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sabato 8 marzo 2025

Cronache dell’altro mondo – levantine (toponomastiche) (333)

“Non si tratta solo del Golfo del Messico. O del Nuovo Messico. O della miniera Old Mexico nel Colorado. O della Mexico Public Library nel Maine. Non c’è posto negli Stati Uniti, per quanto remoto, che non abbia toponomastica straniera” - eccetto le aree desertiche. C’è un Serbatoio (idrico) Mosca, un Picco Amburgo, un Canyon Francia, una mesa Irlanda, un Point Cina, varie Venezie naturalmente, alcuni Egitto.
In molti posti, come la contea rurale Clear Creek nelle montagne del Colorado, si può circumnavigare il globo senza uscire dalla contea, dalla miniera Lepre Belga a quella Pozzo Brasile, attraverso i Tunnel Libano e la Gola Messicana.
Un’analisi minuta della toponomastica porta alla conclusione che “il paese straniero che più minutamente ha infiltrato gli Stati Uniti è … la Turchia!”: 73 aree residenziali, 496 siti geologici, 1.248 bacini idrici, 419 “altri” (include aeroporti, ponti, edifici, cimiteri, chiede, ospedali, scuole), più 490 Turkey Creeks (corsi d’acqua) e 12 Turkey Creek cimiteri. O la Turchia nel mezzo del Levante; Giordano ricorre 1.020 volte, Libano 995, Israele 607, Palestina 314.
I vicini ricorrono poco: il Messico 542 volte, il Canada 277. Fra i più quotati i paesi europei (con poca Italia, poche Venezia, un paio di Roma): Francia 1.351, Olanda 1.065, Germania 1.000, Inghilterra 800, Spagna 728, Irlanda 459.
Sono cinesi 912 toponimi.
(“The Washington Post”)

La storia non si addice alla Calabria, le controstorie sì

Una “controstoria” necessaria, perché la storia della Calabria è afflitta da preconcetti, essenzialmente laico-unitari, e poi, per il breve-lungo dopoguerra, da quelli presunti marxisti – la storia delle formule vuote. In parte umorale, per quanto documentata, come è nel carattere dell’autore, sanguigno polemista di Soverato, classicista (grecista) tourné filologo, anche se di grande capacità applicativa.
Un saggio di spunti, di umori, per lo più controcorrente. Però, bisogna dire rivoltando il giudizio d’insieme, con una documentazione nuova notevolissima. Bastino le nomenclature, topo e onomastiche, greche, arabe, gli elenchi (i santi greci, i cenobi bizantini…), le personalità
Tratteggiate, Cassiodoro, qui per una volta in dettaglio, o i maestri di greco del Trecento, del papato e di Petrarca e Boccaccio), il ruolo e i luoghi dei Longobardi, l’elenco delle “ville” e dei presidi romani.
Singolare all’apparenza, ma molto veritiero, l’assunto che che in Calabria non si fece cultura, popolare, diffusa, perché non ci fu il feudalesimo – né poi la signoria: “Alcuni baroni furono degni di nota per azioni di guerra o buona amministrazione; i più, non lasciarono alcuna memoria”, e “tanto meno stimolarono o pagarono poeti e pittori” – al punto che delle gesta della “Chanson d’Aspremont” e del romanzo “Aspramonte”, Due-Trecento, “leggiamo sì, ma nei versi del Boiardo e dell’Ariosto di Ferrara”.
La Calabria è ed è stata molte cose diverse, e senza continuità, nei quattro millenni della storia che conosciamo. Anche perché “mole volte è successo che si interrompesse ogni continuità”. E, si può aggiungere, non ha avuto e non ha un centro, una capitale, un governo, un indirizzo, che dia un indirizzo e con cui confrontarsi. Nisticò, vagando, ne riempie parecchi vuoti, con piglio sempre, di lettura.
Le controstorie, si sa, non sono documentabili, o difficilmente e parzialmente.  Questa non è diversa. Ma l’impressione è di una scoperta corroborata da situazioni di fatto quando riscontrabili all’esperienza personale o a conoscenze specifiche. Di una Calabria infine liberata dal “pittoresco” dei viaggiatori, e dalla sociologia disperante del dopoguerra - specie da quella inesauribile delle mafie.

Il modo di procedere delle tante “controstorie”, o “controspigolature” – “controanagrafe”, “controantropologia,”, “controaoristo”, ce ne sono una trentina - è questo: non è vero che “nell’Italia settentrionale ci fu e c’è una tradizione comunale e da noi no…. c’era il feudalesimo”. Per esempio Catanzaro, “città industriale e perciò a prevalenza popolare”, nel 1473 si è data e poi ha conservato degli statuti democratici di prim’ordine. Documentati punto per punto, per una decina di pagine. Ma il resto delle Calabrie? E così via.

Ulderico Nisticò, Controstoria delle Calabrie, Rubbettino, pp. 213 € 14

venerdì 7 marzo 2025

Gita a Chiasso urge

Gabriele Romagnoli va in vacanza alle isole Svalbard da sempre norvegesi e ci scopre “l’orso russo”. Anche lì – questo Putin è come Dio, in ogni luogo?
Non solo: in quelle isole, dove tutti si trovano bene (col tempo buono), lo scrittore esploratore trova “un passato fatto di miniere di carbone, un presente di navi da crociera che sbarcano ogni giorno centinaia di turisti e un futuro su cui incombono le mire di Mosca”. Un viaggio alla Cayenna?
La Camera discute di Niger, paese corteggiato da un decennio dall’Italia come frontiera anti-immigrazione, perché “dialoga con Russia e Iran e ha appena scalzato il presidente Barzoum che era sostenuto dall’Occidente”. “Appena”, cioè due anni fa – poco meno. Un presidente “sostenuto dall’Occidente”? Cioè dalla Francia.
Si vede per l’Europa un futuro africano. E di democrazia – di cui l’Europa si vuole maestra. E si ignora che in Africa un regime democratico, uno solo tra i 54 del continente, non c’è – in alcuni si vota, anzi in (quasi) tutti, ma sempre per un boss.
Si fa descrivere Trump 2, a giorni alterni, allo scienziato politico Michael Walzer, che lo odia. Non c’è altro negli Stati Uniti, che sono un paese così grande, con tante università? O l’America è ancora da scoprire?
E la Germania quanto è lontana, questa sconosciuta? Su “la Repubblica” Mirella Serri e Francesco Merlo uniti nella lotta vogliono la Germania “la patria dei tradimenti”. Dei tradimenti?
Sono sessant’anni, sessantuno per essere esatti, che Arbasino consigliava sul “Giorno”, il 23 gennaio 1963, la “gita a Chiasso” ai letterati italiani, alla frontiera, un invito a conoscere il mondo, e niente, siamo sempre lì. È vero che c’è stata nel mezzo la riforma Berlinguer delle scuole che ha abolito lo studio della geografia. Però, si fa tanto turismo allora per che, passare il tempo?

Oriana appattita dalla (mega)produzione

Un disastro per Rau 1, doppiata negli ascolti perfino da Rai 2 - da una trasmissione di comici che Aldo Grasso vuole “una ciofeca” - la miniserie al terzo appuntamento mostra, sfumato l’effetto novità, un difetto perfino assurdo di programmazione. Di sceneggiatura? Di produzione? 

Questi otto episodi sono i primi di una serie che si vuole pluriennale: una megaproduzione - per le ambientazioni se non per i personaggi, pochi e ritornanti dopo le sorprese della prima serata – per un impegno pluriennale. Che rischia però di arenarsi al primo passo.
Con un secondo errore in coda: basare la sceneggiatura sui libri di Fllaci. Cioè su una sola memoria, o punto di vista. Onesto o artefatto che si voglia ma solo uno. Così i terzi episodi sono naufragati in un’insulsa storia di amore eterno col giornalista Alfredo Pieroni, magari anche non vera – Pieroni era un tipo piuttosto freddo. 
Luca Ribuoli,
Miss Fallaci, Rai 1


giovedì 6 marzo 2025

Ombre - 764

Il capo della Cia Radcliffe annuncia che l’agenzia di spionaggio americana non “condividerà” più con l’Ucraina le sue informazioni - ha sospeso lo scambio. Si spiega per l’occasione che i satelliti spia e gli aerei americani “sono stati cruciali per colpire obiettivi russi e per evitare attacchi”. Cosa che si sapeva, “cruciali” per gli assassinii eccellenti in Russia, le flotte di droni sul Cremlino, le incursioni in territorio russo, con precisione sul ponte di Crimea, e sulle navi nel mar Nero. Ma non veniva detto, giusto questo sito ne prendeva atto

http://www.antiit.com/2024/08/ombre-733.html

 
Uno Stato dell’Unione di un’ora e mezza si ascolta per quello che è, un discorso alla Castro, stesso ego, o lo sproloquio di un ottantenne, incontenibile. Cioè non si ascolta. Quello che fa impressione è l’attenzione con cui seguono Trump il suo vice Vance e lo speaker dei Rappresentanti Mike Johnson, sempre inquadrati dietro il presidente. Non si perdono una parola – per un’ora e mezza (saranno stati mummificati)?
 
Si leggono senza stupore le cronache, pure incredibili, burattinesche, di Bruxelles sul Qatargate: giudici incapaci, imbroglioni, al meglio superficiali, che solo si impegnano a incriminare eurodeputati, preferibilmente italiani – la corruzione è italiana - e dem. Non tanto per il taglio politico, ci devono pure essere giudici di destra. Ma per lo stato confusionale. Poi uno guarda ai nomi di questi inquirenti e si chiede: è così che funziona una società multietnica?
 
L’ad di Unicredit Orcel può dire infine la sua, dopo mesi, al governo sull’offerta di acquisto-scambio di Bpm. Ma solo a un capo di gabinetto, non al ministro del Tesoro, nemmeno al sottosegretario Mantovano, di palazzo Chigi dominus. Avrà toccato infine con mano che non è gradito al governo. È bizzarro: le partite in corso, Unicredit-Bpm e l’incredibile Monte dei Paschi-Mediobanca (Generali), sono politiche. Palesemente. Ma non si dice.
 
Orcel, una vita tra le megafusioni (compresa la creazione di Unicredit vent’anni fa), ma tra Londra e Zurigo, non ha ancora capito l’aria che tira in Italia? Non si dice nemmeno, a proposito di Mps, che fu lui, come banchiere d’investimento, a dare il colpo forse fatale alla banca senese, allora di provincia e di partito (l’ex Pci), consigliando l’acquisto poi fallimentare di Antonveneta, e a un prezzo esagerato.

Ma non si intrufola il golden power dappertutto? Non è troppo per il governo, regolare ogni minuta acquisizione? Il fascismo (dirigismo, minuti controlli) fa male ai governi, la libertà funziona meglio - con gli affari si perde tempo e non si stringe  nulla, il mondo del denaro è infido. E la gestione del golden power è affidata a giurisperiti, figurarsi. Se la legge lo impone al governo, il governo dovrebbe cambiare la legge - perché lasciarsi invischiare, in beghe di potenti?
 
La Lega di calcio di serie A, venti squadre, ha nove proprietà statunitensi e una canadese – e progetta persino di giocare qualche partita in Nord America. Su questo terreno l’Occidente è ben unito. Rinsaldato dalla serie B, tre club americani.
 
Ma si direbbe il calcio l’unico terreno d’investimento fertile per imprenditori stranieri: in serie A c’è pure una proprietà rumena, e una “londinese”, di una finanziaria - di un imprenditore indonesiano. In serie B ci sono tre proprietà americane e una “londinese”, del fondo emiratino City Group che a suo tempo acquistò il Manchester City per promuovere la compagnia aerea di bandiera Etihad – uno dei tanti investimenti dell’Abu Dhabi Investment Group, gestito dal principe Mansur bin Zayed el Nahyan, che il calcio ha affidato a Khaldun El Mubarak – ha dotato il Palermo di un centro sportivo, e ha iscritto il club all’Eca, l’associazione del calcio europeo, già presieduta da Andrea Agnelli.
 
Cristiano Ronaldo non gioca in Iran, non viene neppure convocato, il match a eliminazione di Champions League con la sua squadra saudita perché in Iran rischierebbe l’arresto e 99 frustate. Motivo? L’avere abbracciato una ragazza disabile in occasione di una precedente trasferta in Iran, tra la folla curiosa che lo attendeva davanti all’albergo. Una storia inventata dai sauditi, notoriamente nemici dell’Iran?  No, dalla minaccia si scrive in Iran, della donna si danno generalità e tutto.  E pensare che l’Iran è uno dei paesi più civili al mondo - era.
 
Si consacrano molte pagine e molti minuti alle proteste in America contro Trump. Senza immagini, poiché protestano poche persone, decine. E senza spiegare il come né il perché. Sottinteso: perché ha trattato male Zelensky. Mentre, a parte i (pochi) russi anti-Putin, gli americani che protestano lo fanno contro i licenziamenti negli uffici pubblici.
 
Si dispiegano paginate e commenti sul cattivo trattamento subito da Zelensky alla Casa Bianca. Di sdegno al calor bianco. Invece di spiegare il come e i perché, e perché Zelensky si dica dispiaciuto e chieda scusa. Il solo linguaggio è un titolo, oltraggioso? Ma non è una partita, è una guerra.
 
Un lungo saggio di Ferruccio de Bortoli apre il supplemento “Pianeta 2030” del “Corriere della sera”: “Si è squarciato il velo di ipocrisie e conformismi collettivi verdi”. L’ecobusiness è un’operazione industriale come tante altre, ma fa perno sulla buonafede – sui soldi pubblici, le “provvidenze”. E come se il parroco approfittasse della buonafede dei credenti per le elemosine.
 
Poi, però, lo stesso supplemento non resiste alla tentazione, e a p. 16 si esalta: “In Lombardia il maggior numero di aziende ‘eco-oriented’. Banche e assicurazioni sono le prime”.
Banche e assicurazioni? Si dipingono di verde? Fanno più pubblicità.
 
La Wada si precipita a spiegare al “Corriere della sera” come e perché ha “dovuto” fare qualcosa contro Sinner, per un peccato che già la regolamentazione in atto, ma attiva fra due anni, considera ininfluente – oggetto di rimprovero e non di squalifica. La Wada cerca di lavarsi la faccia. Nel quarto di secolo di esistenza connotata ampiamente per fare quello che volevano gli Stati Uniti dapprima, contro i russi e altri concorrenti, poi al soldo della Cina – fino all’Olimpiade di Parigi.
Non c’è sport pulito?
 
Nela prima gara della stagione il motociclista Bagnaia viene penalizzato, per un errore dell’organizzazione. Che però non gli toglie la penalità. Parte dietro e arriva terzo. Non protesta nemmeno la Ducati, la sua casa motociclistica. Che si gode il success dei fratelli Marquez, tanto più d’immagine, due fratelli, primo il più anziano, etc.. I Marquez sono anche freschi, mentre Bagnaia è
reduce da uno stancante collaudo di mesi del nuovo mezzo. Non c’è niente di sportivo nello sport?

L’Europa è rimasta sola

Non si dice per convenienze politiche - è la proposta europea di Meloni? Ma si sa: l’Europa non deve perdere il contatto con gli Stati Uniti, anche con Trump. Tempeste analoghe sono state ripetutamente superate in ottant’anni di atlantismo. Oggi, di più, l’Europa non ha alternative. Gli Stati Uniti di Trump, isolazionisti nel vecchio gergo, puntano a reggersi su un tripolarismo Usa- Cina-Russia – meglio su un bipolarismo asimmetrico, con la Russia al carro degli Stati Uniti di preferenza che della Cina.
Comunque, anche ammesso che questo non sia in realtà il disegno di Trump, o che il tripolarismo non funzioni, l’Europa ha scoperto nella guerra di essere sola – al carro di Biden “ucrainiano” prima, ora, con le mutate strategie geopolitiche americane, sola. Non ha potere contrattuale, e non ha potere intellettuale, o emotivo. Il “Grande Sud” del mondo, o Global South, il mondo al di fuori dell’Occidente, dell’Euroamerica cioè con le appendici orientali, Giappone, Corea del Sud, Australia, non si è schierato nella guerra. La Cina come l’India e il subcontinente indiano, il mondo arabo, l’America Latina, l’Africa.

 

La scoperta dell’Africa, nma

 “C’è un’Africa lontana da golpe e guerre, corruzione, neo colonialismi?”, s’interroga retoricamente il “Corriere della sera”. C’è poco da dubitare: “Un continente di 54 paesi dove l’età media è 19 anni”, con “miliardari in crescita e conflitti feroci”. Ed è il nostro futuro, il giornale sottintende anche minaccioso, “un miliardo e 400 milioni sono in cammino per trovare il benessere che meritano”.
Non si dice dove, ma il sottinteso è chiaro. “Nei prossimi 25 anni la popolazione raddoppierà, fino a 2,5 miliardi: un quarto dell’umanità (nel 1950 era l’8 per cento) sarà africana”. E non sanno che fare: “I milionari aumentano come in nessun’altra parte del mondo: entro il 2027”, domani, “saranno 768 mila. Ma 600 milioni”, la metà della popolazione, “non hanno l’energia elettrica”.
“Hai fatto la scoperta dell’Africa, la quale era stata scoperta prima di Gesù Cristo”, era un intercalare alle medie dell’insegnante di storia e geografia per ogni ovvietà che lo contrariasse. Ma “non è mai troppo tardi” è anche un mantra fortunato.

Acrobazie tra Roma e Venezia

Al settimo appuntamento della serie, e con un budget ora inarrivabile di 300 milioni, Ethan Hunt-Tom Cruise, la serie inventata venticinque anni da Brian De Palma, ha soppiantato James Bond-Sean Connery. Anche nelle location. Sempre Nevi (Norvegia, Austria) e deserti (Emirati) e le città d’arte di contorno, per far sentire a casa. Qui Roma, per un inseguimenti in auto e moto fra le strade acciottolate del cenro, con un po’ di Castel Sant’Angelo e di Fori Romani “metafisici” – senza traffico né turisti. E Venezia, senza l’acqua, e notturna – gotica. Due ore e mezza di svago, l’adrenalina è poca, e poi i nostri arrivano sempre.
Più golosa l’economia della produzione. Un progetto da 291 milioni di dollari che, benché funestato dal covid durante la lavorazione, si è fermato a 219 di spesa effettiva, con un incasso due volte e mezza la spesa, 571 milioni a fine 2023 (173 in America, 398 all’estero), che però ha rischiato di finire in perdita (molta parte del fatturato va alla distribuzione, etc.) – la produzione è stata salvata dalle controassicurazioni.
Christopher McQuarrie, Mission Impossible – Dead Reckoning, Canale 5, Infinity

mercoledì 5 marzo 2025

Le ragioni del folle Trump

L’obiettivo di politica estera di Trump, quello centrale, mondiale, si precisa: rompere “l’asse del male”, per dirla con Reagan, anni 1980, Russia-Cina-Iran. Agendo sulla Russia, che Washington individua come il soggetto sui cui è possibile esercitare il massimo leverage.
Una Russia non più legata alla Cina ne riduce il potenziale concorrenziale in termini militari. Per mantenere il canale preferenziale con Washington, inoltre, non si dubita che Mosca agirà da calmiere sui rincari, politici e anche militari, che Teheran minaccia: l’arma nucleare, l’instabilità nel Medio Oriente arabo, tra Hezbollah e Houthi.
Vittima di questo riavvicinamento, considerato strategico, l’Ucraina , con la “pace trumpiana”. Ma non del tutto. A farne le spese dovrebbe essere il cosiddetto integralismo ucraino, antirusso. Che è il fattore politico su cui Zelensky è arrivato alla politica, facendone una forza – ora però, a giudizio di Washington, molto indebolita.

Ucraina a corto di uomini più che di armi

La fine della guerra – se non la pace, forse impossibile – si manifesta necessaria anche per Zelensky. Tornato in patria e pressato dai comandi militari, gli stessi da lui nominati, di fiducia.
Non c’è unità negli stati maggiori ucraini e non c’è molta disponibilità nella popolazione, non c’è più. A Kiev si parla apertamente, anche se per escluderla, dell’ipotesi di un cambiamento politico al vertice. Non radicale, con una coalizione che non escluderebbe Zelensky, ma indubbiamente sostanziale: per dare più peso all’Ucraina (e meno rigore?) nel negoziato per la fine della guerra, dato per scontato.
Il punto di rottura sarebbe l’impossibile arruolamento: va fatto con i carabinieri – l’equivalente ucraino dei carabinieri – e con risultati insufficienti. Non da ora, da qualche tempo. Il blocco trumpiano degli armamenti, ammesso che vada a effetto, sarebbe a breve ineffettuale, gli arsenali sarebbero stracolmi.  

Ma che guerra abbiamo visto

Si apre il giornale con paura. Anche in questi giorni in cui il problema non è tanto la guerra, ma se e come vi si porrà fine. Niente, sono sempre storie di torture inflitte ai prigionieri ucraini in Russia (mostrati invece ben pasciuti e rasati nelle foto della liberazione…), di missili russi su scuole e ospedali in Ucraina, e di 20 mila bambini ucraini rapiti dai russi (ventimila?). Storie lunghe, una pagina, anche due, che si ripetono, riraccontate, spesso dallo stesso giornalista. Ma cosa vedono, questi inviati? Cosa sentono? Messaggi veicolati da agenzie di promozione, uno al giorno – le solite “false notizie” di guerra.
Le notizie non mancano, in lingua se ne trovano, nei giornali e le tv straniere. In Ucraina, evidentemente,  la censura di guerra è molto liberale. I media italiani  invece, specialmente i grandi giornali e i telegiornali, Sky soprattutto, e Rai, Fininvest, non vanno oltre le “false notizie” di guerra. Le redigono in pool? Mentre noi non siamo vittime da rincuorare o fan da ricaricare, siamo spettatori di una guerra vicina. Di aggressione, sporca, cattiva, eccetera, ma pur sempre un evento che succede, secondo modalità che sono quelle reali e non quelle delle storie pronte fornite da agenzie pubblicitarie.

La scoperta dell’America, di Trump

Un saggio in sessanta pagine, molto gornalistico, anche cronachistico, di lettura agevole e piacevole, che vale un trattato socio-politico. Per l’indigenza degli studi in Italia, e di un giornalismo neghittoso? Quello che sia, ma le cose che non sappiamo evidentemente sono molte, se questa brochure è una sorpresa. Anche, o più, per la corposità del soggetto. A  partire dai dazi, la questione che ci toglie il fiat, sembra.
Una trattazione preceduta peraltro da una excusatio: “Gli stessi americani sono a maggioranza scontenti, pessimisti, sfiduciati” – “i due terzi pensano che l’America sia su una cattiva strada, il 70 per cento pensa che la situazione economica sia negativa, la reputazione delle istituzioni è calata ai minimi storici, solo il 20 per cento degli americani ha fiducia nel proprio governo”. E i problemi non mancano, per primo “il debito totale - sommando, com’è giusto fare, quello pubblico a quelli privati - ”, che è al 255 per cento del pil. E hanno votato Trump, come a dire peggio non può andare, vediamo se questo cambia qualcosa. Senonché “il debito della Cina è al 300 per cento del pil. E la Cina non ha una moneta che tutti vogliono”. Il dollaro è sempre sovrano, è il 60 per cento delle riserve valutarie mondiali, ed è usato in nove compravendite su dieci, e in sette su dieci operazioni finanziarie. Cinquant’anni fa “l’America era il più grande importatore mondiale di energia…. Oggi ha conquistato l’autosufficienza energetica, ha sorpassato Russia e Arabia Saudita nella produzione di petrolio e gas, e al tempo stesso” ha ridotto le emissioni carboniche pro capite “a livelli equivalenti a 110 anni fa”.
E l’economia americana è la più solida e la più equilibrata socialmente, malgrado la sfiducia dei sondaggi. Sono giusto gli europei a cullarsi nello stereotipo dell’America dei riccastri, “il Far West del capitalismo selvaggio, il paese delle disuguaglianze estreme. Ma è negazionismo allo stato puro”. Negli Stati Uniti i redditi più bassi aumentano da trent’anni “in misura superiore alla media” – i redditi del 20 per cento più povero sono aumentati del 74 per cento, contro una media complessiva del 55 per cento. E più sono aumentati negli ultimi sei anni. Del resto, l’America è il polo di attrazione maggiore delle migrazioni spontanee “(europei inclusi)”.  
Gli Stati Uniti hanno il 26 per cento del pil mondiale, “la stessa posizione che occupavano agli inizi degli anni Novanta”, quando erano la sola superpotenza. “Nel 2008 le economie degli Stati Uniti e dell’eurozona si equivalevano, oggi quella americana vale il 40 per cento in più” - effetto dell’Europa al traino della Germania di Merkel, va aggiunto, del “troppo poco troppo tardi”, ma questo è un altro argomento, Rampini si limita alla constatazione.
E dunque, perché l’America scontenta si è affidata a Trump? Perché è fatta così. Lo aveva già fatto, con Reagan, “cowboy rozzo e ignorante”, nel 1980, e le è andata bene – dopo il Watergate, la sconfitta in Vietnam, l’invasione di macchine giapponesi e tedesche: Reagan che ribalta tutto, sindacati e statalismo, contro scioperi di mesi, altra presidenza, va aggiunuo, che debutta con una selva di ordini esecutivi, e Obama dirà “uno dei più grandi presidenti della storia” – all’insegna, anche allora, del “Make America Great Again”.
Terrificanti, benché fattuali, le due pagine centrali sui democratici che “hanno fatto di tutto per resuscitare il Vecchio Donald”. La Silicon Valley una oligarchia? nazifascista? Musk e Bezos fino al ciclo elettorale precedente avevano sostenuto i democratici, senza scandalo. Soros “ha versato in finanziamenti alla campagna del partito democratico il quadruplo dei fondi che Musk ha dato a Trump. Altri miliardari (Bill Gates, Michael Bloomberg) hanno continuato a sostenere la sinistra. Kamala Harris ha incassato e ha speso molti più soldi di Trump nel 2024”.   
C’è, non detta ma ben rappresentata, la verità che l’America non è l’Europa, sofisticata, accigliata, maestra di scuola. Quando le cose non funzionano l’americano cambia, radicalmente. Questa rivolta Rampini spiega in entrata plasticamente, con un’immagine: quella di un ex presidente, Trump, “soggetto al rito della foto segnaletica”. Una umiliazione? Un abuso, che i Democratici non capiscono (“un criminale alla Casa Bianca?” fu lo slogan di Kamala Harris in campagna elettorale), di cui Trump ha fatto un’arma: esibendola sui social per due anni e sette mesi, in campagna elettorale con un link per la raccolta fondi, sopra lo slogan “Mai arrendersi”. Un mondo da Far West? Un mondo stanco di falsi processi, di “un’impunità permissiva” teorizzata e applicata da troppi giudici, i furti nei negozi “tollerati e depenalizzati” – dalla stessa Harris, procuratrice federale a San Francisco, p.es. – specie per “delinquenti appartenenti a minoranze etniche «protette»”. Così come le intemperanze del Black Lives Matter, gli assalti di gruppi radicali di sinistra a “sedi governative, commissariati di polizia” – su cui si conformeranno i trumpiani dell’assalto al Congresso: “Tutte cose che hanno contribuito a spostare a destra anche fasce consistenti di black e latinos: perché proprio nei loro quartieri l’insicurezza è più elevata”.
Tutte cose, si può aggiungere, che l’ora vice-presidente Vance raccontava e spiegava nel suo bestseller “Hillbilly Elegy” dieci anni prima. E per i bianchi – che “sono pur sempre il 60 per cento della popolazione” - l’insopportabile aggravio della cancel culture e della critical race theory: non ci sono farabutti nella storia che bianchi.
Che cosa attendersi?  Sul riequilibrio politico e militare tra Stati Uniti ed Europa già molto si sa.  Sui dazi invece no: “Il livello medio attuale dei dazi Usa è del 2 per cento”. Sarà vero? Certo è facile per gli europei vendere automobili in Usa, impossibile per gli americani venderne in Europa – a meno di non fabbricarle in Europa. E così per molti altri prodotti, compresi quelli agricoli. Di certo la minaccia dei dazi funziona. Per ora sempre rinviata, ha visto Messico e Canada impegnarsi positivamente a ridurre le distanze.  

Sui dazi Rampini fornisce un insight che avrebbe dovuto figurare da tempo nell’informazione: come già Milton Friedman per gli anni di Reagan, c’è ora in America un titolato teorico dei dazi, Stephen Miran, che Trump ha messo a capo dei Consiglieri Economici della presidenza. Non altrettanto titolato che Friedman, che era già premio Nobel, ma accademico e agguerrito sì: i mercati concorrenziali ipotizzati dal liberismo non esistono, il sistema produttivo che condiziona I mercati internazionali, quello cinese, è dirigista e statalista, quindi i dazi sono necessari, contro il dumping. Gli Stati Uniti sono d’altra parte il più grande mercato d’importazione. Effetto dei dazi bassi o inesistenti. Potrebbero mettere a frutto questo fatto, sempre secondo Miran, farne una posizione di forza – un monopsonio, monopolio al consumo – per imporre dazi anche elevati: i venditori si affretteranno ad assorbirli nei prezzi che praticano, non potendo rinunciare a vendere negli Usa. Ipotetico, ma possibile - quello che è certo, si può aggiungere, è che i dazi sono stati causa ed effetto della Brexit.

Un’analisi forte, fattuale. Tra situazioni reali, locali, eventi, festival perfino, e un viaggio a Miami. 

Federico Rampini, Quello che dovete sapere sull’America di Trump, “Corriere della sera”, pp. 60, gratuito col giornale

martedì 4 marzo 2025

Secondi pensieri - 555

zeulig


Anima – Non c’è, non può essere trovata-provata. Ma ognuno senza eccezioni si comporta (pensa, agisce) come se ci fosse, per avventure, anche solo della mente, fantasie, desideri, renitenze, resistenze.
 
Destino – È una cosa a Roma e un’altra in Grecia. Qui era “moira”, come a dire una parte, una porzione. Di un insieme più vasto - il mondo, l’umanità? Una quota societaria - familiare, di stirpe, di comunità, di varia umanità?. A Roma è fato: “fatum”, detto. Come una sentenza già pronunciata. Ma in sintonia con la Bibbia – “in principio era il Verbo”.
 
Eugenetica – Ritorna con la “buona morte”(ora in Veneto) – ma non era mai scomparsa. Praticata alla nascita con le compatibilità preliminari di coppia più o meno diffusamente in Scandinavia. E alla morte indirettamente, p. es., in Olanda e Germania, dove non si praticano cure impegnative, soprattutto non chirurgiche, su malati gravi dopo i 75 anni. In Germania da almeno tre decenni non si operano di tumore gli ultrassettantacinquenni, per economizzare. Sulla traccia aperta ormai un secolo fa da due personalità molto liberali – oggi si direbbero di sinistra: Alfred Hoche e Karl Binding, un medico e un giurista, pubblicavano nel 1920 un “Via libera all’annientamento della vita priva di valore vitale”. Un volumetto che è quasi una guida, spirituale e materiale alla “buona morte”.
 
Il nome è benevolo, la disciplina di filantropi, Charles Davenport, e poi Margaret Sanger, quasi una santa della sessualità senza conseguenze. Davenport spiegava: “Il programma generale dell’eugenetica è chiaro: serve per migliorare la razza inducendo i giovani a compiere una più responsabile selezione nelle scelte matrimoniali; innamorarsi intelligentemente. Include anche il controllo dello Stato sulla propagazione di persone mentalmente incapaci”. Nonché sul fine vita, che non sia dispendioso. Se la bontà è la morte.
 
Morte – Acquieta i vivi. Nel compianto e nel rifiuto, anche aspro – per elaborazione del lutto ardua o polemica. Un altro soggetto si erge, come i viventi lo vogliono, o lo vivono.
 
Natura naturata – Mossa (generata) da un principio estetico più che economico è la conclusione di E. Jünger nel suo felice soggiorno in Sardegna nel 1954 (“Presso la torre saracena”): “Che dietro la natura naturata si celi un principio artistico piuttosto che un principio meccanico-economico, questo sfuggirà sempre a chi a chi sa concepire la Creazione non nella simultaneità del grande progetto e del reale che lo incarna ma soltanto nella successione dei fenomeni, nella loro dissezione. Ma già lo sperpero lo attesta, lo splendore principesco. La Bellezza la vince, e di gran lunga, sulla funzionalità”. O il rapporto non è di casualità? Il brutto, l’avido, il distruttore costeggia il creativo, magnanimo, il costruttivo - il caso la finalità.
 
Potere – Quello della rete sembra quello di Hobbes, là dove lo magnifica come il mastice della socialità (senza un potere che incuta soggezione l’uomo non trova piacere – voluptas - nella compagnia, anzi ne ha dispiacere – molestia). Potere hobbesiano come alterità, il diverso, il fuori di noi. Mentre il pieno della vita, si direbbe, ognuno dovrebbe dire, è dove non c’è un potere, anche se solo regolatore. 
Storia “Dovremmo domandarci talvolta come la successione si metamorfizza in simultaneità. La storia diventa stratificazioni, di strati sovrapposti (storia di storie), la successione temporale si muta in immagine nello spazio. I piani di città e di comunità rurali addizionano epoche che, ora, si rivelano istantanee, sotto le specie di costellazioni, di disegni nella tappezzeria”.
Come la storia si fa immutabile, un già detto, un già fatto. Mutando.
L’evoluzione - la storia - è lenta. Con accelerazioni – catastrofali.
È piena di oggi. E di scarti, che se non si vedono però zavorrano.


Tempo – “L’affermazione secondo cui il nostro tempo”, ancora E. J
ünger in viaggio in Sardegna nel 1954, “non è in grado di generare artisti è oggi un luogo comune. Ciò significa capovolgere le gerarchie. L’artista non aspetta il tempo. È questo, al contrario, che attende con ansia il cenno dell’artista: nel momento in cui l’opera gli riesce, ha liberato il tempo”.


Utopia – Più che per il senso comune è dignificante etimologicamente: senza posto, più che luogo che non esiste della definizione del vocabolario. Nessun posto.  Non di interesse, se non nel nulla, nel vuoto e/o nell’inutilità. Essere senza un “posto” non è non essere. È non significare, non dialogare, essere ma non esistere. interferire, influire.
 
Vita – Sarà la vita un sogno, ma un sogno ben reale: sono le sue banalità – occorrenze, intuizioni – la vita ne è sempre piena, di sensi e di significati.
La vita è un miracolo, inspiegabile. Non come si produce, è un processo chimico-fisiologico (così anche la morte), ma così e perché.

zeulig@antiit.eu


Dio in musica

In dialogo con Massimo Cacciari, Muti analizza il senso, la tradizione, e l’immaginazione che evocano delle ultime parole di Cristo in croce. Partendo dalla musica di Haydn, “Sette ultime parole del nostro Redentore in croce” - un tema tradizionale della poesia e la riflessione tedesche, di Jean Paul più intensamente e di altri – nella redazione in forma di oratorio, per soli, coro e orchestra. In una con la Crocefissione come tema di riflessione in immagine, da Masaccio a Kiefer.
Il dialogo s’instaura nel quadro del progetto di Cacciari “Icone. Pensare per immagini”. Qui allargato alla musica – tonalità, timbro, dissonanze, armoniche, “pizzicato”, etc. Esercitato sulla pietà, umana e religiosa: come “si vede”, come “si sente”. Cacciari ha individuato l’oratorio di Haydn come tema e il maestro Muti come interlocutore dopo avere ascoltato l’esecuzione al Ravenna Festival del 200 con i Wiener Philarmoniker, nella basilica di Sant’Apollinare in Classe.
Una guida all’ascolto di Haydn, ma molto anche di più. Della religiosità, della pittura (immagine, immaginazione), dei moti emotivi dell’animo (accordi musicali). “Di Dio non vi può essere altra immagine”, conclude Cacciati, “se non quella che immagina la sua stessa irrappresentabilità”. L’opposto dell’iconoclastia: “L’iconoclasta crede di onorare il suo Dio negandogli la rappresentazione. La musica l’onora ponendosi al suo ascolto”.
Riccardo Muti, Le sette parole di Cristo, Il Mulino, pp.133, ill. € 12

lunedì 3 marzo 2025

Due o tre cose da sapere sull’Ucraina

C’è molta animosità nei media, contro Trump e, se non bastasse al tifo, l’unica forma di comunicazione rimasta, contro gli Stati Uniti in generale – potenza a volta a volta o troppo forte e spregiudicata oppure debole e inetta. Come se dovessimo liberarcene e anzi fargli un po’ la guerra. In astio a Trump sicuramente, ma anche all’America. Mentre l’appiglio è quanto meno fallace: la guerra in Ucraina non si può vincere, ed è ora opinione comune, in America e in Europa, che non bisognava provocarla, con l’Ucraina nella Nato – come Washington sapeva, ma anche i governi europei.
Trump e Vance non hanno insolentito Zelensky in quanto capo dell’Ucraina, ma come quello che si frappone al negoziato con la Russia, comunque. Da qui l’accusa pubblica di ingratitudine. Zelensky si è scusato pubblicamente del suo atteggiamento, ed è alla ricerca, dice, di un nuovo contatto per rimediare. Dopo aver visto passi inequivocabili per sostituirlo?
Macron e Starmer sono stati a Washington cone premesse diverse: Macron per apparire, come è suo solito, dopo aver proclamato un insostenibile “faremo da noi”. Starmer per coordinare l’inevitabile coinvolgimento europeo nella sicurezza, diplomatico si spera, ma forse anche militare, con gli Stati Uniti – da qui il suo dialogo a due con Meloni.

 

Letture - 571

letterautore


Allen Ginsberg – “Sono andata a una lettura eco-femminista”, a Boulder, Colorado, scrive Lucia Berlin nel “Diario del Naropa Institute,1990”, un frammento incluso in “Una nuova vita”: “Credevo c’entrasse qualcosa con il riciclo degli assorbenti. Magari. Mi hanno presentato Allen Ginsberg per qualcosa come la decima volta. L’ho conosciuto nel 1959 nel suo appartamento del Lower East Side. Poi sono stata due ore con lui, tenendoci per mano in metropolitana mentre andavamo alla prima lettura di Ed a New York nel 1960. Abbiamo passato del tempo insieme anche ad Albuquerque, San Francisco e Bolinas. Quel bastardo non ha mai letto niente di mio e non ricorda di avermi mai incontrata”.
Poi, però, alla pagina seguente, dopo la lettura-conferenza, si ricrede: “Allen Ginsberg irradia una forza pacata, è un uomo pacatamente forte, gentile e caloroso. È stata la sorpresa più grande, con quella sua dolce autorevolezza. Un santo?”.
A. Ginsberg soffriva - come tutti i poeti? o\e come i santi? - di miopia cognitiva, cieco fuori del suo perimetro?
 
Camilleri – “Praticava il culto dell’amicizia ed era prodigo di attenzione”, è il ricordo di Bruno Gambarotta, a lungo colonna della Rai, tv e radio: “Un affabulatore meraviglioso. I suoi racconti orali erano ipnotici.”. E aggiunge: “Da ragazzo sognava di diventare ammiraglio. Più Conrad che Montalbano”.
 
Hispanidad – Trump ha espunto dal sito della Casa Bianca la versione in spagnolo. Il re di Spagna Felipe non ha protestato - si è detto “sorpreso”, ma insieme confidando che la rimozione  sia “temporanea”. La Spagna ha da tempo riscoperto, con la nuova monarchia, i nessi e il valore della hispanidad. Ma già negli anni 1960, dopo il lungo isolamento dalle invasioni napoleoniche e  fino all’albagia franchista, un secolo e mezzo di storia, si interrogava sulle sue “due anime”: l’oceanica e la continentale. Col rientro nel consesso civile dopo la morte di Franco, in mezzo secolo o meno, ha rimesso in marcia rapidamente le due “anime”, protagonista in Europa, riferimento di molta America Latina – con i cui capi, compreso il dittatore Chavez, il padre di re Felipe, Juan Carlos, restauratore della monarchia, regalmente si dava del tu.
 
Malaparte – La “New York Review of Books” ne pubblica e pubblicizza anche la biografia, di Maurizio Serra. Ha già in catalogo “La pelle”, “Kaputt”, “Il ballo del Cremlino” e “Diario di uno straniero a Parigi”.
 
Oscar – Ieri, girono dei premi Oscar, il “New Yorker” con accurate critiche ha bocciato uno per uno tutti i film “nominati”, arrivati alla scelta finale, specie quelli poi vincitori, “Anora” e “Io sono ancora qui”. Tutti, eccetto “I ragazzi della Nickel” e “The Substance”, che non hanno vinto niente.
 
Pasolini –Bruno Gambarotta, autore Rai a lungo a Roma, ricorda con Antonio Gnoli su “Robinson” di essere stato una volta a casa sua, alla casa dell’Eur, quindi dopo il 1963, per accompagnare Adriano Aprà, il critico cinematografico. E di averne un solo ricordo, delle scarpe. “Ho una vaghissima memoria dei complicati discorsi che imbastì sul tema dello strutturalismo, moda culturale appena arrivata in Italia, mentre mi si stagliano vivi nella memoria i suoi mocassini in pelle di leopardo.” Anche per il prezzo: “Ne avevo visti un giorno prima un paio uguali esposti in via Condotti, costavano 220 mila lire. Il mio stipendio di allora”.
 
Roma – “Questa città non vi aspetta e non vi teme: non vi accoglie e non scaccia; non vi combatte e non sdegna di accettare la battaglia. La sua forza, la sua potenza, la sua attitudine è in una virtù quasi divina: l’indifferenza”, Matilde Serao, “La conquisa di Roma”, romanzo, 1885.
 
Roma repubblicana – “The New Yorker”, “The Atantic” e altri  media culturali negli Stati Uniti apprezzano anche “Gladiatore 2” come un omaggio alle virtù repubblicane di Roma – che l’imperatore Marco Aurelio in morte avrebbe provato a instaurare. Un film di cassetta, per il grande pubblico. L’America è sempre fedele al mito di Roma, della Roma imperiale e repubblicana - semplice, onesta, virile. Una fedeltà radicata a suo tempo nei Senati, organi saldamente ancorati in tutti gli Stati e statuti, come assemblea degli “ottimati”, per l’interesse superiore comune, e nei campidogli disseminati in tutte le città capitali di Stato.
 
Torino - Si distingue per la “sprezzatura”, la capacità di trattare “di cose profonde o complesse con naturalezza e familiarità”, spiega l’astigiano Bruno Gambarotta (“Robinson” 23 febbraio), “nascondendo l’arte e la fatica di ciò che fanno. Penso a Roberto Longhi, che era di Alba, a Gianfranco Contini che veniva da Domodossola, a Umberto Eco cresciuto ad Alessandria. E ai torinesi: Carlo Dionisotti, Giacomo Debenedetti, Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Massimo Mila”. E Pavese naturalmente, torinese d’adozione, e Guido Ceronetti”. O il suo compaesano, coetaneo e amico Paolo Conte, naturalmente. E Fenoglio, che era di Alba?
 
Venezia – “Se adesso noi del W20 e delle numerose associazioni femminili”, argomenta Fabiana Giacomotti, francesista e veneziana, sul “Foglio” domenica, “ ci vantiamo nei congressi internazionali che le italiane potessero stipulare contratti societari a metà del Trecento e avviare attività in proprio come le vedove Uliana e Caterina che avviarono un laboratorio di profumi o Marietta Barovier che, è cosa nota, inventò la perla rosetta e guidava una fornace, lo facciamo sapendo di mentire. Non erano italiane, erano veneziane”. Come lo erano Eisabetta Caminer (1751-1796), “filosofa e prima editrice conosciuta, cognata di Gioseffa Cornoldi che avrebbe fondato la prima rivista femminile italiana, «La donna galante ed erudita»; un secolo prima la Laguna aveva tenuto a battesimo la prima laureata al mondo, Elena Cornaro Piscopia”, teologa (ma questo primato si contesta, n.d.r .: Bettisia Gzzadini si sarebbe laureata in diritto canonico a Bologna nel 126, Costanza Calenda in medicina a Napoli nel 1422, Isabella Losa in teologia a Cordova nel Cinquecento, e Juliana Morrell sempre in teologia nel 1608 ad Avignone). Venezia che “un secolo e mezzo prima aveva dato alle stampe e fatto circolare il dialogo «Il merito delle donne» di Modesta Pozzo de’ Zorzi, nom de plume Moderata Fonte, fra i primi manifesti femministi dopo la «Cité des dames» di Christine de Pizan, poetessa e storica tardo trecentesca, che comunque era nata a Venezia anche lei”. E “c’erano leggi a tutela del patrimonio e della potestà.  Malgrado la società veneziana fosse di stampo maschile e venisse governata esclusivamente da uomini, fino alla caduta della Serenissima la libertà e le possibilità di cui godeva il genere femminile non ebbero eguali in nessun altro luogo d’Europa e del mondo: le donne godevano di diritti sui figli e sui propri beni personali (ai maschi di famiglia era vietato persino star loro d’attorno mentre redigevano il testamento o siglavano contratti), avevano libertà nella vita sociale e nella gestione di attività economiche e nell’arte”. 
 
22 – L’invasione dell’Ucraina fu vaticinata “l’anno prima da Zhirinovsky, il deputato russo”, spiega Elena Kostioukovitch a Francesco Battistini su “7”: “Disse, alle 4 del mattino del 22 febbraio 2022 vedrete qualcosa…”. Non avrebbe dovuto dire: alle 2 di febbraio 2002, tutto in 2? “Il numero 22 fu un numero caro a Hitler”, spiega la scrittrice-traduttrice russo-ucraina, “una data esoterica, propizia per iniziare le guerre”. Infatti, attaccò l’Urss un 22, di giugno, 1942. Ma un altro 22, sempre di giugno, due anni dopo, gli fu fatale: iniziava l’attacco Bangration dell’Armata Rossa, che lo sconfiggerà.  

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Imma sempre tacco 12, ma col piede sbagliato

Curiosa questa serie, la quarta, quindi stagionata: è imbarazzante. È partita col piede sbagliato, la passioncella tra l’attempata Imma e il giovane maresciallo finita a letto? Fino a Imma che superati gli -anta si esibisce in deshabillé e scosciata ci sta, è un classico. Ma l’intimità in camera d’albergo col giovane maresciallo no.
Aggiornata e tutto, al gender fluid e alla terapia di gruppo, e con un nuovo ruolo per la cancelliera Barbara Ronchi, virtuosa della comicità fredda. Ma la crisi ormonale pre-climaterio della Sostituto Procuratore, sempre lei, mento proteso, tacco dodici e mises stravaganti, non funziona. Imbarazza anzi le solite scene di lavoro, in ufficio, in macchina, in esterni, dai morti e i sospettati.
È l’età dei diritti, e della sessualità libera, ma la mésalliance stona sempre. In questo caso deve essere stata matura, probabilmente, per gli sceneggiatori, dopo tre stagioni di occhieggiamenti. Ma tra (piccolo)borghesi, cioè abitudinari, stona – diverso il caso di Lady Chatterley e il guardacaccia.
Francesco Amato, Imma Tataranni – Sostituto Procuratore, Rai 1

domenica 2 marzo 2025

Problemi di base bellicosi octies - 840

spock


Sul serio vogliamo fare la guerra alla Russia?
 
Per avere l’Ucraina nella Nato?
 
Ma se la Nato non esiste più – con Trump e senza Trump?
 
Dobbiamo fare nostre tutte le guerre che gli slavi si fanno?
 
Chiameremo l’ulivo russo ulivo di Boemia?
 
E Dostoevskij?


spock@antiit.eu


Il Pollino fu anche femminista, nell’Ottocento

Sacerdote, insegnante (“Prof.” precede la firma), studioso emerito di storia locale (il curatore Giuseppe Maradei lo presenta come “celebre soprattutto per le sue «Memorie storiche della città di Castrovillari»), scrittore, patriota come tutti ardente – “Racconti Patrii” è il sottotitolo – Pepe racconta in chiave naturalistica, comune al tardo Ottocento. Racconti semplici, di “vita vissuta”. “Marietta”, gnomico, sulla virtù della pudicizia, e i rischi della mésalliance. “Sacrificio di una moglie”, che si vuole “storico”, è fantasmatico. “La benedizione “ satirico: fra tutti i parrocchiani l’unico senza cuore è il  parroco. Il più lungo, “La moglie dell’americano”, un brogliaccio di romanzo, sulle lusinghe e le miserie dell’emigrazione “in America”, qui Buenos Aires, per chi resta, per le mogli, trascurate o abbandonate, da un marito che si è sposato per partire, coi (pochi) soldi della dote della moglie.
Prose pacate. D’epoca – la ragazza bionda è “una delle figlie dei Nibelungi”. Ma piene anche di similitudini audaci - la bellezza che si manifesta “in un iride simile ad ala di corvo, come lino in fiore”. Femminista, sottotraccia, e di programma: i racconti sono del punto di vista femminile – ne “La moglie dell’americano” di discute vivamente l’opportunità di prendere marito.
Correda la riproposta il saggio, in poesia e in prosa, “San Nicola dei Bulgari” del Pepe storico locale, sulla chiesa di questo nome e sui Bulgari che si dispersero sul Pollino, chiamati dai primi Longobardi contro i bizantini.
Ua riproposta modesta. Ma parte di quella rivalutazione del Pollino, continua, costante, convinta,  del massiccio calabrese più aspro e anche, nella memoria dei viaggiatori, non “pittoresco”. Che si opera da alcuni decenni, con l’istituzione del parco naturale. Una sorta di “creazione”, si direbbe, dal nulla, di un ambiente e di una storia, attenta, in tutti gli interstizi, invogliante.  
Cristoforo Pepe,
Alle falde del Pollino, Il Coscile, pp. 152 € 5