il loro proprietario, non padrone, aspetta. Poveri cani, che umiliazione defecare per strada”.
 
Firenze – “Nei palazzi di Firenze, di tutta la Toscana, percepiamo l’aspetto esteriore come l’espressione esatta del loro senso interiore: alteri, fortificati, essi sono manifestazione altera e sontuosa di un potere che può essere per così dire sentito in ogni singola pietra, ciascuno di essi è rappresentazione di una personalità sicura di sé e responsabile per se stessa” (G. Simmel, “Roma, Firenze, Venezia”, p. 63).
 
Gattopardo – L’ultimo, recente, è stato Berlusconi? Il “gattopardismo” presume “grandi promesse politiche e grandi speranze, da ingannare”, Gabriele Pedullà con Luca Mastrantonio su “7”, “per chi ha sognato la ‘rivoluzione liberalista’ (non io), ed è stato così ingenuo da credere che Berlusconi volesse davvero realizzarla, lui è stato probabilmente l’ultimo leader degno di questo epiteto”.
 
Al  famigerato “perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, l’attore Kim Rossi Stuart, che ha interpretato il “Gattopardo” nella riedizione seriale Netflix, dichiara di preferire, come meno cinica e anzi positiva, un’altra citazione famosa: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.
Una dichiarazione anarchica, contro il “ceto dirigente”? o semplicemente qualunquista?  
 
Francesco Piccolo, che sul romanzo ha costruito uno spettacolo teatrale, “Il Gattopardo. Una storia incredibile”, ora in tournée, ricorda un aspetto trascurato della storia, a proposito di Giorgio Bassani, l’unico direttore editoriale a credere dopo vari giri nel romanzo: “Bassani aveva conosciuto Tomasi: pensava fosse un pazzo, perché lo aveva visto a un convegno a luglio dentro a un cappotto, a un paltò per l’esattezza, perché aveva la giacca lisa e non voleva farla vedere. Tanti anni dopo Bassani riceve un manoscritto che nessuno voleva pubblicare: comincia a leggerlo, pensa sia bellissimo, solo che non sa chi lo abbia scritto. Scopre solo dopo che l’autore è quel matto che ha conosciuto anni prima e che non c’è più”.
 
Italia – “”Gi attori comici da noi vanno presi molto sul serio, vincono i Nobel, fondano partiti di maggioranza relativa”, Aldo Cazzullo, la posta del “Corriere della sera”.
 
Montaigne, che viaggiando non sprecava complimenti, ricorda con ammirazione, del suo viaggio nel 1580: “Ho visto contadini col liuto in mano e persino le pastorelle con l’Ariosto in bocca”.  E: “È curioso vedere come lasciano sul campo dieci e quindici e più giorni il gran segato, senza paura del vicino”.
 
Napoli – Ricordando Roberto De Simone e la “La gatta cenerentola”, Peppe Barra spiega: “È stata una rivoluzione. Gli spettatori non avevano visto fino allora allegorie e culture popolari rese in quel modo, ma negli anni Settanta non si erano nemmeno mai ascoltate villanelle, strambotti, tammurriate”.
 
Miuccia Prada – Ha rasentato anch’essa la filosofia, come poi il figlio Lorenzo (laureato con Cacciari). Lo ricorda Masneri sul “Foglio” celebrando l’acquisizione Prada di Versace. Specialista di Dottrine Politiche alla Statale, si può aggiungere, con un dottorato di ricerca, supervisore  Giorgio Galli, sul Pci. Di cui era militante, animatrice della cellula “Carlo Marx” di Porta Romana, sotto il palazzo di famiglia, rappresentante di zona dell’Unione Donne Italiane”: uno dei suoi primi fashion show, quando cambiò settore d’interesse, lo ha tenuto a Parigi nella sede del Pcf, il partito Comunista francese, un edificio anni 1970 di Oscar Niemeyer - lo stesso architetto, curiosamente, del palazzo Mondadori a Segrate, che poi sarà di Berlusconi (due carriere in parallelo su tutto, Prada e Berlusconi - eccetto la politica, di sinistra e di destra?).
 
Roma – Si protesta in vati quartieri, San Saba, Prati-Delle Vittorie, Ponte Milvio , per “torri” telefoniche di venti e più metri che s’innalzano su alcuni palazzi. Per salvaguardare il decoro e la veduta, le “terrazze di Roma”.
Le antenne sono l’aspetto di Roma che più colpiva Antonio Calbi, futuro direttore del teatro Argentina, l’ex Stabile di Roma, quando ci arrivava da Milano per gestire il teatro Eliseo: “Prendevo il Pendolino e prima di entrare a Termini vedevo i palazzi con una selva di antenne, come capelli sulla testa, una per ogni appartamento, e mi chiedevo come mai l’idea milanese di condominio non avesse attecchito”. Le famose “terrazze di Roma” son infrequentabili, e irte di paraboliche – salvo nei (pochi)palazzi di famiglia.
Ma non è detto che “l’idea di condominio” non ha attecchito: sono  condominii che fanno innalzare le “torri” telefoniche, per farsi pagare la “servitù”.

Toscana – Evoca Puccini nel 1922, dopo la gloria, scrivendo al direttore del “Corriere della sera” (tutti i materiali, recensioni, presentazioni, interviste, lettere etc, concernenti il rapporto del compositore col giornale sono ora raccolti dalla Fondazione Corriere della sera in “Puccini e il Corriere della sera”) con nostalgia gli anni dello sbarco a Milano da Lucca, col fratello Michele, ospiti fissi dell’Osteria dell’Aida, per musicisti squattrinati gestita da un fiorentino Gigi. Che dava da mangiare a sazietà a “poeti e musicisti senza editore, cantanti in attesa di scrittura”, corredando il cibo da “fiaschi su fiaschi del leggero e frizzante vino di Toscana”.
Il “vino di Toscana” non era il Chianti, sangiovese, ma un lambrusco non zuccherino, secco.
 
Venezia – “I palazzi veneziani sono un gioco elegante, essi mascherano i caratteri individuali dei loro abitanti attraverso la loro uniformità, un velo le cui pieghe seguono soltanto le leggi della bellezza lasciando intravedere la vita dietro di esse nella misura in cui la nascondono”.
Venezia in maschera anche nella vita domestica? O si proiettano su Venezia e i veneziani le loro famose maschere, dei balli, dei carnevali, dei melodrammi?

letterautore@antiit.eu

E la Rai sgonfiò il miracolo “Costanza”

Curioso finale boomerang, dopo molte ore di sceneggiato e molti eventi, col ritorno alla casella base – un racconto come il gioco dell’oca. La protagonista ritorna al punto di partenza, a un uomo che ha “conosciuto” una sola notte, le ha fatto una figlia, è scomparso, è ritrovato incidentalmente dopo sette anni, e dopo molte sgradevolezze, solo perché lui è in procinto di sposarsi, decide che è l’uomo della sua vita – con sgomento dell’uomo, come a dire: “questa è pazza”. Per incuriosire lo spettatore alla prossima serie, o per sorprenderlo, in pratica per fregarlo?
Un finale balordo. Forse dovuto all’originale, la trilogia romanzesca di Alessia Gazzola – la quale però sa di meglio. Più probabile il progetto di attivare l’attesa per il sequel, che però oggi come oggi risulta indigesto. Avendo già rovinato una serie che invece si era imposta per il ritmo, l’accuratezza e lo spessore dei personaggi, l’inventiva delle storie che la attraversano, la giusta misura dei ritmi di regia e di molte recitazioni. Specie delle due sorelle messinesi (come Gazzola) a Verona, la protagonista anatomopatologa brillante, nonché narratrice di fiabe inventiva e convincente, e la minore, psicoterapeuta servizievole e imbranata, Miriam Dalmazio e Eleonora De Luca.
O si vuole la favola dell’amore contro tutto? Nel 2025? È un “errore” dell’autrice, Gazzola? Possibile non avendo letto il libro, ma improbabile – desumendo dall’accuratezza delle vicende di contorno e degli stessi caratteri. La Rai sta perdendo il lume dell’intelletto?
Fabrizio Costa, Costanza, Rai 1, Raiplay