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spock
Ci dilettiamo
delle petromonarchie, che sono paesi di proprietà familiare (patrimoniali),
feudali: l’Occidente è meglio senza voto, e senza Habeas corpus (giustizia)?
Il segreto sempre si lega al
totalitarismo – che però si dichiara?
O non alle
democrazie – dove però non si dichiara?
È Wilson, il presidente
americano dell’open diplomacy, un imbe(ci)lle?
La politica è
sporca e la democrazia pulita?
Essere
democratici è non essere politici – è Grillo il nuovo Machiavelli?
spock@antiit.eu
Ma è una farsa! A
pagamento.
Joe Wright, M
– Il figlio del secolo, Sky
Trump si muove così – come quando faceva il personaggio in tv: pone un
problema come si lancia un sasso nello stagno, smuove le acque, che poi in
qualche modo si ricomporranno. Nel mentre lascia che siano gli altri a interpretare
il “sasso”, a maturarlo. Anche oltraggioso ma non folle, come lo vorrebbero gli
psichiatri americani – almeno quella ventina che se ne sono detti certi, sui
quasi quarantamila che ne conta l’Apa, American Psychiatric Association. Una diversa
lettura si è avviata nelle cancellerie di mezzo mondo delle apparenti
oltraggiosità del primo discorso pubblico di Trump.
Il disegno di fare “americani” Canada e Groenlandia risponde poì al personaggio
storico cui si ispira, Theodore Roosevelt, il premio Nobel per la pace e uno
dei quattro presidenti del monte Rushmore, padre della patria al pari di Washington,
Jefferson e Lincoln. Th. Roosevelt a fine Ottocento fece lo stesso con i
Caraibi: creò Panama, col Canale, e scippò ogni residua colonia ala Spagna, nei
Caraibi e nel Pacifico.
Canada e Groenlandia devono essere “americani” perché sono al centro del
prossimo cenro degli affari internazionali, l’Artico. Col previsto scioglimento
dei ghiacci eterni, l’Artico diventa un mare navigabile, e Russia e Cina hanno
gli Stati Uniti a un “tiro di schioppo”. Di più se ne avvantaggerà la Russia,
diventando infine una potenza marittima. Anche gli affari si sposteranno in parte
in qull’area, ricca di minerali pregiati. Ma sul piano militare l’Artico diventerà
la prima e maggiore area di confronto.
spock
Il Golfo
Persico della storia si chiamò all’improvviso Arabico, in virtù dei petrodollari,
perché il Golfo del Messico con si chiamerebbe dunque d’America, sempre dollari
sono?
L’Europa va alla
guerra, ma vuole che gliela facciano i missili e i militi americani?
“Lo spionaggio non è violazione del diritto
internazionale”. Mario Caligiuri, professore di intelligence?
Che cos'e diritto internazionale?
“All decent
people got their start in intelligence (spionaggio),
anch’io l’ho fatto”. H. Kissinger?
Alla Russia ancora ancora, ma
perché dovremmo fare la guerra alla Cina?
spock@antiit.eu
Un quieto long-seller,
tranquillo, seppure avanzi in punta piedi, alla quinta edizione in venti anni
(ma era già uscito nel 1991 negli Oscar Mondadori, con gli stessi contenuti, col titolo “Giufà. Il furbo, lo
siocco, il saggio”). Con la prefazione di Sciascia, uno dei suoi ultimi
scritti, se non l’ultimo. E con un lungo saggio, di sempre sorprendente acribia,
della curatrice, con una voluminosa bibliografia – si arriva ad Antonino
Buttitta, e al buddismo.
Sono storie brevi
e brevissime, leggere, di scemenze e “intelligenze” – le furbizie della storia. Una parte di storie siciliane, una di storie arabe, e una di storie turche. Non dissimili nei diversi filoni. Dello stolto che ha ragione - che ovunque le busca o è irriso, ma il caso gli
fa prendere la rivincita.
Sciascia ne fa un
modo di raccontare, delle “narratrici del vicinato”, quando ancora c’era
il vicinato, la vita di paese, ancora nella sua infanzia, che intrattenevano i bambini
per indurli al sonno, o nelle lunghe serate estive tenerli buoni. Elevandole al
“blasone popolare” delle vecchie discipline delle tradizioni popolari.
Corrao ne rintraccia
una per una le innumerevoli ramificazioni. Nel mondo arabo in specie, da colta
arabista, e nel resto del Mediterraneo. Rilevando “un’incredibile somiglianza
tra il nostro buffone e alcuni trickster che parodiano riti sciamanici”.
Il che forse è un po’ impegnativo – almeno a scorrere le facezia qui raccolte. Né
persuade l’innocente “di intelligenza astuta, la métis” degli antichi greci,
l’astuzia e l’inganno contro la prepotenza. Giufà non è piuttosto un avatar
della stoltezza, sul quale cioè si scarica la stoltezza umana – non ce ne sarà
mai uno sciocco come Giufà?
Tra le sorprese della
curatrice, oltre le fonti arabe, comprese nei secoli scorsi notevoli “controversie” letterarie sul
personaggio, la ripresa di Giufà, delle sue storie, nel “canone” italiano: “Alcune
storie arabe di Ğuhâ ritornano attribuite a Chichibio nel ‘Decamerone’ (1353),
a ‘Bertoldino’ nell’omonima opera di G.G.Croce (1608), a ‘Cacasenno’ in quella
di A.Banchieri (1634), e a Vardiello nel ‘Pentamerone di G. B. Basile (1636)” –
nonché a Grazia Deledda, sciasciana “narratrice di vicinato”, in “Giaffà”, racconto
per bambini.
Francesca Maria
Corrao (a cura di), Le storie di Giufà, Sellerio, pp.
191 € 14
spock
Perché i
giudici voglio fare anche gli accusatori?
Perché le giornaliste
ghignano quando fanno in tv le domande a Meloni: sono più importanti, più
interessanti, meglio pettinate?
Perché i cantieri
di un giorno a Roma durano anni?
Si fanno i cantieri
per il giubileo o si fanno i giubilei per i cantieri?
Perché le
assicurazioni sono così maleodoranti (patacche, imbrogli, truffe – tutte a corpo
4): non usano la candeggina?
Perché le
assicurazioni sono così poco rassicuranti?
spock@antiit.eu
Un altro
Leopardi. Vivace oltre che vivo, e attivo, anzi intraprendente al limite dell’incoscienza,
sempre padrone di se stesso. In tutto determinato: ponderato, riflessivo, ma poi
determinato, senza concessione o compromesso possibile. Nelle eresie delle “Operette
morali” e in ogni altra opinione o posizione critica e\o politica. E sempre
giovane, da bambino e da adulto. Sempre solare, anche negli eventi e le situazioni
drammatiche. Perfino bello (come di fatto era! secondo ogni canone): inventivo,
allegro, seducente, sentimentale a suo modo. Senza soffermarsi sulla scoliosi,
o su gli altri problemi fisici, giusto la poca vista – che ne accentua la
seduttività.
Un approccio al
monumento Leopardi non meno filologico di quello consueto, del poeta gobbo, malaticcio
e isolato. Sotto la ferula paterna – uno che per venti dei suoi pochi anni se
ne tenne lontano, benché sprovvisto di mezzi… E, come per i rapporti familiari,
con molte più verità storiche accessorie. Del poeta che fu la bandiera dei
liberali risorgimentali di Milano, Bologna, Firenze negli anni 1820-1830, e un
po’ anche a Napoli. Dell’erudito colto e autorevole, e per questo forse
imbrigliato socialmente, confuso tra sentimenti e risentimenti, impedito negli
slanci del cuore. I sensi vivendo con la meraviglia del bambino implume. L’intellettuale
fermissimo nel suo credo materialista e disperato, su vita e morte, Dio e
mondo, libertà e tirannia, e sempre duro, sulla politica compresa.
Geniale, in questa
ricostruzione storicamente infine attendibile, l’affiancamento a contrasto, nelle
due parti del film, di Igino Giordani prima e poi di Antonio Ranieri. Di due figure
storicamente acclarate. Parmigiano l’uno napoletano l’altro, esuberanti bon
vivant. E invadenti nel nome della devota, ammirata, amicizia.
Una produzione generosa,
che resuscita i fasti degli sceneggiati storici della Rai, delle stagioni di D’Anza,
Majano, Bolchi: “L’amaro caso della baronessa di Carini” “Il mulino del Po”, i romanzi
russi, “Il piccolo Lord”- anni luce dalle asfittiche serie delle n piattaforme
che ci perseguitano, di pochi takes moltiplicati al computer per un’ora
o due, passatempi da cellulare (che curiosamente i critivi tv propagandano).
Per una regia inventiva e ricca. Tanto forte narrativamente quanto apparentemente
invisibile – classica. Sviluppatta su soggetto e sceneggiatura dello stesso Rubini,
col genialoide Pasquini. Dopo una scelta miracolosa dei visi e personaggi che
reggono le quattro ore: Leonardo Maltese, che riesce ad essere sempre credibile
nei vent’anni di vita in cui impersona Giacomo, un Caccamo che sembra Antonio
Ranieri fatto persona, sempre vivo, e Giusy Buscemi nella seconda parte, Fanny Targioni
Tozzetti. Tutti scelti e perfetti, attori di mestiere, comprimari “precisi”:
Boni (il conte Monaldo), Pennacchi (lo stampatore Stella), Preziosi (un
parroco), Lidi (Tommaseo). Indovinate anche le Paoline (Maria
Vittoria Dallasta la sorella di Giacomo, Roberta Lista quella di Antonio), e la cantante Marianna
Brighenti (Emma Fasano), musa di Giacomo degli anni di Bologna - il cui padre,
patriota e buon maestro di canto, finisce delatore. E la “cugina Geltrude” (Serena
Iansiti), fatta segno, sorpresa, del primo sboccio della sensualità. Grande inventiva,
dunque, anche nei personaggi secondari – ma bastava documentarsi un po’.
Fanny è uno dei
tanti personaggi nuovi e “giusti” del film, che Rubini e Pasquini tratteggiano a
tutto tondo: è ben la “Aspasia” del “ciclo di Aspasia”. Nobildonna regina dei
circoli di Firenze, moglie e madre esemplare ma in cerca d’amore, scoprirà in
morte del poeta quanto è stata amata. Per il “ciclo di Aspasia” che prima disprezzava,
e per l’abnegazione di Giacomo, di fronte al di lei trasporto, fisico,
disperato, per il farfallone Ranieri, di farla sentire amata. Un ultimo,
poeticissimo, controcanto all’“incapacità di amare” del poeta amabile, filosofo
disperato. Del riserbo intimo, o animalità inespressa, del determinatissmo ma irricettivo ragazzino Leopardi.
Sergio Rubini, Leopardi
– Il poeta dell’infinito, Rai 1, Raiplay
Giuseppe Leuzzi
Straordinario, ma non tanto?, aneddoto di Josef Nerling, l’ad di
Porsche Italia, a pranzo con Paolo Bricco per “Il Sole 24 Ore”: il matrimonio a
Catania dei suoi genitori nel 1970, Josef, grafico di Amburgo, con Agata,
insegnante di applicazioni tecniche alle medie, “fu una tale rarità da
meritarsi una pagina di giornale (l’autorevole quotidiano di Amburgo “Die
Welt”, n.d.r.). Mia mamma ricevette una telefonata dall’ambasciata tedesca di
Roma, dove erano stupiti per la richiesta di documenti del suo fidanzato e
volevano sincerarsi che fosse tutto a posto. Per loro era una scelta
incomprensibile”.
Prima pagina scandalizzata del “Corriere della sera”, e una pagina avvelenata a
seguire del leghista in titolo del quodiano Stella, per un cartello
stradale pieno di strafalcioni ad Agrigento. La colpa è dell’Anas ma è
addossata alla città, trasformata in “la capitale sgrammaticata della cultura.
Un “servizio” corredato dai soliti sfondoni sulla (contro la) Valle dei templi,
che è invece il sito classico forse meglio conservato al mondo. Opera del
direttore Fontana, che è di Frosinone, su input degli stringer calabro-siculi
che riforniscono il superleghista Stella, col contributo del willing
executioner Buttafuoco (l’opportunismo non costa, non ci sono
Norimberghe, e rende). L’odio-di-sé fino al kamikaze.
Agrigento è “capitale della cultura” 2025. Gli strafalcioni sul cartello sono
talmente grossolani che non possono essere stati fatti che ad arte - non c’è
grafico o digitatore che possa farli per ignoranza. Per provocazione o per
gusto della beffa. Questo naturalmente Stella non può capirlo – questa forma di
umorismo, “zannella” in calabrese. E Buttafuoco? La Lega val bene un inchino –
un catanese presidente a Venezia?
“Capitale della cultura” porta in dote, in un anno, un milione di euro dal governo. Per
progetti di spesa precisi, non modificabili, a rendiconto controllato. Cosa fa
un milione a Milano, o a una città lombarda, o veneta, concorrente di
Agrigento?
Quanti di quei “piccioli” pubblici che schifa per Agrigento non prende
Buttafuoco per fare l’onorifico presidente della Fondazione della Biennale (€
145 mila)? O se, stando a Venezia, legge il locale gazzettino: che ne dice dei 50 milioni per una stazione sciistica a Valbondione, nella bergamasca, a 1.000 metri, dove non nevica più da mezzo secolo - 50 milioni, non uno, di piccioli pubblici? L’odio-di-sé è rispettabile – è una nevrosi.
Però.
Ritorno al paese
Si chiama mixité, prossimità o mescolanza sociale, la
nuovissima frontiera dell’urbanistica. La creazione di comunità interconnesse,
seppure attive in settori diversificati e non comunicabili, ma in qualche modo
interdipendenti. Come nel vecchio quartiere, o nella comunità di paese o
villaggio – comunità per nascita. Ad essa si accompagna la reviviscenza del
commercio di prossimità, il vecchio fornitore vicino di casa, dopo decenni fi
grandi spazi e centri commerciali. E della “città di quindici minuti – della
vita senza pendolarismo.
Mixité, termine francese di una tendenza elaborata in Giappone vent’anni
fa, dall’architetto Riken Yamamoto, è così definita dalla Treccani: una
“strategia progettuale” per il passaggio “da un modello industriale a uno
basato sul terziario e sull’informazione”. La rivoluzione industriale ha
comportato un’urbanistica basata sulla “zonizzazione” (dall’inglese zoning),
cioè dalla compartimentazione delle aree urbane per la attività produttive ivi
svolte. Con la “mixité” si crea una correlazione “tra vita pubblica, sociale e
lavorativa, e quella privata”.
Un ritorno al paese, dopo un secolo, o due, di urbanizzazione spinta? Il nuovo
non può essere vecchio – e poi l’urbanistica ama le teorizzazioni lasche. Ma il
senso di comunità ritorna - seppure senza radici, al contrario della vita di
paese. Che, addentrandosi nella frigidità dell’urbanistica, può
riacquistare un futuro – non è più condannato all’urbanizzazione.
Un freno? Un vantaggio? L’“Economist” oggi, al termine della plurisecolare corsa
anglosassone all’urbanizzazione anonima (alla moltiplicazione della rendita
urbana, il motore dell’accumulazione, del capitale, della ricchezza monetaria) lo
dice un “ritorno al futuro”. Chiedendosi perché “i sud-europei saranno presto
le popolazioni con la più lunga aspettativa di vita nel mondo”, si risponde che
“conta la dieta, ma anche la struttura urbana e la vita sociale”.
Il
radicamento è comunque in Italia tuttora, malgrado le tante ondate migratorie,
un fatto. Al modo come lo
sente ancora di recente in Francia, in Normandia, nel 2000, la scrittrice
premio Nobel Annie
Ernaux riandando alla sua giovinezza ne “La vergogna” - che ha scritto su
e sotto l’influsso del paese
di origine, Yvetot: “Nel ’52 non posso pensarmi al di fuori di Y. Delle sue
strade, i suoi negozi, i
suoi abitanti, per i quale io sono Annie D. o «la piccola D.» (Ernaux è uno
pseudonimo, il nome è
Duchesne, n.d.r.). Non c’è per me altro mondo. Tutte le considerazioni
contengono Y., è in rapporto
alle sue scuole, alla sua chiesa, ai suoi negozi di novità, alle sue feste, che
ci si situa e che si
desidera”.
La vita
di paese, sulla quale l’Italia resta ancora malgrado tutto conformata, può non
restare destinata
all’estinzione. È un dato di fatto per la gran parte degli italiani, la cui
urbanizzazione è recente,
postbellica, e non pacifica, specie per la grande massa degli emigrati interni
– e per le comunità
di emigrazione, desertificate. Lo sradicamento non è senza danni,
per tutti i soggetti coinvolti.
Il radicamento rimane ancora un valore, più che una tara o un peso.
Giufà o lo humour perduto del Sud
Il “filosofo Giufà, così stupido da raggiungere livelli eccelsi di
intelligenza delle umane cose”, indigna il linguista, e filosofo, Lo Piparo
agli ottant’anni (“Sicilia isola continentale. Psicologia di una identità”).
Che indispettito lo erige a testimone della “identità siciliana” – “una
allucinazione o, con le parole usate da Goethe per Villa Palagonia (a Bagheria,
in “Viaggio in Italia”, n.d.r.), «un niente che pretende di essere qualcosa»”.
Povero Giufà, oberato da tante colpe! O forse solo di una - per Lo Piparo:
vedere cose che non ci sono, e non vedere le cose che invece ci sono. Il Giufà
reale è un altro - anche se con lo
stesso nome poi adottato in siculo-italiano, Ğuhä: è forse la cosa araba che
più e meglio ha attecchito in Sicilia – più p.es. della poligamia (addossarsi
due mogli, tre, quattro?). E anche in Turchia, dove ha cambiato nome, si chiama
Karaguz. Più vaporoso e ingegnoso che stupido o folle.
L’arabista Francesca Maria Corrao ne raccoglieva gli aneddoti, da varie
tradizioni mediterranee, a inizio millennio, “Le storie di Giufà”. Una raccolta di tre raccolte in realtà, del Giufà siciliano, di quello arabo e di quello turco (la curiosa scoperta consentendo che il Giufà preteso filosofo che indigna Lo Piparo, quello della luna nel pozzo, è arabo e non siciliano...). La grecista
Jolanda Insana, poetessa, ne tracciava la genealogia dieci anni fa, poco prima
di morire, sulla rivista “Zapruder”. Come quello “che combatte una
piccola, grande guerra contro la fame, i soprusi e l’ingiustizia, e che per
sopravvivere da truffato si fa truffatore, da inseguito inseguitore, da
affamato affamatore, da ingannato ingannatore”. E quello che veniva
raccontato ai bambini in Calabria e in Sicilia, che “è sì lo scemo del
villaggio, ma è anche sofistico giocatore di parole e senso, ferocemente
attaccato alla lettere dei nomi e delle cose, benché si muova in un orizzonte limitato
e chiuso, in un ambito ristretto di egoismi e bisogni primari, ma anche di
resistenza all’oltraggio e all’ingiustizia, sempre o quasi sempre contraddetta
dalla costante ricerca dell’interesse e del tornaconto personale”. Un po’ poeta
anche, anche lui: “Epperò con qualche ventata di follia, di pura fantasia, di
pura agnizione del creato, del mistero e della bellezza” – uno che prova a
liberare la luna caduta nel pozzo (l’epitome della stoltezza per Lo
Piparo), e si rifiuta, animalista ante litteram, di prestare
l’asino al vicino violento.
Un personaggio quasi millenario, emerso nell’Anatolia del Duecento (in realtà
prima, per molte tracce, n.d.r.), dipoi “figliando e moltiplicandosi per ogni
dove con fratelli e fratelli Bertoldi bertoldini cacasenno”. Con vari nomi:
Nasreddin Hoca nell’originale sufi, Guha in Egitto, Djoha nell’ebraismo
sefardita, Gimpel in quello askenazita (quello yiddisch dei racconti di
Singer(1)), Djuha nel Maghreb, Giucà a Trapani, e in Albania, Giucca in Toscana
- e anche Karayozi in greco, Nasreddin Hoca in Turchia, nei circoli sufi (con l’analogo Karaguz, una sorta di Pulcinella del teatro d’ombre - Karayozi nella Grecia ottomana), Giaffah in Sardegna, Gihane a
Malta.
Insana, vigile poetessa di Messina trapiantata a Roma, lo rievocava in uno coi
ricordi della sua propria infanzia. Con nostalgia oltre che con acume. Ma lo
sapeva anche sempre vivo, e uno che “combatte insieme a noi” - come? “buttandosi” in
politica. “Se Giufà che c’era oggi non c’è più, c’è oggi
Giufà che non c’era?”, si domandava, e si rispondeva: “C’è, c’è, e gli
esemplari sono tanti. Prevedibile
e non più paradossale, deficiente e arrogante è sempre miracolato ma le sue
storie le vantaggio, e per non lasciare la cadrega distrugge e stravolge il senso e
la verità delle parole con bagliori accecanti di vomitevole furbizia, con
battutine sceme”. Chi può dire di non incontrarne?
A monte dell’irritazione-insinuazione di Insana c’è la sparizione del Sud
irridente. Ironico e scherzoso. Dello humour, senza il quale il Sud non
è. Il
Sud irridente è sparito?
Quelle di Giufà sono storie per ridere, di
stoltezza o furbizia, e sempre mansuete, comprese quelle cruente. Per
l’imprevedibilità mansueta dell’asino - la raccolta di Corrao originariamente s’intitolava
anche “dell’asino”: lo scarto della fantasia con l’irresponsabilità del
folle-giovane. Il personaggio, senza età, è presumibilmente giovane, anzi adolescente
– sventato come un adolescente (è scomparsa anche l’adolescenza). E sono storie
del Sud, giocate sul paradosso fine a se stesso: l’uomo del Sud è Giufà,
irridente e perduto. Un personaggio e un linguaggio comuni nel Mediterraneo:
Giufà è Ğuhâ in Nord Africa - mutato in Karaguz solo in Turchia (e in Karayozi nella
Gracia già ottomana). Di storie scomparse dunque, come tutto il folklore, con la
scomparsa del Sud.
(1)Isaac Bashevis Singer, ebreo polacco da quasi vent’anni immigrato negli
Usa, esordì nel1953 a 51 anni in inglese (tradotto da Saul Bellow), su una
grande rivista americana, la “Partisan Review”, col famoso incipit: “Sono
Gimpel l’idiota. Non che io mi senta un idiota. Anzi. Ma è così che mi
chiama la gente”.
Cronache della differenza: Milano
Piersilvio Berlusconi ringrazia i dipendenti pr il
“grande, enorme, mondiale” successo dell’azienda. “Un successo dovuto a tutti
voi” eccetera. E poi fa loro un regalo. Non duemila euro in busta paga, nemmeno
mille: un acuto dei Volo. Fosse successo a Catanzaro?
Però, sarà la taccagneria fa fare la ricchezza di Milano?
Questa storia dell’Inter è curiosa. Piena di mafia, anche se milanese, con un
paio di assassinii. E niente. Per niente al confronto, biglietti venduti a condizione
di favore agli ultras, la Procura di Torno ha processato con
clamori la squadra, e il procuratore sportivo non stava nella pelle
per sanzionare a sua volta il club torinese. A Milano, dove gli
assassinii, gli arsenali (bombe, armi da guerra) e il racket (varie forme di
racket) attorno all’Inter sono fatti e non chiacchiere, niente: l’avocato Chiné
(la “giustizia sportiva”) muto, la Procura di Milano quasi. Omertà a Milano?
È anche vero che procuratori e giudici sono meridionali: Chiné e Gravina (calcio)
come De Pasquale, Greco et al. Ma ce ne sono anche di
settentrionali e lombardi, Davigo, Storari et al. Una “vera”
Italia unita, nel nome di Milano, anche nel malaffare.
Col papa argentino Milano non ha più il cardinale. Aveva anche una sua chiesa,
e un suo rito, l’ambrosiano, e niente. Francesco ne ha nominati in undici anni
140 o 150 (oggi sono 253, una cifra enorme), ma niente Milano. Il giorno di
sant’Ambrogio ne ha fatti 21 nuovi, e sempre niente Milano.
Papa Francesco ha fatto cardinali il suo predicatore, il vescovo di Città della
Pieve, quello di Asolo, quello di Colle Val d’Elsa e Montalcino, quello
dell’Aquila, e tanti altri, anche senza titolo, ma niente Milano. Che è la
città forse più religiosa – comunque vicina alla chiesa. La sospetterà di
demonismo?
Torino inventava e Milano rubava: è stata tutta la storia economica dei (primi)
150 anni dell’Italia – con l’eccezione del cinema, spostato da Mussolini da
Torino a Roma, e dell’automobile, rimasta a Torino. Ora si prende il
tennis, le Atp Finals – dopo l’Olimpiade invernale. Appena una cosa rende, la
artiglia.
Marina Corradi celebra sommessa sul “Foglio” “noi quando andiamo a Roma”, il
regno della luce - noi milanesi: “Ci si alza presto. È ancora buio. La
domenica, nessuno”. Al Gianicolo alle 7 e 30, con l’Acqua Paola che scroscia
abbondante e cristallina, eccetera. Fino a sera: “Torniamo al Nord infine, e il
cielo spento sul Po accende già la nostalgia”.
La fortuna di Milano è ammirare gli altri, prendere da chi e cosa è il meglio.
Perché allora leghista? Milano ha un nemico “interno”?
La città è ossessionata dalle baby gang, figli
d’immigrati per lo più – anche i Carabinieri lo sono, ma il piccolo-medio
cittadino di più. Che spadroneggiano per le strade, minacciano, spaccano. Pur
non essendo una città violenta. Non da ora, da sempre. Quando a Londra
imperversavano gli hooligans, anni 1960, Milano non se ne privò.
Anzi, è da un paio di secoli, almeno, che non se ne priva, se la “compagnia
della Teppa”, da cui teppismo, che agiva attorno al Castello, data del
1917-1821. È l’aria? È un locale rito di passaggio?
leuzzi@antiit.eu
A lungo gli Stati Uniti hanno privilegiato gli immigrati specializzati,
con visti preferenziali, H-1B, di lunga durata, e rinnovi annuali. Di cui erano
il polo di attrazione, dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina, e anche
dall’Europa. Ora discutono polemicamente questa politica.
Una politica aziendalistica, si dice, più che di interesse anzionale, che
favorisce le immigrazioni anche di alta capacità – laureati, specializzati,
ricercatori - per ridurre i costi e accrescere i profitti. A danno dell’offerta
qualificata nazionale. Che col lavoro deve anche ammortizzare gli elevatissimi costi
della formazione superiore. A danno quindi anche del sistema educativo nazionale.
La critica degli H-1B non è del tutto una novità: è da alcuni anni uno
dei temi del movimento trumpiano MAGA, Make America Great Again. Ora anche il partito
Democratico mette il sistema dei visti privilegiati in discussione.
Forte promozione Sky
della sua serie che sceneggia il voluminoso “M.” di Scurati. Con un
cortometraggio in cui parlano il regista, lo sceneggiatore e Luca Marinelli-Mussolini.
E uno più lungo con gli stessi e un “dietro le quinte” della lavorazione.
L’emittente è cara,
costa dieci volte più della Rai, quindi si può capire l’impegno. Ma con due
promo stucchevoli entrambi – che promozione è? Cioè no. Il regista Joe Wright,
inglese, colto, di molta, varia e apprezzata esperienza, e lo sceneggiatore Stefano
Bises, preciso e acuto come un grande storico, spiegano l’ennesimo polpettone
mussoliniano in termini oggi interessanti - anche se non nuovi: la psicologia delle
masse, il senso della novità, comunque del cambiamento, e dell’avventura, le
disfunzioni dell’io. Se non che il Marinelli-Mussolini interviene per penarci col
disgusto che ha provato e prova. Confortato – cioè sconfortato – dagli sceneggiati,
dalle anticipazioni di varie situazioni. In cui non è mai credibile, e non fa indignare né ridere.
M.
il figlio del Secolo. Speciale, Sky Documentaries
letterautore
Cuba – Nei primi anni
1950, prima di Castro, gli anni di Hemingway, L’Avana era per Graham Greene, nei
tanti soggiorni che vi fece, “il ristorante Floridita (famoso per daiquiri
e Morro crabs), la vita nei bordelli, al roulette in ogni albergo,
le macchinette mangiasoldi che sputano jackpot di dollari d’argento, il
teatro Shangai dove per un dollaro e venticinque centesimi si poteva vedere un
cabaret di nudi di oscenità estrema, col più porno dei film porno negli
intervalli (c’era nel foyer una libreria porno per i giovani annoiati dal
cabaret)…. Una città straordinaria dove ogni vizio era permesso e ogni commercio
possibile”. G.Greene non “fumava” e non si bucava - si dilettava di oppio negli
inverni che invece passava a Saigon.
Dio – “Bisogna
certamente che vi sia un Dio. Primo perché tutti lo hanno detto, e il gridar
più di molti è un grand’impegno. Secondo per parecchie altre ragioni”, il “Signor
Incognito” Ippolito Nievo, “Antiafrodisiaco per l’amor platonico”, [II].
Flaubert – Fu a Genova
per un paio di settimane nel maggio 1849. Aveva 28 anni, ed era già scrittore
noto. Accompagnava, col padre Cléophas e la madre Anne Justine Caroline
Fleuriot, la sorella Caroline fresca sposa in viaggio di nozze.
Hitchcock - G. Greene, per
un periodo prima della guerra critico cinematografico, non stimava Greta Garbo,
“una bella giumenta araba”, e Hitchcock. Ricordando quell’esperienza in “Vie di
scampo”, si dice ancora “irritato” dall’“inadeguato senso della realtà” del connazionale
regista: “Credo sempre che avevo ragione (checché Truffaut possa dire) quando scrivevo:
«I suoi film consistono di una serie di piccole ‘divertenti’ situazioni melodrammatiche:
il bottone dell’assassino caduto sul tavolo del baccarat, le mani dell’organista
strangolato che prolungano le note nella chiesa vuota…molto frettolosamente monta
su queste situazioni ingegnose (trascurando per strada inconsistenze, questioni
in sospeso, assurdità psicologiche) e poi le molla: non significano nulla; non
portano a nulla”.
Kenya – Un Paese tra
le nuvole appare a Gram Greene quando nella primavera del 1953 vi sbarca come giornalista
per documentare la rivolta anticolonialista dei Mau Mau – della popolazione Kikuyu
che abita l’altopiano, dopo la carcerazione del suo leader Jomo Kenyatta: “Scrivevo
la mia corrispondenza sulla rivolta Mau Mau”, scrive nel libro di memorie “Vie
di fuga”, “conscio dell’enorme distesa di cielo, e di terrazzati di nuvole. Mai
è stata una terra così avviluppata nell’aria, perché nella Kikuyuland si vive sulla
cima di una montagna, con Nairobi a oltre cinquemila piedi (circa 2.700 m.,
n.d.r.), e questa missione nella Riserva Kikuyu dove risiedo duemila piedi
ancora più in alto”.
Poesia – “La poesia
rimarrà sempre uguale a se stessa, più alta di ogni Alpe. Essa giace nell’erba,
sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla
da terra”, Boris Pasternak, intervento al Congresso per la difesa della
cultura, Parigi, 25 giugno 1935, (“Quintessenza”, p.89). Alta e bassa?
Popolo – È ignorante,
ma “dispone di una salda provvista di forza mitopoietica”: Ernst Jünger ci
riflette in Sardegna il 31 maggio 1954 (in “Terra Sarda”, p. 142) vagando per i
dintorni di “Illador”-Villasimius. A proposito dell’asinello locale, che ha un
sul dorso due strisce nere che s’incrociano a formare una croce di Malta, e per
questo “la sua genealogia viene ricondotta a quell’antenato di cui si servì la
Sacra Famiglia per la sua Fuga in Egitto.
O a proposito di “un enorme anello di ferro incastrato nella roccia” in
montagna; un probabile snodo servito “nel secolo scorso a taglialegna forestieri
per fare scendere in pianura carici pesanti con una specie di funivia”, di cui
si dice che è un “ricordo di Noè, il quale approdò in quel punto con la sua
arca”. Una “lussureggiante immaginazione”, conclude Jünger, che “prospera
vigorosa accanto a una stupefacente mancanza di conoscenze storiche”. E a una
mancanza di curiosità: “Anche i notabili ignorano le date di nascita e di morte
del nonno”.
Roma – Non ha avuto
ammiratore più convinto del pur raffinato e riservato Henry James, che vi
ambientò anche il suo primo romanzo, “Roderick Hudson”. “Finalmente – per la prima
volta - mi sento vivo” scrive a casa alla sua prima visita nel 1869. Poi non lesinerà
gli elogi: “Nessuno che abbia amato Roma come Roma può essere amata in gioventù
vorrà finire di amarla”. Tra le tante annotazioni, nel 1879, passeggiando per
il Corso sgombro di turisti: “L'indole romana è sana e felice”, scrive, “il
sorriso di Roma, come io chiamo questa atmosfera, avvolge chi passeggia senza
pensieri e si abbandona a prendere le cose come vengono”.
Il rapporto sarà ancora più stretto negli ultimi anni - fino alla morte,
nel 1916 - dopo l’amicizia stretta a Roma nel 1899, a 56 anni, col ventiseienne
scultore norvegese di Roma Hendrik Christian Andersen.
Schubart – Del poeta
dello Sturm und Drang e pubblicista antigesuita e antiassolutista – per questo censurato
da Federico il Grande di Prussia – Herman Hesse
fa scherzosamente (nel racconto “Nel padiglione del giardino”, ora in “L’uomo
con molti libri”) il megadirettore del “museo di Samarcanda”, in viaggio in Europa
per conto dell’ “emiro del Belucistan”, a caccia di rarità, “se il poeta viveva
ancora – intendeva dire quell’infelice che era stato venduto agli Ottentotti da
Federico il Buono, e che là aveva composto l’inno nazionale africano”.
Vacanze – Un “gran senso
di ristoro” avverte Ernst Jünger a Cagliari, aggirandosi per il mercato in
attesa del treno per Olbia, “quello che sanno trasmettere le vacanze trascorse
senza libri, senza giornali e senza compagnia intellettuale” (“Terra Sarda”,
p.149).
Yvetot – Il paese in
Normandia dove Annie Ernaux è cresciuta, fino agli anni di università, e che condiziona
(spiega lei stessa ne “La vergona”) il suo modo di pensarsi e di scrivere,
ricorre spesso nella corrispondenza di Flaubert, come sinonimo di bruttezza: “la
città più brutta del mondo”, aggiunge qualche volta, “dopo Costantinopoli”. Nel
“Dizionario dei luoghi comuni” la fa una Napoli all’inverso: “Vedere Yvetot è
morire”. Ma per un disincanto generale, scriveva all’amante Louise Colet: “Non
ci sono in letteratura bei soggetti d’arte, e Yvetot vale Costantinopoli”.
letterautore@antiit.eu
“Joe Biden si diletta di premiare
con trofei di partecipazione l’establishment dei fallimenti” – come se la
Francia avesse intronato Maria Antonietta dopo la rivoluzione, come se dopo il
ciclone Trump fosse possibile fare finta di nulla.
“Il suo instancabile sostegno alla restaurazione
ancien régime significa premi a Liz Cheney (Citizens Medal), e a Hillary
Clinton, George Soros. David Rubenstein, del Carlyle Group, Anna Wintour, direttrice
di “Vogue” (Medal of Freedom, la più alta onorificenza in America).
“Nel 2016 l’insorgenza del trumpismo non ha
portato ad alcuna autocritica dell’establishment, ma piuttosto ha generato fantasie di restaurazione ancien régime.
L’obiettivo divenne un fronte popolare centrista, con Repubblicani presunti moderati
(McCain, Mitt Romney, che ha voluto la guerra all’Iraq) e ricchi donatori (Michael
Bloomberg). Una coalizione che si celebrò nel 2020 con Biden, l’avatar più
naturale della restaurazione ancien régime”.
(“The Nation”)
“Widow Cliquot” è
il titolo originale, il famoso Veuve Cliquot Ponsardin, ora Veuve Cliquot, marchio
d’eccellenza dello champagne. Per la storia di lei, la vedova, Barbe-Nicole orfana
dei Ponsardin a François Cliquot, un bipolare affascinante e violento che muore
giovane. La vigna è una coltura difficile – sensibile. E anche gli anni sono
difficili.
Napoleone si è
fatta nemica l’Europa e il commercio è proibito – Napoleone sì è inventato
anche le sanzioni, non si può commerciare con San Pietroburgo, e neanche con Amsterdam.
Una legge napoleonica statuisce pure che le donne non possano gestire un’azienda.
Ma un’altra legge, sempre napoleonica, statuisce che le vedove possano subentrare
al marito nella gestione.
Con la
sensibilità agli odori e ai sapori ereditata dal marito, la giovane vedova
mette a punto il suo bouquet imbattibile. Di cui la Russia, l’arcinemica
di Napoleone, decreterà il successo. Grazie al solito commerciante che specula
sulle sanzioni – che poi diventerà socio della vedova, anche a letto.
Un personaggio
molto francese, fatto con la ricetta americana (inevitabili un paio di scene di
sesso “da produttore”, improbabili), da regista e attori inglesi – che sono la parte
migliore: gli attori inglesi di cinema vengono dal teatro, sono di scuola. Per
un film vedovile, malinconico. Nella prima parte, esagitata, del rapporto della
giovane inconsapevole col marito. E poi nelle incertezze, della contabilità e
delle sperimentazioni.
Thomas Napper, Madame
Clicquot, Sky Cinema, Now
spock
Se la
giustizia è giusta?
Se il processo
è già una pena?
Una berlina?
La Corte Penale
Internazionale va bene quando condanna Putin, ma non quando condanna Netanyahu?
Perché gli Stati
Uniti riconoscono la Corte Penale Internazionale solo per Putin?
Si moltiplicano
le corti, anche nello sport, per moltiplicar e la giustizia?
La giustizia è
una e molteplice?
E se la
giustizia fosse teatro – anche senza le parrucche?
spock@antiit.eu
Il Natale
cancellato s’intitola “La grande crisi”: “Fu in seguito alla Grande Crisi - dopo
la soppressione di Ferragosto, di Capodanno e della Santa Pasqua di Risurrezione
– che venne per ultimo cancellato il Giorno di Natale”. È uno scherzo – il racconto
viene dopo l’abolizione andreottiana delle feste religiose? Sì, ma serio: “La
vita è nelle ricorrenze che ciascuno scava sulla pietra delle proprie unghie, è
nei segni che incidono le arterie. La vita è questa compensazione sballata che
ci ritroviamo tra le mani”.
Il racconto del
titolo è in linea con “Malacqua”, di un mondo vacuo e piatto. Gli altri racconti
della raccolta, pubblicata ora a dodici anni dalla morte, sono lievi. Un lampo,
un’idea sballata, e la sua ragione. Racconti di eventi straordinari nella koinè
minuta, piatta, di personaggi senza spessore, giusto il nome anagrafico. Racconti
dell’assurdo quotidiano. Di personaggi afflitti
da “questa vita per tanti versi interminabile e dolente” –
considerazione da “vuoto Ferragosto”, come già del santo Natale.
Il giovane omosessuale
che uccide il padre in senso proprio, fisicamente – “perché il padre gli aveva
detto: «Tu non sarai mai, nella tua vita, un uomo davvero, ci sarà sempre un
muro a sbarrarti il passo»”, e a sua volta pestato, imprigionato, che a 51 anni,
rimesso in libertà, l’enorme “piazza” piena di gente e di meravigli vede come una
enorme prigione – e quando ritrova la sua personale libertà, in punto di morte,
è un’illusione.
Ma c’è anche la delusione,
dell’autore, delle magnifiche sorti e progressive. “La tigre al fianco” è Esposito Margherita, “ex femminista, ex
reduce ’68, ex extraparlamentare, ex artista pittrice, ex esponente agricola”, che
travia l’onesto lavoratore, convincendolo che tutto è potere, e ne fa il Nobel del Dirigente Carogna, un cannibale,
la punta di diamante del Sistema.
Un tentativo
timido di riproporre un narratore forte ma isolato, e dimenticato. Un autore
che aveva debuttato col patrocinio di Italo Calvino ma non ha poi trovato il
suo Critico – l’interprete, l’araldo. O volutamente in autoisolamento, anche
fisico, da Napoli ad Avella.
Nicola Pugliese, La
nave nera, Polidoro, pp. 99 € 16
Ciampino-Palm Beach (Mar-a-Lago),
dodici- tredici ore di volo, all’andata, e altrettante al ritorno, con due violenti
jet lag, intervallati da una sosta di sole tre ore, compresi i trasferimenti
dall’aeroporto a Mar-a-Lago, per conferire col prossimo presidente degli Stati
Uniti e un paio di suoi ministri, degli Esteri e della Sicurezza, nonché vedere
un film documentario sulle “persecuzioni” subite da un avvocato di Trump, decisamente
Meloni ha una marcia in più. Non libererà Cecilia Sala, gli ayatollah sono
gesuiti al cubo (e più benvoluti dal loro dio), ma è come se.
Volare da Trump in
condizioni eccezionali di disagio a soli sei giorni dall’accoglienza promessa,
a Roma, del presidente uscente Biden in visita di congedo deve far presumere
anche un capolavoro di diplomazia. Difficilmente sostenibile un rapporto così
ambivalente.
“Decine di morti in 24
ore a Gaza, dagli Usa 8 miliardi di dollari in armi a Israele” (“Il Sole 24 Ore”)
– otto miliardi di vendite di armi. Ma c’è spazio solo per criticare il papa che
critica Netanyahu.
Gli 8 miliardi sono l’ultimo di molti contratti di vendita di armi del buon credente Biden, a
Israele e all’Ucraina.
Al 30 settembre, calcola la
Federal Reserve, la banca centrale americana, lo 0,1 per cento più ricco della
popolazione Usa possedeva un quarto, il 23,6 per cento, di tutti i fondi, le
obbligazioni e le azioni sul mercato. E l’1 per cento possedeva in titoli azionari
23.270 miliardi di dollari, che erano quanto possedeva in azioni il restante
99 per cento della popolazione. Due cifre che sono più di un trattato
socio-economico.
Resta da spiegare come
funziona la democrazia con la concentrazione della ricchezza.
Molte paginate sui
rincari del gas. Con spiegazioni di tutti i tipi. Senza dire l’essenziale: che i
rincari - del 2, o 5, o 7 per cento, non si sa - riguardano della costosissima
bolletta solo la voce “materia energia”, il 5, massimo 10, per cento del
totale. Che la bolletta è tutta tasse. Che vanno sotto due voci false: “oneri
di sistema” (contributi a fondo perduto al business delle “fonti alternative”,
dall’Enel ai piccoli mangioni locali delle pale eoliche) e “reti di trasporto”
(fili della luce e gasdotti, vecchi di mezzo secolo e più). Con in più, ridicolo,
la “lettura del contatore”, che si fa in automatico – costa quasi più della “materia
energia”.
Scandalo perché l’uomo
forte della Siria Al Jolani, barbuto jihadista in impeccabile completo grigio,
dà la mano al ministro degli Esteri francese Barrot, che è un uomo, e si limita
a un inchino, destra sul cuore, col ministro tedesco Baerbock, che è una donna.
È prassi nel mondo islamico, le donne, anche in famiglia, si esimono da baci e
abbracci. Ma non è questo il punto, l’ignoranza. È che nessuno dice niente su
Baerbock in jeans frusti, girovita debordante da ex ragazza, e clarks d’annata.
I ministri degli Esteri
francese e tedesco vanno in ricognizione a Damasco, un primo segno di attenzione
dell’Unione Europea al nuovo regime, senza nemmeno informare il cosiddetto
ministro degli Esteri della Commissione di Bruxelles (Alto Rappresentante dell’Unione
Europea per gli Affari Esteri e la Politica di sicurezza, nel gergo unitario), che
è la ex premier estone Kaja Kallas. Una bella Unione.
Il giudice di New York
che ha fatto rinviare a giudizio da una giuria Trump con 34 capi d’accusa per
aver ceduto al ricatto di una pornostar, non ha pronta la condanna – non sa
come redigerla – ma non vuole perdersi l’occasione di entrare nella storia. E annuncia
che la sentenza ci sarà prima dell’insediamento – dopo non gli è più concesso. Senza
scandalo: nessuno che dica che questo giudice è stato messo al suo posto dal partito
Democratico, per il quale ha sempre lavorato, lui e la sua famiglia. Gli Stati
Uniti sono un altro mondo.
Fa senso Trump chiamato tycoon
nel telegiornale di Canale 5, il tg di Berlusconi. Una presa di distanza ex
post dalla “discesa in campo”? Un risentimento o disprezzo velato verso una
lunga stagione di militanza politica obbligata – ora fanno trent’anni?
Nella Supercoppa circense
d’Arabia un fatto strano emerge netto: un club, la Juventus di John Elkann, ha
licenziato con laute buonuscite allenatore e portiere fino ad allora
essenziali, e ha lasciato libero un altro calciatore essenziale di accasarsi
altrove, senza indennità di trasferimento, per spendere 150 milioni, almeno, in
sostituti di poca salute e/omediocri, gravandosi per di più di un monte ingaggi quasi duplicato.
All’insegna del risparmio – e del miglior gioco, che latita. Incapacità non può
essere.
Annunci negli ospedali,
in bacheca come gli avvisi sindacali, di avvocati a percentuale (per lo più
avvocate), che promettono tesori a chi denuncia i medici. Senza costi: la
parcella sarà saldata a percentuale del devoluto quado i “danni” saranno stati liquidati.
Ha dilagato presto la pratica americana degli avvocati contingency. Prevalentemente
contro ospedali e assicurazioni. In forma di ricatto: si propone, e per lo più si
ottiene, un “patteggiamento”, per limitare il danno d’immagine e le seccature
di anni di processi. Gli avvocati a percentuale non sono giudici, ma ne sono l’altra
faccia, la più vera per essere dichiarata, della giustizia – in America è così.
C’è però una differenza,
nella pratica italica del contingency lawyer, che il cliente paga
l’avvocato, orari, spese legali, eccetera, prima di sapere se ha avviato l’azione
legale su presupposti solidi. Il contingency lawyer americano analizzerà
il caso, avvierà la procedura, e provvederà alle spese legali a suo carico,
rifacendosi successivamente, solo se l’azione ha avuto successo. Mentre l’onorevole
professionista italico-a si farà prima pagare – come quando uno va dal medico, e
paga centinaia di euro prima di sapere se lo guarirà, o almeno lo curerà.
L’Italia? Il migliore dei mondi possibili.
La notte di Natale la veglia
a Tel Aviv dei familiari degli ostaggi israeliani è impedita dalla polizia. È andata
meglio che in altre occasioni, quando alcuni familiari sono stati arrestati. Ma
è una non notizia, in mezzo alle tante con cui si riempiono le pagine vuote per
Natale.
La memoria, in forma di narrazione, di scrittura, è più forte della realtà. In dialogo pubblico, a Yvetot, il paese dove è cresciuta, e ne ha stimolato molte memorie, con la sua personale “cultrice della materia” Marguerite Cornier, la non ancora Nobel Annie Ernaux precisa il suo modo di raccontare. Come il suo modo di raccontare, di “fare storia”, si è venuto via via formando, si è imposto. Anche, aggiunge, per la forza delle immagini, le vecchi fotografie, che ne hanno catalizzato molte storie, occorrenze, ambienti, personaggi.
È la riedizione
della prima pubblicazione del “Retour” - il ritorno al paese, in Normandia,
nel 2012 – a suo tempo curata dalla municipalità. Arricchita da nuove
considerazioni sulla scrittura della memoria, da estratti del diario delle
elementari e da letterine d’epoca, con molti facsimile, specie di un’amicizia
infantile rimasta cara, e molte foto. Della scrittrice, giovane pin-up,
della scuola delle monache, delle amiche, del bar-drogheria dei genitori, del paese.
Della scrittrice
Nobel si scava tutto. Ma questa compilazione, oltre che di interesse per la
letteratura “della memoria”, la prima forma dell’autobiografismo oggi
imperante, è piacevole e distensiva. Soprattutto le immagini, dicono tutto con
poco della vis di Ernaux, apparentemente anodina, di ananke quotidiana,
scontata, e invece potente nella narrazione. Nel far riemergere, dando loro
spessore, vicende anche insignificanti. Soprattutto sul lato erotico, per la
capacità di dare corpo, come non altre prima di lei, a una narrazione
erotizzante. Con una curiosa inversione della vita di paese come
vissuta nelle rimemorazioni narrative, classista, mentre oggi la trova
esemplare della mixité sociale, l’ultima tendenza dell’urbanistica,
della coesione sociale invece della caratterizzazione divisiva, per quartieri o
per progetti immobiliari.
Lei
stessa ne dà la ricetta nel saggio “Comment écrire” aggiunto alla plaquette:
“Scrivere la vita è il titolo che mi è sembrato più adeguato
per definire il mio progetto di scrittura da quarant’anni e l’insieme dei testi
riuniti nell’antologia della collezione Quarto pubblicata da Gallimard.
Scrivere la vita, non la mia vita. In che consiste la differenza,
si dirà? È considerare ciò che mi è successo, che mi succede, non come qualcosa
di unico, di accessoriamente vergognoso o indicibile, ma come materia di osservazione
per comprendere, mettere a giorno una verità più generale. In questa
prospettiva non esiste ciò che si chiama l’intimo, non ci sono che cose che
sono vissute in modo singolare, particolare”. Appellandosi a Sartre, al suo “singolare
universale”, il solo modo per la letteratura di “rompere le solitudini”: “È solo
così che le esperienze della vergogna, della passione amoroso, della gelosia,
del tempo che passa, dei propri cari che muoiono, tutte queste cose della vita,
possono essere condivise”.
Annie Ernaux, Retour
à Yvetot, Éditions du Mauconduit, pp. 105, ill. € 13