sabato 18 gennaio 2025
Parte il partito della crisi
Meloni andrà all’Inauguration Day di Trump, mezza riga, nel “pastone” politico. È iniziato il conto alla rovescia per il suo governo? Era già iniziato con la liberazione della giornalista Sala – “protesta l’America”, si è scritto con particolari, mentre non ha protestato nessuno. È già successo a Craxi, e a Renzi: quando c’è un governo performante dopo un po’ lo si abbatte.
Scalfaro, Bossi, Occhetto e la fine dei comunisti
Trent’anni fa, più o meno a questa data, si poteva annotare:
“Non soltanto il Monaco ha santificato i «brancalegoni», i comunisti si
affannano ora ad annetterli al loro paradiso. Che errore! Bossi può stare, e deve,
solo a destra.
“Il Monaco crede di recuperare al suo Sogno Democristiano il Lombardo-Veneto
perduto, ma questi sono brutti e cattivi, hanno solo voglia di cose lerce –
del sottogoverno hanno già fatto indigestione.
“Baffino ripete l’errore di comunisti e socialdemocratici di fronte alle
camicie brune e nere del 1933. I tempi certo sono diversi, oggi siamo ricchi e
in ascesa, non in crisi - per quanto: nel 1933 si cominciava a stare meglio
mentre oggi, ormai da qualche anno, serpeggia l’incertezza. Ma non è detto, le
metastasi non sono un fatto di scienza politica.
“L’errore è doppio: a) pensare di sottrarre alla destra il suo voto più
qualificante solo per l’opportunismo parlamentare di Bossi, mentre b) è la
sinistra, intellettuali e popolo, che ne resterà, ne è già, infettata.
“Baffino (Achille Leone, pensare!) è un burocrate e i professori
comunisti sono stanchi. Si risveglieranno fra un anno, massimo due, in un
cantuccio all’inferno - e questo non sarà male: bisogna sbarazzarsi in qualche
modo di questa zavorra, che ha perduto con l’accecamento settario (ah Berlinguer!)
ogni funzione pedagogica di massa. Ma si lascia condurre da Scalfari, il cui
compito è di dissolverlo. E la nostra guardia democratica saranno i preti e
Berlusconi.
“È impressionante, fragoroso, il silenzio, le masse che tacciono. Il
Monaco e Baffino si coprono con lo starnazzamento dei giornali ma il popolo non
ha capito. Guarda forse ma non vede (traguarda), e tace – come nei paesi di mafia.
La Bestia ha vinto, e pensare che è solo un piccolo travet di provincia,
anche se lombardo.
“Il Monaco può avere completato il disegno di (attorno a) Di Pietro – forse
ricattato. Ma i comunisti? Chi sono i comunisti italiani?”
Il diavolo di Hitler in scena
Mephisto è un
Grande Attore-Regista che è la punta di diamante del teatro di Stato in
Germania negli anni del nazismo, Intendente del Teatro di Stato, Consigliere di
Stato e Senatore, dopo essere stato in gioventù un regista-attore, sempre molto
capace, di parte democratica, e anzi piuttosto comunista. Un personaggio reale,
che era stato anche mentore e amico di Klaus Mann nei suoi debutti teatrali a
metà degli anni 1925, nonché suo cognato per alcuni anni, 1926-1929, avendo sposato
sua sorella Erika (successivamente sposerà, 1936-1946, l’attrice Marianne
Hoppe).
Un romanzo “a
chiave”, cioè con personaggi e su vicende riprese dalla realtà. Anche se Klaus
Mann volle negarlo risolutamente nel 1936, quando il romanzo fece la sua prima
apparizione a puntate, come feuilleton, sul giornale dei tedeschi espatriati,
“Pariser Tageszeitung”. Molti sono i personaggi reali. Anche se non non
nominati: Göring e Goebbels nel primo capitolo. O coperti da pseudonimo: il “poeta
amico del Führer” della quarta pagina, chiamato “Cäsar von Muck”, Consigliere di
Stato anche lui, famoso autore etc., è Hanns Johst. “Otto Ulrichs”, menzionato
a seguire, è Hans Otto, un attore giovane di grande fama, morto presto, di 33
anni, nel novembre del 1933, dopo mesi di pestaggi in carcere. Calati del resto
in vicende reali, trascritte dal vero: di lussi, sprechi, intrighi, e violenze.
Quattrocento pagine
con poco o nessun sviluppo. Più che una storia è un quadro. Una descrizione\denuncia
dopo l’altra di vari personaggi del Terzo Reich, e degli eccessi, di spesa e di
gusto, oltre che di violenza (invidie, vendette, prepotenze), dei suoi massimi esponenti.
Castelvecchi lo ripropone nel quadro di un programma di riscoperta di Klaus
Mann, drammaturgo, romanziere e saggista: il quinto ripescaggio, dopo “Alessandro.
Romanzo dell’utopia”, la sua prima opera narrative, “Anja ed Esther”, “Fuga al
Nord”, “Figlio di questo tempo” e “Punto d’incontro all’infinito”, finora
inedito in italiano. Tradotto o ritradotto da Massimo Ferraris. “Mephisto” forse
con più tempismo editoriale, dato il grande spolvero in corso della
professione di attore, con la moltiplicazione delle serie tv – il romanzo è già
stato trasposto al cinema, ne1980, da Istvan Szabó.
L’edizione Feltrinelli
riprende, con una nota di Fofi, la traduzione Garzanti. L’edizione Garzanti, in
commercio dal 1992, per la traduzione di Fulvio Ferrari e Marco Zapparoli, si avvale
di tre importanti materiali, e di un intrigante racconto della vicenda
editoriale del romanzo in Germania, dove la prima pubblicazione è stata possibile
solo nel 1980 – era disponibile in un’edizione tedesco-orientale e in una svizzera.
Per una complessa vicissitudine giudiziaria – non a opera di Gründgens, morto a
ottobre del 1964 (morì a Manila per una “overdose di barbiturici”, come già
Klaus Mann) né della sua propria figlia, ma del figlio adottivo Peter Gorski. Una
prima edizione in Germania fu stampata in diecimila copie nel 1965 e distribuita,
ma subito poi la diffusione fu proibita dal Tribunale. Una proibizione successivamente
interinata dalla Corte Costituzionale, contro il diritto di opinione, a difesa
dei tedeschi non emigrati (non colpevoli di delitti specifici) dalle critiche
dell’emigrazione politica.
I tre materiali
sono un po’ tre scoperte. Una è che l’idea di romanzare Gründgens era venuta a
Hermann Kesten, il quale pensò che meglio adatto a farlo fosse Klaus Mann, che conosceva
il soggetto, e glielo scrisse il 15 novembre 1935. Su questo scambio epistolare, allora appena scoperto, nel 1979 Ariane Mnouchkine ha costruito la sua riduzione
scenica di “Mephisto”, al Théâtre du Soleil a Vincennes, con un successo da 200
repliche che diede fama postuma a Klaus Mann. L’altra è che la mancata pubblicazione
del romanzo in Germania nel 1949, dopo una trafila analoga a quella successiva
del 1965, fu “una delle cause del suicidio di Klaus Mann” – l’editore
Castelvecchi lo dice morto per una “overdose di barbiturici”. Una storia –
un’amicizia tradita – finita con due suicidi?
La terza chicca dell’edizione
Garzanti è un estratto dalle memorie di Klaus Mann, “La Svolta” – pubblicate
nel 1942 (a New York, in inglese). Che conferma fin nei dettagli che il romanzo
è “a chiave”. Compresa l’ammirazione, e forse qualcos’altro, persistente per
Höfgen-Gründgens: “….Erika era molto giovane, anche Pamela e Gustav Gründgens.
Eravamo ancora quasi dei fanciulli quando ci incontrammo ad Amburgo per
lanciare il mio dramma ‘Anija ed Esther’”. Pamela è Wedekind, figlia del drammaturgo, e
andava già per i trent’anni. Un idillio: “Il primo incontro con Gustaf è per me
indimenticable”. Klaus si fidanza con Pamela. Erika sposa Gründgens. Ma fa l'amore
con Pamela. Al gruppo si affianca un’altra
figlia di grande drammaturgo, Thea Sternheim – ma rimane fuori dal quartetto amoroso,
e presto si allontana. E c’è “l’ingegnoso poeta Bertolt Brecht”. Una vita
facile e bella, un po’ superficiale.
La stessa aisance
anima le memorie, “La svolta”, a proposito del romanzo: “Il Consigliere di
Stato e Intendente Hendrik Höfgen, di cui scrissi il romanzo, è il ritratto del
Consigliere di Stato e Intendente Gustav Gründgens, che io ben conobbi da giovane.
Non del tutto”, etc.. Gründgens era un po’ un’ossessione per Klaus Mann: come
attore e ballerino, “Gregor Gregori”, lo aveva già tratteggiato nel suo secondo
romanzo “Punto d’incontro all’infinito”, 1932 (il primo, 1929, era un romanzo storico,
su Alessandro Magno) - era stato questo precedente a indurre Kesten a passargli
l’idea di “Mephisto”. E lo ricorderà, insieme con Erika, nella raccolta di
saggi a quattro mani pubblicata nel 1939 in America, “Escape to life”, un
volume di 376 pagine di biografie illustrate, aneddoti, analisi di “personaggi”,
di famosi espatriati.
Erika e Klaus
Mann, nati a un anno di distanza, hanno vissuto come gemelli monozigoti, con la
sorella dominante – in epoca genderfluid, di fluidità di genere
sessuale, non si sarebbe saputo dire
che era il fratello e chi la sorella.
Klaus Mann, Mephisto, Castelvecchi,
pp. 320 € 18
Garzanti, pp. 419
€ 14
Feltrinelli, pp. IX-300
€ 10
venerdì 17 gennaio 2025
L’Occidente cominciò (e finisce) con l’auto
C’è altro nell’Occidente, il colonialismo europeo nell’Ottocento, la supremazia
militare americana nel Novecento. Ma c’è anche un lato non condannabile, la
tecnica. Di cui nocciolo e bandiera è la mobilità, a partire da quella terra
terra, l’automobile. Ora questa primazia è finita.
È già finita in Cina. Si prepara altrove, sempre in Asia, in Corea, in
India e, in settori diversi e in parte connessi, in Vietnam, Thailandia,
Malesia. Col Giappone all’improvviso indeciso su quale lato del Pacifico schierarsi
(per ora si riarma). Una sfida forse già vinta. Anche perché, p.es. in Cina, l’assetto
politico è a suo modo stabile – mercato, mercatissimo, e comunismo. E l’India,
benché voti conservatore, modernizza a vista d’occhio caste, donne e città – un
po’ più avanti del resto del mondo peraltro per l’informatica.
L’automobile dunque. Nel 2023 in Cina se ne sono vendute 30 milioni. Negli
Stati Uniti 16, in tutta la Ue, che ha una popolazione una volta e mezza quella
americana, 15. Nel primo semestre del
2024 in Cina se ne sono vendute 14 milioni, in aumento del 6 o 7 per cento sul
primo semestre 2023. Negli Stati Uniti
se ne sono vendute di meno. In Europa molte meno.
Nel primo semestre 2024 i marchi cinesi hanno venduto 5,6 milioni di
vetture. Solo un terzo quindi, o poco di più, di fronte ai concorrenti “occidentali”,
tedeschi e giapponesi. Ma con un aumento del 18 per cento sul primo semestre 2023.
Mentre i marchi tedeschi hanno ridotto le vendite del 6-7 per cento, e quelli
giapponesi del 12-13 per cento. E Byd , che ora si vuole boicottare in Europa e in
America per frenarne gli indubbi vantaggi, ha detronizzato Volkswagen come
marchio più popolare: ha venduto 1,6 milioni di autovetture, contro 1,3 di Vw.
Un’ascesa, quella di Byd, già insuperabile sull’elettrico. In Cina e nel
mondo – esporta già in un centinaio di paesi, senza incontrare concorrenza.
Un calcio al calcio
Manchester City, il club inglese di calcio più ricco probabilmente d’Europa,
offre 70 milioni per un terzino del club torinese Juventus, Cambiaso. Per il
quale lo stesso club è stato indagato tre anni fa in pompa da un giudice di
Torino, con la solita berlina che armano i giudici Procuratori, e condannato
dall’avvocato Chiné, che gestisce la giustizia sportiva, per plusvalenze
fittizie o falso in bilancio. Per averne fissato la valutazione nei libri a 30
milioni (col Cambiaso Chiné condannava anche la valutazione di un altro
calciatore, Ragusin, iscritto in bilancio per 4 milioni e poi ceduto per 30…).
Era lo “scandalo plusvalenze”. Che però il giudice sportivo non ha applicato
ad altri club colpevoli dello stesso reato. Mentre l’inchiesta penale col botto
(radiazione? fallimento? carcere?) a carico del club torinese, il giudice inquirente
essendo risultato un tifoso interista da curva, veniva dirottata a Roma. Dove
la locale Procura non ha trovato nulla da fare in tre anni.
Il caso sarebbe da giustizia ordinaria, anche
se la giustizia sportiva ha una sua specificità: lo “scandalo plusvalenze” s’impianta
su una pratica comune a tutti i club di calcio, e dunque l’omessa azione della giustizia sportiva non è un atto
sportivo ma configura un reato penale – di interessi, di soldi, di influenze.
Un reato non sportivo, ma da codice penale.
Se non che la storia non finisce: il club
offeso, Juventus, tace - da quando gli avvocati sono sportivi? Una storia non sportiva, di legalità. Ma il club offeso,
Juventus, tace. E c’è un perché: è di proprietà privata, benché in Borsa, della
famiglia Agnelli-Elkann, e lo scandalo è servito a Elkann per far fuori il cugino
Agnelli, che gestiva il club.
Un bell’ambientino. Non tanto della giustizia
penale, cui non c’è più delitto che si possa imputare, il decalogo è esaurito, ma
di quella sportiva. Per quanto, anche questa: così assurda, ma nessuno che la sfidi.
Il calcio non è uno sport, non in Italia.
Il Futurismo eccolo qui
Una mostra incredibilmente
ben montata, con didascalie discrete ma sapienti, e un linea storicizzante non
imposta ma convicente, dal divisionismo della prima sala alla spazialità e all’arte
materica e\o povera del tardo Novecento. Di una vitalità che forse il futurismo
– i futuristi italiani, le loro filosofie e pubblicazioni - non ha avuto, ma
nella mostra sì. Specialmente sul rapporto, o contemporaneità, con la scienza e
la tecnologia. Una sorta di vindicatio del rivoluzionarismo futurista, tra
macchinizzazione dell’umano e umanizzazione della macchina.
La documentazione
della letteratura futurista, qui ricchissima, finisce anche per rivalutarla.
Non più parole libere al vento, comprese le tantissime, e spesso indigeste, di
Marinetti, ma intuizioni e ripensamenti premonitori dei nuovi assetti della
conoscenza e della comnicazione. E delle nuove “frontiere”, e funzioni, delle
arti. Fuoriuscendo dal visionarismo fine a se stesso spesso rimproverato al futurismo
come a ogni avanguardia artistica.
Una mostra ben
disposta – visibile, vivibile. E ricca di prestiti da più dozzine di istituzioni,
e da moltissimi collezionisti.
Di fronte a tanto
splendore si resta più che perplessi alle polemiche che hanno preceduto la mostra
e la accompagnano. C’è mai stato niente di meglio nelle tante celebrazioni
italiane del futurismo? C’era qualcosa che si poteva fare di ancora più interessante?
Il mercato delle curatele è così agguerrito – che vuole dire, che ci “si marcia”?
Una mostra tanto
interessante che non si riesce a “vedere” tutto di filato, c’è bisogno di un intervallo.
Il biglietto di un giorno lo consente, ma forse di due entrate in giorni diversi
sarebbe stato più gradevole: di tempo comunque ne richiede molto, bisogna
averne.
Gabriele
Simongini (a cura di), Il tempo del Futurismo, Galleria
Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea
giovedì 16 gennaio 2025
Se al Bundestag andranno solo quattro partiti
“Elon, è una situazione completamente nuova per me, che possa avere una conversazione
normale e non sono interrottta o presentata negativamente”. Della conversazione
fra Alice Weidel, la fondatrice e candidata al cancellierato a febbraio di Alternative
für Deutschland, con Musk su X questa è la frase più significante. Perché Afd è un partito che esiste da una
dozzina d’anni, e ha scalato la politica fino a prospettarsi secondo, dopo
i Cristiano-Democratici, ma viene rimbeccato e non ascoltato. Alcuni Länder, p.
es. Amburgo, e gli stessi servizi segreti ne prospettano lo scioglimento –
anche se la Corte Costituzionale avrebbe sicuramente problemi a interinare una decisione
del genere.
In seconda ipotesi, in mancanza di una ricognizione di questo partito, si
prospetta un cordone sanitario – come per il Rassemblement lepenista in
Francia: mai al governo con Afd. Questo è possibile. Ma non è più certo. Lo sbarramento
del 5 per cento della legge elettorale tedesca per il diritto alla rappresentanza
parlamentare potrebbe lasciare dopo il voto solo tre partiti al Bundestag, la
Cdu.\Csu, Afd e la Spd, i socialdemocratica. Per i sondaggi ci sarà anche un quarto
partito, nuovissimo: di sinistra, una costola della Linke, ma con molte posizioni
analoghe a quelle di Afd, il Bündnis Sahra Wagenknecht, l’Alleanza Sahra
Wagenknecht – Ragione e Giustizia.
Tre destre (quasi quattro) in Germania
Se la destra in questa campagna elettorale tedesca si connota per uno stop
all’immigrazione (asilo politico, con abitazione e sussidio), uno stop alla
guerra alla Russia e uno stop alla transizione verde accelerata (troppo
costosa, “insostenibile” invece che sostenibile), ci sono tre destre in
Germania – senza contare naturalmente la
destra che vota cristiano democratico, che nella geografia parlamentare è il centro.
Due destre si rilevano nel partito dichiaratamente di destra Alternative für Deutschlaned,
e una nel movimento di sinistra Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und
Gerechtigkeit. Questa Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia, un
movimento lanciato un anno fa, è già al 6-8 per cento dei sondaggi.
Afd è – è stato finora - un partito liberalconservatore. Per le autonomie
e contro la “statolatria”. Specie in materia di fisco. Contro il burocratismo di
Bruxelles. Al suo interno personalità e gruppi filonazi sono emersi ultimamente,
anche in posizioni di vertice.
È una insorgenza analoga a quella austriaca – del partito della Libertà,
l’Fpö, ora incaricato di formare il governo. Ma i consensi crescenti all’Afd
non sono su questa linea – certamente non ai simboli nazisti. Weidel fa campagna
come il “partito del buonsenso”.
Cronache dell’altro mondo – elettorali (321)
Trump si insedia legittimato. Con la maggioranza, quasi (il 49,9 per
cento) del voto popolare – più comunque della rivale Democratica, ferma al
48,4. Nel 2016 aveva vinto solo con la strategia tecnica della complessa legge
elettorale, come suffragio si era fermato al 46,2 per cento del voto – Hillary Clinton,
sconfitta, era al 48,2. E ha vinto nei grandi centri urbani, le città della California,
New York, Chicago.
In queste roccaforti tradizionalmente Democratiche ha vinto soprattutto per
l’astensione: Trump ha preso mediamente tre voti ogni dieci persi da
Democratici. Ma questo spostamento a suo favore nelle grandi città è stato comunque
doppio che nelle aree rurali.
In California, Illinois e New York Trump ha vinto conservando gli stessi
voti del 2020, quando aveva perso (solo nello stato di New York ha ha raccolto 200
mila suffragi in più). Ma a Kamala Haris sono mancati nei tre stati
complessivamente 3,8 milioni di voti, rispetto al risultato ottenuto da Biden
nel 2020.
L’astensione che ha colpito Harris è stata più elevata nei quartieri ad
alto reddito – che sono quindi (erano) roccaforte Democratica.
Lo spostamento a favore di Trump è stato più elevato, del 9,9 per cento,
nelle contee a maggioranza non bianca.
Il ritorno di Craxi, nelle guerre fra editori
Curioso libro su Craxi
per i trent’anni dalla morte. Dove aprendolo si legge che Craxi è “fuggito ad
Hammamet…. con il suo carico di avvisi di garanzia, di condanne, di sfide alla giustizia….
I suoi fax, le sue minacce, la sua sete di rivalsa”, da “re della vecchia oligarchia….
al di là delle responsabilità penali”. Al centro di “una famelica corte”, “un
clan che fu potente e arrogante”, e di “una famiglia, quella dei Craxi, di
fatto trasferitasi con lui ad Hammamet” mentre “appare e scompare, inghiottito
in un labirinto di prestanome, il fantomatico «tesoro di Craxi»”. Mentre Craxi
fu condannato per il “non poteva non sapere” della giustizia meneghina, e il “tesoro”
si sa da tempo che non è stato trovato perché non esisteva – era invenzione di
Di Pietro, che aveva anche provato a farsi la gita a Hong Kong, o alle Caimane.
Curiosa
riedizione di un libro del 1995, con Craxi ancora in vita, molto anti-Craxi ma
anche molto datato. Un libro che l’autore oggi dice essere stato scritto quasi
in collaborazione con Craxi: “Incontrai Craxi più volte, dopo che aveva perso
il potere”, e “nel periodo della latitanza ad Hammamet: una lunghissima conversazione
notturna nella sua villa tunisina”. Nonché, in precedenza, “all’hotel Raphaël….
Dove risiedeva, e dove all’ultimo fu bersagliato dalle monetine di una folla
scalmanata che manifestava la sua rabbia contro un leader additato come simbolo
principale del malaffare politico”. Senza dire – per il giornalista peccato grave
- che la “folla scalmanata” era stata organizzata dal partito Comunista, con avvisatori
sull’uscita e le monetine comprese.
L'editore dice
che il libro è stato aggiornato. Ma questo è l’aggiornamento: le otto pagine d’introduzione,
di cui qui ai virgolettati, non danno voglia di andare oltre. E il fulcro è il vecchio
libro, è rimasto come si ricordava: un atto d’accusa. Alle pagine centrali l’autore,
utilizzando citazioni di Marcello Veneziani e dell’ineccepibile galantuomo Giuliano
Ferrara, continua ad ascrivere indirettamente a Craxi, ai socialisti, l’autoassoluzione:
tutto è male in politica, e quindi noi siamo male e bene. Autoassoluzione che era
invece, ed è, il vangelo democristiano. Craxi aveva provato a rovesciarla, e
questo ha fatto la sua condanna - la “questione morale” di Berlinguer ok, chi
se ne frega, ma la “democrazia come alternanza” di Bobbio no, sostituirsi nelle
posizioni di potere.
Un’ottima “novità”
sarebbe stata a questo punto aprire aprire un varco nel fumo di Mani Pulite. Del
famoso, ben andreottiano, “non poteva non sapere”. Applicato selettivamente. E
non di nascosto, con sfrontatezza - una vindicatio di Andreotti contro
Forlani e Craxi il giorno dopo che non lo fecero presidente della Repubblica. Una
“rivoluzione” che della Dc lasciò incorrotta solo la corrente più esposta
(Enimont compresa, con Bonifazi et al.), quella di Andreotti. A opera
del suo Procuratore Capo a Milano Borrelli - nominato col suo patrocinio. Con l'ausilio
di un corrotto (uno che non si è potuto non dire corrotto dopo che aveva vinto ben
250 cause, o 300?, per diffamazione, ma che già all’epoca dei fatti aveva preteso
“prestiti” per centinaia di milioni di lire da suoi inquisiti – a uno pretestando
di averli restituiti, i 100 milioni, in biglietti da diecimila, in “una scatola
da scarpe”), di un missino, e di due comunisti di sacrestia che poi si sono vergognati
di se stessi, D’Ambrosio e Colombo. Ma Franco, entrato nel giornalismo con De
Mita, l’ha presto abbandonato, facendosi studioso e alfiere di Andreotti e del
Vaticano, il potere intramontabile.
Curioso libro contro
Craxi: dov’è la novità? Anche il sottotitolo, “Perché l’ombra di Bettino Craxi
incombe ancora sull’Italia”, è bizzarro - una minaccia, non una buona promozione.
Ma anche insensato: un manifesto contro Craxi? oggi? e chi è Craxi? Oppure: si
rifà Zorro, si rifà il conte di Montecristo, e quindi si rifà Craxi? Craxi? e
quando è stato “fatto”?
La riedizione ha
tutta l’aria di un ripescaggio tirato per i capelli, dell’editore Solferino,
cioè Urbano Cairo, per occupare in qualche modo il mercato, contro Cazzullo, che
pure è il pilastro del “Corriere della sera” dello stesso editore. Perché Cazzullo,
numero uno delle vendite a ogni suo libro (perfino di uno sulla Bibbia), ha
scritto un Craxi molto più nuovo, e strapieno di foto, ma l’ha pubblicato con
altro editore - l’aggiunta a questa riedizione di foto sembra confermarlo (ma
sono poche e le solite, antipatizzanti, mentre Cazzullo esibisce un Craxi perfino
con i capelli).
Massimo Franco, Il
fantasma di Hammamet, Solferino, p.223 € 18,90
mercoledì 15 gennaio 2025
Secondi pensieri - 552
zeulig
Fede – Può essere, è per Graham Greene negli anni
tra “Il nocciolo della questione”, 1948 e “Fine di una storia”, motivo di
turbamento e non rassicurazione. Così in “Ways of Escape” (“Vie di fuga”):
“Sentivo me stesso usato e spossato dalle vittime della religione”. Che aveva disegnato
e animato: “La visione della fede come un mare in bonaccia era perduta per
sempre; la fede era più come una tempesta nella quale gli sfortunati erano inghiottiti
e perduti, e i fortunati sopravvivevano per essere sbattuti affranti e sanguinanti
sulla spiaggia”.
Felicità – È femmina, “il principio femminile dell’universo”. Ernst
Junger felice in Sardegna settant’anni fa, nella primavera del 1954, lo annota
il 22 maggio (“Presso la torre saracena”, ora nelle due raccolte “Terra Sarda” e
“Il contemplatore solitario”). “Come ogni colore esige il suo colore
complementare, così anche il potere è una realtà a due facce, che soltanto nell’Altro
da sé si accende di una luce davvero illuminante. Come dobbiamo chiamare questo
Altro? La bellezza? L’amore? Potrei individuarlo nella felicità: se il potere è
il principio maschile nell’universo, la felicità è il principio femminile. Senza
quest’ultimo, che lo complete e lo equilibra, il potere può divenire
terribilmente odioso, come vediamo accadere ai nostri giorni”.
Si può obiettare che non ci sono dei
giorni esclusi. Ma non è di storia che Jünger riflette, osservando il bello,
felice e inutle falco librarsi nell’aria: “Come il potere è una chiave, così la
felicità è qualcosa da dischiudere e rivelare, un tesoro che giace inesauribile
sul fondo dell’universo. Lo conferma l’apparizione di un animale come il falco.
Sentiamo nell’intimo che esso non è soltanto splendido: dev’essere anche felice.
Deve avere ancora accesso all’intera, indivisa realtà del mondo” - di cui reca i
contrassegni: “È bello, forte e pieno di
energia amorosa come il primo giorno”.
Genere – È un’ideologia che si nega, l’ideologia di
genere – che ne sa il suo oggetto (soggetto)?
Si nega non nel senso di pretendere di essere
a-ideologica, ma di negare ciò che afferma, affermando ciò che nega.
È comunque una forma di identitarismo, nel mentre
che lo nega. Politicamente una forma spersonalizzata dell’identità, in antitesi
con l’identitarismo tradizione, conservatore e reazionario.
Una forma personalizzata di identità, ma inattaccabile,
incoercibile, irriducibile. Assoluta. Una maniera di, simile alla vecchia
anima, cui si è sostituita, ha provato a sostituirsi, ci sta provando, con lo
stesso impegno (“afflato”) “religioso” (io e il mi Dio). L’ideologia di genere
ne fa una “sostanza” o modo di essere unico, in quanto personale, e svariato –
infinitamente variabile: unico o (e), multiplo, costante e mobile.
È un’ideologia che si vuole rivoluzionaria. Ma di
fatto è solo eversiva, in senso prevalentemente distruttivo, a carico quindi
dei meno protetti o meno forti – le donne tradizionalmente (se una donna è “persona
con una vagina”) e i bambini. In senso anche reazionario, l’“essere” limitando
ai genitali.
Identitarismo – Si moltiplica nel mentre si nega.
I può anche dire che si nega strumentalmente, in chiave
dialettica. Nella forma dell’antitesi eversiva. Come quando si dice che il
cambiamento climatico è una questione razziale, dell’umanità bianca che avvelena
le minoranze razziali – le quali universalmente, come numero, che è quello che
conta in fatto di inquinamento, certamente non sono minoranze, anzi.
Natura naturata – Non sarà divina ma sicuramente aliena,
argomenta Ernst Jünger in “Presso la torre saracena” (in “Il contemplatore
solitario”), il diario di un suo soggiorno in Sardegna nel 1954, alla data del
29 maggio. Ricordando le passeggiate bambino col padre nel bosco, (“dovevamo
ammirare la geniale funzionalità di un fiore o di un’ala come il non plus ultra
degli oggetti degni di studio”): “Ciò che là diventava ammirevole era posto in
relazione con un’intelligenza onnipresente nel cosmo in forma invisibile, e poi
dichiarata dalla scienza e cristallizzata in forme sintetiche. Le prove venivano
offerte – ai passeggiatori, n.d.r. – in forma di arcano”. Di un’intelligenza
artistica piuttosto che di forza - di potere o di interesse: “Che dietro la natura
naturata si celi un principio artistico piuttosto che uno meccanico-economico
è un’idea che sfuggirà sempre a chi si limita a concepire la creazione non come
la presenza contemporanea del grande progetto e del reale che lo incarna, ma
solo come successine e mosaico di eventi. Mentre già lo sperpero operato dalla natura
indica, nella sua principesca magnificenza, come il progetto sia artistico e
non economico. La bellezza va ben oltre la funzionalità” – senza escluderla: “l’elemento
funzionale in natura è certo presente e verificabile, così come non può mancare
neppure nel quadro di un grande pittore”.
Storia – Cristo l’annulla? O non ne è l’ipostatizzazione
– l’Incarnazione è ben un fatto storico?
Era radicale Emanuele Severino, cattolico, che
per questo però fu condannato dal Sant’Uffizio
e cacciato dall’Università Cattolica: “Già alle origini dell’Occidente, con i
greci, la storia diventava impossibile. I greci hanno scoperto il carattere
radicale del nulla. L’uomo pre-greco sapeva di compiere con la morte un viaggio
in un mondo da cui avrebbe potuto forse tornare. Vivere tra il nulla e il nulla
è in realtà morire, e questo è l’atto supremo di conoscenza”.
Vivere come metempsicosi, o
reincarnazione? Nell’eterno ritorno della storia ripetitiva? In un mero
alternarsi di eventi incontrollabili, indeterminabili, incorreggibili?
Il nichilista è miglior cristiano lo
diceva Oscar Wilde, ma per ridere. Il cristianesimo è tutto storia, dai test sacri
alle chiese – dentro le chiese e fuori.
La libertà era il fiume degli antichi, quello
dei moderni è la storia, spiega Arendt, secolarizzata: l’uomo è volano della
storia.
La storia è l’uomo, l’uomo è storia.
Da
oltre un secolo il mondo subisce la democrazia e la tecnica come esiti d’una
storia che non è più opera sua, se il mondo è Europa, che non è (fa) più
storia. Viviamo in epoca tarda, la poststoria degli apocalittici.
Da revenants,
essendo morti, fantasmi afflitti, se la materia è neutra come vuole la fisica? Per questo siamo freddi: l’aria c’è ancora, ma di particelle asettiche.
Se non che il passato è reale.
zeulig@antiit.eu
Anna Magnani a Madrid
Due donne, una
giovane e una anziana, lottano quotidianamente per la sopravvivenza, in una Madrid
cupa, piena di sottoccupati. Entrambe sotto sfratto, una dalla banca perché non
paga il mutuo, una dal padrone di casa perché non paga l’affitto. Il giovane
avvocato che si dedica a queste “casue perse” litiga con la moglie perché non
guadagna. La povertà è una gabbia irrespirabile.
Un racconto del
male di vivere, di una delle sue forme. Non per l’avidità, il male è “normale”.
La normalità è poliziotti disorientati, servizi sociali occhiuti e stolti,
solitudine. Senza via d’uscita che la resistenza.
Un film fortemente
emotivo, si voleva ed è un film strappalacrime. Tanto più perché veritiero, nelle
forme, le maniere, le parole. In linea con la reviviscenza, partita dall’Estremo
Oriente, del neo-realismo, temi, personaggi, ambienti, e luci, suoni, tagli d’immagine.
Voluto e interpretato da Penelope Cruz (Botto è un esordiente), che sempre più con l’età si cala in Anna
Magnani, il “personaggio”.
Juan Diego Botto,
Tutto in un giorno, Sky Cinema, Now
martedì 14 gennaio 2025
Il mondo com'è (482)
astolfo
Émilie du Châtelet
(seconda
parte) - Non solo i caffè, luogo privilegiato di discussione fra matematici
e fisici, era all’epoca interdetta alle donne anche l’Accademia delle Scienze
di Parigi – l’accettazione all’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna
è eccezionale, anche perché basata sulla “chiara fama”, e attestata dalla
documentazione, alcuni lavori che la marchesa aveva pubblicato. Non ammessa formalmente
nei cenacoli scientifici e all’Accademia di Parigi, tuttavia era riconosciuta e
apprezzata dalla comunità – e perfino pubblicata dall’Académie des Sciences.
Un’altra stranezza
è che la scienziata, pubblicata, discussa e apprezzata in vita, fu subito poi dimenticata.
Se ne è tornato a parlare, delle sue esperienze e teorie scientifiche, cinquant’anni
fa, per l’applicazione che ci ha messo Elisabeth Badinter, per recuperare le
sue opere e farne oggetto di rivalutazione – in un’ottica di rivalutazione della
condizione femminile e degli apporti delle donne allo studio e alla ricerca negli
anni dell’illuminismo.
La convivenza con
Voltaire si sa che fu feconda per entrambi anche sul piano intellettuale. Nella
lettura critica delle Scritture, e anche nelle riflessioni
filosofico-scientifiche. Definivano insieme i temi d’interesse comuni, poi
ognuno ci lavorava autonomamente, e alla fine comparavano le rispettive
conclusioni. Per esempio per “Gli elementi della filosofia di Newton”, la prima
volgarizzazione in francese dell’opera di Newton, a cui Voltaire ha cominciato
a lavorare nel 1736: pubblicandoli nel 1738 precisava nella prefazione che vi
aveva contribuito Madame du Châtelet – la quale peraltro procederà alla traduzione
e a una sua propria lettura di Newton, che sarà pubblicata postuma, nel 1759.
I contributi della
marchesa, che allargava la sua riflessione a Locke e Mandeville, sono sui
termini della conoscenza – ricostruiti e indagati da una sua studiosa recente, Ruth
Hagengruber, “Emilie du Châtelet between Leibniz and Newton”. Contro Locke,
insisteva sulla necessità di verificare la conoscenza con l’esperienza: “L’idea
del celebre Locke sulla possibilità della materia pensante è …. astrusa”. Arrivava
alla critica di Locke commentando Bernard de Mandeville, “La favola delle api”.
Ma ne contestava anche la negazione del principio di contraddizione, e l’avversione
per le idee innate e i “principi anteriori”. Prendendo posizione a favore di
quello che sarà chiamato “innatismo”, nella forma di un “presupposto universale”:
di principi universali che pre-condizionano la conoscenza e le azioni umane,
una legge innata, un fondamento senza il quale ogni sapere è relativo.
Le “Istituzioni di
Fisica”, 1740, sono l’opra considerata maggiore di Émilie du Châtelet: un’esposizione
e un confronto di Descartes, Newton e Leibniz, con intenti pedagogici, per “insegnare
le nuove idee in fisica” al figlio, allora tredicenne. Pubblicate nella
primavera del 1741, le “Istituzioni” furono avallate da Maupertuis, ma
aspramente criticate dal cartesiano astronomo e geofisico de Mairan, segretario
dell’Accademia delle Scienze. Con Mairan la controversia sulla natura delle “forze”
fu pubblica per un paio di anni. Ma l’opera ebbe successo: nel 1744, tre anni
dopo l’uscita, risulta tradotta in più lingue. Tra cui l’Italiano – è del maggio
1746 l’elezione di Émilie du Châtelet all’Accademia di Bologna, per chiara fama.
In Francia il suo
nome nelle scienze era rimasto, prima della riscoperta avviata da Badinter, per
la traduzione di Newton, dei “”Philosophiae naturalis principia mathematica”.
Una traduzione pubblicata postuma, nel 1759, dieci anni dopo la sua morte. In
due volumi, per complessive 400 pagine. Di cui la traduzione prende un volume e
mezzo, il resto è costituito dalle annotazioni della traduttrice e dai suoi complementi: Emilie du
Châtelet aveva tradotto il latino di Newton, e ne aveva rifatto i calcoli, condensando
le sue osservazioni in un saggio intitolato “Principi matematici della
filosofia naturale”. Ua prima edizione del suo Newton si era avuta, sempre postuma,
nel 1756, con una prefazione di Voltaire, ma non era il testo definitivo.
Malgrado le restrizioni
regolamentari, anche all’Accademia delle Scienze parigina Émilie du
Châtelet trovò riconoscimento. Con una “Dissertazione sulla natura e la
propagazione del fuoco” – tema evidentemente ancora aperto, se la California
non riesce a venirne a capo. Pubblicata in un primo momento anonima dall’Accademia,
nel 1739, ripubblicata successivamente col suo nome, nel 1744, e nel 1752. Fu
una sorta di beffa, all’Accademia e anche a Voltaire. Nel 1737 l’Accademia
aveva bandito un concorso in tema, la natura del fuoco e la sua propagazione.
Voltaire si iscrisse, e provò a dare un riscontro fisico alla teoria dei
quattro elementi di Aristotele. Con una serie di esperimenti - a Cirey, dove
risiedeva nel castello degli Châtelet - inconclusivi. Mandò quindi al concorso una
memoria con una ipotesi che non convinse l’Accademia. Émilie du Châtelet, che aveva
assistito Voltaire negli esperimenti, non ne condivideva le ipotesi. E redasse,
senza consultarsi con Voltaire, una sua propria memoria, di 139 pagine, che
inviò anonima al concorso. L’Accademia
premiò Eulero, ma pubblicò sia la memoria di Voltaire sia quella di Émilie du
Châtelet, entrambe nel 1739. Quella di Émilie in forma anonima – sarà ripubblicata
col nome dell’autrice nel 1744, e ancora dopo la morte, nel 1752.
(fine)
Harry Martinson - Scrittore
svedese, poco tradotto, è stato premio Nobel per la Letteratura nel 1974. Ex
aequo con un altro scrittore svedese, Eyvind Johnson. Entrambi, Martinson
e Johnson, erano membri dell’Accademia Reale di Svezia, la stessa che
attribuisce i Nobel. Anche se non avevano partecipato alla seduta decisiva,
furono insolentiti dalla stampa svedese dopo l’attribuzione del premio. Martinson
non resse allo scandalo, si isolò, e tre anni dopo, nel 1978, si uccise (un
suicidio barbaro, con le forbici, nell’ospedale di Stoccolma dove era
ricoverato per cure)– Johnson era già morto, nel 1976, un anno dopo aver
ricevuto il premio.
Alla seduta decisiva dell’Accademia, si sa
ora dai verbali desecretati dopo cinquant’anni, era stato valutato anche un ex
aequo al femminile, tra Nadine Gordimer (poi premiata nel 2001) e Doris
Lessing (Nobel 2007). Terza scelta Saul Bellow, insieme con Norman Mailer. Quarta
Montale, che sarà premiato l’anno successivo, 1975 – Bellow lo sarà nel 1986.
Muckracker - Theodor Roosevelt nel
1906, lo stesso anno in cui si fece conferire il premio Nobel per la Pace, dopo
varie guerre per impadronirsi dei Caraibi, coniò questo termine, “spalaletame”,
per caratterizzare quello che sarà il cronista giudiziario, il giornalista che
prosperava negli angiporti delle questure – ora detto giornalista
investigativo, a caccia di segreti, scandali, delitti. È il soprannome di un
personaggio del romanzo secentesco “Il viaggio del pellegrino”, del teologo e
predicatore inglese John Bunyan.
Gaston Oulmàn – Il portavoce ufficioso della Pubblica Accusa Alleata al processo
di Norimberga, il “giornalista” inviato dalla radio di Monaco di Baviera che
quotidianamente dava alle centinaia di giornalisti il resoconto della seduta
del Tribunale redatta dagli Alleati, era uno pseudonimo. Quasi cinquantenne all’epoca
del processo, si faceva chiamare anche Oulman, senza accento, o Oullman, ma era
stato famoso come “Jo Lherman”, o Lhermann, o Yo Lehrmann, mentre di suo faceva
Walter Ullmann. Un fregoli o un houdini dei nomi e delle identità, che mutava
continuamente, anche non a scopi fraudolenti. Anche se la sua costante era la
frode.
Morì poco dopo
il processo, nel 1949 a Parigi, dopo aver disseminato di sé varie tracce:
portiere di bordello in Nord Africa, spia sovietica a Tangeri, suicida a
Casablanca, pugnalato a morte nella kasbah di Algeri. A Parigi è invece documentata
la morte nell’aprile del 1949, per problemi polmonari, nonché un’intervista a sensazione
su “Le Monde” il 19 febbraio con Friedrich Gaus, il direttore generale del
ministero degli Esteri tedesco negli anni 1920-1930, sul patto Ribbentrop-Molotov.
“Il Camaleonte” s’intitola la biografia che se ne fece negli anni 1970, quando
ebbe in Germania un ritorno di popolarità - sottotitolo “L’uomo che si faceva
chiamare Dr. Gaston Oulman”. Non era naturalmente neanche “dottore”, titolo che
in Germania era – ed è – il nostro dottore di ricerca. L’unica costante era la
truffa, un susseguirsi di truffe, anche minime, in tutte le identità che si
veniva costruendo.
Per i vecchi, e
neo, nazisti era la caricatura di un ebreo - “un uomo piccolo e magro con dita
lunghe e sporche e denti gialli” sarà per il negazionista austriaco Franz
Joseph Scheidl. Di famiglia ebraica, era nato a Vienna, dove a vent’anni,
subito dopo la Grande Guerra, aveva subito la prima condanna per truffa. Molte
accuse per truffa e qualche condanna si portò dietro poi per un paio d’anni in tutta
la Germania. A Berlino nel 1923 emerge come “Lherman”, in qualità di uomo di teatro,
attore, capocomico e regista. Mette in scena Strindberg, Wedekind, Sternheim,
viene recensito benevolmente da Alfred Döblin, frequenta Brecht, che gli riduce
“Il pastore Ephraim Magnus” di Hans Henny Jahnn da sette ore a due, e di cui pubblica
“Il ricordo di Marie A .” in una delle riviste da lui fondate, di uno o due numeri
poiché non pagava gli stampatori, “Das Dreieck” - con Brecht pubblica anche Ernst
Toller, Carl Zuckmayer, Iwan Goll. A Berlino fu più stroncato che accettato, ma
per tutti gli anni 1920 riuscì a segnalarsi nella scena teatrale. Fino alla
rappresentazione de “I fanatici” di Musil, che non trovava esecuzioni per via
della durata, quattro ore. Chiese una riduzione a Musil, che la rifiutò. Mise
allora lo stesso il dramma in scena, ridotto della metà. Musil provò a bloccare
la rappresentazione per via giudiziaria, ma non ci riuscì. Le ultime messe in
scena sono del 1930: a Monaco Claudel, “Il pane duro”, a Berlino Joyce, “Exiles”.
Poi scompare, avendo lasciato parecchi insoluti.
A Vienna nei primi anni 1830 ritorna Ullmann
e lavora nell’editoria. Poi scompare, forse in Spagna, nella guerra civile. Poiché
nel 1937 risulta arrestato a Barcellona, dove si diceva inviato dell’agenzia di
stampa americana United Press, per intese con i franchisti. A Madrid viene arrestato
nel 1941, ricercato per frode, ed estradato a Vienna. Dove il 16 settembre 1942
per frode risulta condannato a cinque anni
di carcere. Alla liberazione si dice cittadino cubano, con la nuova identità “Dr.
Gaston Oulmàn”. Riconosciuto perseguitato dal nazismo, usa il suo nuovo status
per trafficare con i membri in disgrazia del partito Nazista, cui fornisce a
pagamento tessere sanitarie, e assicura alienazioni sottobanco di reperti artistici.
Da Vienna passa poi a Monaco, dove si acquista la fiducia dell’ex famiglia
regnante dei Wittelsbach, e del commissario americano di Radio Monaco, Field
Horine. Da qui il suo ruolo a Norimberga, al processo. Dove continua a mettere
a frutto il legame con gli Alleati per fornire contatti e altri servizi utili alle
mogli di accusati eccellenti, von Blomberg, von Schirach, Hans Frank, Göring. Finito
il processo fece in tempo ad alimentare un nuovo scandalo nella Saar, allora in
semi-occupazione francese, direttore politico di radio Saarbrücken: in una
perquisizione gli trovarono lasciapassare in bianco della frontiera con la
Germania, di cui faceva commercio. Nell’agosto 1948 ci fu chi lo disse l’autore
dei falsi “Diari di Eva Braun”.
astolfo@antiit.eu
Un Barlume di comicità
Ritorno
scoppiettante dei “bimbi” del Barlume a Pineta. I quattro “bimbi”, ora tre,
seppelliscono alle Seychelles “il Rimediotti”, complice un traffico di diamanti –
Marcello Marziali che è venuto a mancare. E procedono spediti. Niente succede,
a parte il traffico necessario a “spedire” l’amico, ma non c’è un momento di noia.
La serie dei quattro,
ora tre, vecchietti di “Pineta” - che si suppone a Marina di Pisa ma è all’Elba
- è una palestra di comici in gran numero.
Compresi gli attori drammatici, Timi, Mascino, lo stesso Fresi. E in questo inizio
di stagione li fa brillare calibrati e veloci come un treno di lusso. Apre la
nuova serie Militello, speculatore di pecore a uso turistico. Con due
toscanissime contrabbandiere cinesi - un’invenzione stellare (parlano un vernacolo velocissimo che suona cinese). Non perdono battuta
i vecchi “bimbi” Benvenuti, Davini e Paganelli. Ha infine spazio il “Marchino”
cameriere del bar recalcitrante, ora trapper lanciato, Paolo Cioni. Con un Michele Di
Mauro più esplosivo che mai, Corrado Guzzanti, Messeri. E i poliziotti imbranati Marmi
e Favilla. Con un ruolo super per Valeria Vitti, la sorella dell’esule alle
Seychelles.
Roan Johnson, Non
è un paese per bimbi, Sky Cinema
lunedì 13 gennaio 2025
Problemi di base memorabili - 834
spock
“Bisogna
vivere nel qui e ora. È il presente a essere eterno”, David Hockney?
“La memoria
resiste”, A. Ernaux?
“La memoria è
più forte della realtà”, A. Ernaux?
E più reale?
“Vediamo con
la memoria. Non c’è mai una visione oggettiva, mani”, David Hockney?
Il ricordo è un
capriccio – o una consolazione (o un’ossessione)?
Il ricordo è
di oggi?
spock@antiit.eu
M – o l’indigenza in abbonamento
Irraccontabile, a
una rivisitazione, l’indigenza di questa raccomandatissima serie – “mini”, ma
già le prime due ore sono troppe. Di ideazione: lo stile “Gomorra – la serie tv”
degli sceneggiatori Bises e Serino portato in politica e nella storia è una
berlina, insostenibile. Della produzione: una serie storica in scene di compensato
è un’assurdità – il salotto di Marinetti buffone, i voli a Fiume... Degli interpreti. Con lo stralunato Marinelli
che non fa ridere (potrebbe essere Crozza, ma niente), non mette paura e nemmeno è antipatico: fa un buffone che fa
il buffone, insopportabile. Dei personaggi, tutti macchiette: Cesare Rossi - dobbiamo
ridere?, Margherita Sarfatti amante da sveltina, la moglie e i figli una raccolta
di poveracci.
La tesi è che
Mussolini non era niente, un fallito, e che il Grande Capitale lo ha imposto? Storicamente
si sa che non è stato così, ma non è necessario conoscere la storia. È che il Grande
Capitale non andrebbe ridotto a mezza scena – mezza frase.
Perché
occuparsene? È curioso che la serie, furbamente ultrapropagandata prima, un
capolavoro di arte promozionale, sia tuttora incensata. I critici della tv non
guardano la tv, le serie che recensiscono? Neanche, di passata, qualche battuta
sul cellulare?
Joe Wright, M
– il figlio del secolo, Sky Documentaries
domenica 12 gennaio 2025
Ombre - 754
“Borse, in 25 anni più
che dimezzato il peso dell’Europa nei listini globali” – “Il Sole 24 Ore”: “Il
Vecchi continente è sceso dal 34 al 14,5 per cento della capitalizzazione
mondiale. In crescita emergenti e Usa”, con tecnologia e la propensione al
rischio, cioè agli investimenti. L’Europa finisce a Disneyland, un popolo di
camerieri per un parco vacanze.
In Italia in particolare,
che pure vanta la seconda manifattura in Europa, dietro la Germania, il settore “automotive”,
al quale è ancorata la produzione industriale, “scivola tra le voci in cui prevale
il settore terziario”. È roba cioè di concessionari, che vendono auto straniere,
non fabbricate in Italia.
“Il sistema di asilo non
funziona più. Il sistema dell’immigrazione dee essere razionalizzato. Ci sono
aree in cui andrebbe ampliato e altre in cui va ridotto. Ma è il processo di
asilo che ha creato il senso di un’immigrazione incontrollata, senza rispetto per
lo stato di diritto, con gente che arriva e chiede asilo, in pratica fregando
il sistema”. È semplice e incontestato Fareed Zakaria, “analista esperto delle
questioni internazionali”, storico de “L’età delle rivoluzioni”, con Viviana
Mazza su “La Lettura”.
Lo stato di diritto, dunque.
Finirà che ne sa più Meloni delle tante giudichesse che le impartiscono lezioni
sul diritto d’asilo.
Lamenta il neo-allenatore
del Milan Conceiçao, alla prima partita in Italia dopo averle vinte in Arabia:
“In Italia si buttano….”. Vero, scene tragicomiche si succedono, con morti che subito
poi resuscitano. Senza mai un fallo di simulazione, da anni. In Italia la partita
la fa l’arbitro – le simulazioni come i “rigorini” e i fuorigioco “ombra” (l’ombra
del mignolo).
Il governo fa le nomine,
inevitabile l’accusa di abusare delle “sistema delle spoglie”. Che, Cassese
ricorda sul “Corriere della sera”, è “il nefasto sistema introdotto dai governi
di centro sinistra della fine del secolo scorso”. Destra e sinistra per me pari
sono, o dell’irrilevanza (nocività) della politica. Di questa politica
naturalmente, ma non ne abbiamo altra – e non abbiamo altro che la politica, almeno
a leggere il giornale.
Luca Marinelli, improvvisato
maestro della nazione col suo reflusso anti-mussoliniano, espone nell’ennesima
intervista promozionale del film su Mussolini di cui è protagonista una sua idea rivoluzionaria: abolire le bocciature a
scuola – lui era ripetente ripetuto. È – era – la proposta di Meloni nel 2022, del
programma di governo del suo partito.
Trump condannato in un processo farsa può dire: “È una
farsa”, e nessuno obietta. Il grande giornalismo americano si limita a
riportare “i fatti”, quello italiano ci fa due e tre pagine. Ipocrisia da una
parte, sciaquinaggio dall’altra. Nessuno che dica che è il processo di una
prostituta, che voleva altri soldi e per questo lo ha denunciato. Che Trump sia
il più pulito in tutta la vicenda, giudiziaria e giornalistica, è il segno dei
tempi: il presidente riccastro può aggiungersi alle folle anti-sistema, miracolo dei giudici (di sinistra).
Il vescovo di
Tolone ha chiese e seminari pieni. Miracolo? No, perché il papa lo silura – il
vescovo indulge(va) alle cerimonie in latino. Questo papa, più che un francescano,
è un normalizzatore – e uno ferreo, non indulge.
Una modesta produzione Sky, questo “M – figlio del secolo”,
in interni di studio poveri e scene girate in serie (poco illuminate, stesso trucco,
stessi costumi), ingigantita magistralmente con la pubblicità, e con la
prùoposta di un Marinelli indignato fino al vomito contro il “suo” Mussolini. Abile.
Ma il dittatore attrae così tanto? Considerando anche che la serie è a
pagamento, e caro – Sky costa dieci volte la Rai.
I giorni e le settimane precedenti la messa in onda di
questo “M – figlio del secolo”, la bufala di Sky, paginate sui giornali. Basta
il nome? Potenza di Lorenzo Mieli, il produttore? La sera prima promozione a reti unificate – tutta la concorrenza al
servizio di Sky: le reti tv Rai, Mediaset, La 7 all’unisono nei dieci minuti di
“massimo ascolto” auditel, e tutte le radio. Un capolavoro di promozione. Forse
anche di presa per i fondelli (i tormenti dell’attore che impersona Mussolini,
quelli di sua nonna…). Ma anche, mestamente, il mondo al tempo del mercato:
conta l’involucro, non il prodotto. E il modo dominante di (non) fare cinema: basta
simularlo.
Grottesco avvitamento del
dibattito politico sullo Starlink di Elon Musk. Non su Musk, inventivo uomo d’affari
che fiuta ricchezza anche negli interstizi, e si diverte a confondere le piste
con studiate intemperanze. Sul suo sistema di connessione, indubbiamente
vantaggioso. Un “dibbattito ideologico” di una politica che è post-ideologica
ormai da due generazioni – con la deriva grillina nel mezzo. A opera di relitti
di remoti paradigmi. E di giovani vecchi.
Non si fabbricano più
automobili in Italia, meno di mezzo milione l’anno passato. Mentre se ne fanno
anche tre milioni in Spagna, che cinquant’anni fa la Fiat abbandonava perché mercato
residuale. Era forse di cinquant’anni fa, sicuramente di quaranta, che Bob
Dylan ammoniva il sindacato in America, “Union Sundown”: “Well, my shoes,
they come from Singapore\ My flashlight’s from Taiwan\ My tablecloth’s from
Malaysia\...Well, it’s sundown on the union\ And what’s made in the USA.\ Sure
was a good idea\ ‘Til greed got in the way”. Ora, non si può accusare l’operaio
italiano, il sindacalista, di avidità (greed), ma che dire dell’intelligenza?
È la Spagna peggio governata
dell’Italia, con minori garanzie? No, è governata anche meglio.
Nella débacle di Stellantis si celebra Jeep, premiata
come “il brand più patriottico d’America per il 23mo anno consecutivo”,
che si rifornisce, cioè, fabbrica e monta in America. Non si ricorda che prima,
per una dozzina d’anni, Jeep era di Mercedes, e minacciava di affondare il rinomato
brand tedesco, benché gestita da Jürgen Schrempp, “l’onore della
nazione”, il manager più miracoloso di tutti i tempi della storia tedesca, e poi
da Dieter Zetsche, che succederà a Schrempp a capo della Mercedes. Jeep che poi
Marchionne riportò sul mercato in pochi mesi – basta un po’ d’intelligenza.
Jeep è stata rimessa in piedi
e rilanciata da Fiat - con Marchionne. Si può fare anche con poco. Non è necessario
vendersi per sopravvivere.
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Il giuramento d’Ippocrate e il paziente assassino
Il penitente del
titolo è un anziano psichiatra la cui vita viene sconvolta quando un suo
giovane paziente, omosessuale, fa una strage a scuola. Dapprima fatto bersaglio
della stampa, che gli imputa una condanna biblica dell’omosessualità da lui mai
pronunciata – una campagna a cui non c’è rimedio. Poi vittima di se stesso. In un
primo momento quando decide che il giuramento d’Ippocrate - e la Bibbia di cui
è diventato d’improvviso lettore e credente, cioè Dio - gli vieta di
testimoniare in tribunale come perito nella difesa dell’attentatore. In un secondo
e ultimo momento per un particolare che non conviene svelare. Nelle more viene a
sapere che sua moglie ha una relazione col loro avvocato e migliore amico – lo viene
a sapere dalla stessa moglie, anche lei in guerra contro l’ostinazione del marito.
Un personaggio da
tragedia greca, che Barbareschi sa impersonare in tutte le chiavi, dallo
svagato al polemico, al difensivo, al distrutto. Sfoggiando un’incredibile
somiglianza con Eugenio Scalfari, dalla scansione alla capigliatura, alla barba
e al portamento, e fin nei dettagli dell’abbigliamento – eccetto che per la kippah:
lo psichiatra-vittima si vuole anche ebreo, da agnostico o ateo improvvisamente
ebraizzante, citatore della “Torah” e perfino della “Cabbalah”. Coadiuvato da attori
inglesi. Come lui di teatro, quindi bravi attori. Specie Catherine McCormack,
che impersona la moglie, e Adrian Lester, l’implacabile Pubblico Accusatore del
secondo o terzo tempo.
Una prova di
attori. Per una vicenda in ogni momento appassionante. Se non che il film si avvale
della sceneggiatura di David Mamet, autore di teatro, che verosimilmente si è
limitato a riproporre il testo e le scene del suo dramma. Che quindi si svolge ripetitivo
– al cinema stancamente. A volte anche incomprensibile, p.es. nella serrata ma
lunga scena a due in cui il Pubblico Accusatore contesta allo psichiatra il suo
recente, opportunista?, biblismo: in teatro s’immagina faccia drizzare le orecchie,
nei tempi del cinema è una corsa, superficiale per un tema profondo.
Una pièce
nata da un caso reale, di una studentessa californiana, Tanya Tarasoff, uccisa nell’ottobre
del 1969 da un coetaneo indiano, compagno di studi all’università e suo stalker.
Che, in cura presso un psicologo, gli aveva spiegato che voleva ucciderla e come
avrebbe fatto. I genitori di Tanya Tarasoff fecero causa e il precedente fu
stabilito, dalla Corte Suprema della California, che gli specialisti mentali hanno
l’obbligo di avvertire le eventuali terze parti quando ritengono
che un paziente rappresenta per loro una minaccia.
Luca Barbareschi,
The penitent, Sky Cinema, Now
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