lunedì 7 aprile 2025

“A Washington, a Washington”, a trattare

Che va a fare Giorgia Meloni a Washington da Trump dopo i dazi? Niente, perché niente può fare -  in materia commerciale si decide tutto a Bruxelles. Ma può favorire un chiarimento, non marginale, anzi decisivo su quello che è in realtà il piano americano.
Il piano di Trump è diventato materia di gladiatori al Colosseo. Una lettura favorita dalla gigantesca speculazione ribassista che vi è stata innestata. Ma è articolato, specie nelle premesse: è un invito alla revisione dei rapporti reciproci con la “maggiore economia” del mondo. Il ministro del Tesoro che dai manovratori di Borsa veniva dato per dimissionario di fronte alla “follia Trump”, Scott Bessent, è invece bene in carica, e ripete il consiglio che il piano, a leggerlo, premette: trattare - “Non fate ritorsioni, sedetevi, discutete. Perché se reagite sarà una escalation”. Una precisazione che trova riscontro nell’ “ordine esecutivo” di Trump sui dazi, a volerlo leggere.
Il piano tariffario di Trump è sicuramente aggressivo, rispetto all’ordinamento attuale dei mercati, ma “gentile”, come lui dice, nella forma e anche nei contenuti. Intanto, Canada, Messico e America Latina ne vengono esentati, perché hanno risposto rapidamente alla minaccia, hanno trattato. I nuovi dazi prendono la forma di “dazio reciproco scontato”, e cioè paese per paese la metà dei dazi che quel paese impone sulle merci americane.
La Gran Bretagna mantiene i dazi Usa al 10 per cento perché impone il 20 per cento sulle importazioni. Con l’Europa si arriva al 20 per cento calcolando la media europea dei dazi sui prodotti Usa al 39 per cento.  
Più spinoso è il capitolo, in aggiunta ai dazi commerciali, delle “barriere non tariffarie” su cui Trump si propone di vedere chiaro: burocrazia, sussidi, barriere agli investimenti esteri, anche sotto forma fiscale, barriere commerciali. Per l’Europa sono citati espressamente il Digital Services Act e il Carbon Border Adjustmenet Mechanism – i dazi sulle emissioni di CO2 importate. Ma molte se non tutte queste barriere sono contestate dall’interno della stessa Europa, con più veemenza – da tutti i settori industriali, e anche da governi non “populisti” (da ultimo, ora che ha dovuto abbandonare il “tutto green” del mercantilismo di Angela Merkel, dalla Germania).

La valanga speculativa

Non si ferma il crollo mondiale delle Borse, dopo l’annuncio dei dazi di Trump. In tutto il mondo, in tutti i comparti. Una manovra ribassista vertiginosa, che ha avuto un successo strepitoso. In tutti i settori, Ict, banche, assicurazioni, utilities, più o meno pubbliche, automotive, siderurgia e metalli, tessile e abbigliamento, agroalimentare. Una speculazione senza precedenti, una valanga.  
Il cassettista non c’entra, rimane impietrito di fronte alla valanga. Non ci sono mai stati crolli a ripetizione del 5 e 6 per cento, per più giorni di seguito, per più settimane, sotto un cielo senza nuvole (fallimenti, recessioni, guerre), su tutte le piazze indifferentemente, in nessuna crisi pregressa. Oggi si può, sull’effetto mediatico. E scontare l’opinione controversa del nuovo-vecchio presidente americano è una manovra agevole.
Ma se il cassettista non si muove, che speculazione è – è il “parco buoi”, il piccolo risparmiatore, che paga i movimenti violenti di Borsa? S’incassa l’ipervalutazione dei corsi degli ultimi anni, specie nei settori finanziario (banche, assicurazioni) e tecnologico, senza rapporto col sottostante, e si resta liquidi – presto il motore ripartirà.
 

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (589)

Giuseppe Leuzzi
Napoli madre
Il duello (da qualche anno per lo scudetto) Napoli-Milano è più oleografico che mai - imperituro? Anema e core vs. silenzio. Non c’è napoletano, che pure abbia abbandonato Napoli senza nemmeno rancore, per il corso delle cose, che non parli di Napoli. L’altro ieri Elisabetta Rasy – come già, a lungo, Raffaele La Capria. Oggi l’avvocatessa, giurista e ex ministra Paola Severino: “Di Napoli conservo l’aroma della diversità, il mescolare dell’alto con il basso, nell’idea di una uniformità”. Che non si capisce cosa vuole dire ma è come dire: Napoli nel cuore – anche se uno non ci ha a che fare.
Ieri “Il Foglio” con due pagine roventi, “Manierismi e venerazione”, sui “nuovi santi di Napoli”. Una città che ha bisogno di santi, dunque, con “storie di moderne apoteosi partenopee, celebrate nelle strade, sui palchi, nei musei”. Di una laica trinità, prima Massimo Troisi, però come al solito modesto. Poi Pino Daniele, “il cantautore di «Napul’è»”. E naturalmente Maradona, ora in veste di “santo che protegge dal terremoto”.  Pino Daniele principalmente, per i dieci anni della morte e i settanta della nascita. Con due documentari, un film che si annuncia, e l’annuncio di un terzo documentario, più una mostra, a Palazzo Reale. E una medaglia, in argento, a forma di plettro, della Zecca dello Stato. Anche se “Pino Daniele non viveva a Napoli”, e ne rifuggiva.
Napoli si è persino pacificata con Caruso, “dopo un secolo di incomprensioni”.
Niola dice Napoli “una madre imperiosa: ti dà moltissimo e molto ti toglie”, guardando “solo a ciò che dà senza riflettere su ciò che toglie”. Attenta alle minuzie, per cui ha una memoria “talmente ‘zippata’” da riuscire ingombrante, ritrovandosi “sempre gravata dai suoi resti”.
Milano tace. Con Jannacci. Come sempre. Severino, che vi ha aperto studio dopo Mani Pulite, molto c’era da fare, ci trova apprezzante, con le multinazionali come anche a Roma,e a Napoli, “i capitalisti silenziosi delle imprese familiari” – e le banche, certo.
 
Il senso della morte
“Il senso della morte proviene dai suoni della mia infanzia”, spiega a Cacciari Ricardo Muti, nel dialogo “Les sette parole di Cristo”, p.111: “Da ragazzo ho sempre accompagnato le processioni della Passione del Venerdì e Sabato Santo. Le marce funebri dei paesi del nostro sud ti costringono ad un ad un dialogo ravvicinato con la morte”.
Muti ne fa un segno caratterizzante permanente: “Quelle statue tragiche trasportate in quei giorni al suono di quelle marce hanno influenzato fortemente tutta la mia vita di musicista. Io mi sento figlio di quella civiltà. Il senso della morte proviene dai suoni della mia infanzia. Forse per questo amo molto i Requiem….: i Requiem di Cherubini, il Requiem di Brahm1s, i Requiem di Mozart, il Requiem di Verdi, lo Stabat Mater di Rossini….”
 
Storie di San Luca
Si riscioglie per mafia - in realtà senza una motivazione specifica, “su proposta del prefetto”, nel caso una prefettessa - il consiglio comunale di San Luca, per molti anni deserto, dopo un primo o secondo scioglimento. La prefettessa scioglie anche, nell’occasione, la benemerita Fondazione  Corrado Alvaro, basata a San Luca. E uno deve concludere che sia una condanna legata al nome, alla nomea - l’ASD San Luca (calcio) era riuscita perfino ad ascendere alla serie D, con un campo di calcio in erba naturale (e tremila abitanti). 
Oppure San Luca, paese di Corrado Alvaro, come paese “raccontato” è condannato a un’esistenza “letteraria”, fissata un secolo fa. A Natale - o Capodanno - del 1991 avviò una colossale faida, finita poi in tragedia in Germania, con la strage di Duisburg, sei morti, con questo avvio: il lancio di uova per Carnevale da parte di alcuni ragazzi contro vari negozi, tra cui uno gestito da un malavitoso.
Ma, anche questo è vero, era stata in precedenza anche la vera capitale dei sequestri di persona.
È pure, era qualche anno fa, un paese dove la metà delle famiglie era tornata a farsi il pane in casa, con l’impasto, la lievitazione, il forno a legna – a turno - e tutto. Ed è - era - anche il paese delle guardie forestali in eccesso. Che però curavano i rifugi in pietra (che nessuno adoperava, il parco dell’Aspromonte, che è uno dei più variati, e quindi “belli”, è deserto), e amavano, verrebbe da dire, veneravano i castagni di quattro e cinquecento anni. Soprattutto evitavano gli incendi - che poi, proprio sul versante jonico, sono stati catastrofici, nel 2021, con la distruzione di boschi “storici”, di 5 e 600 anni.
Si raffigura l’evangelista (si raffigurava nella tradizione copto-ortodossa, nella quale riceve grande venerazione, come il primo ritrattista, invaghito, della Madonna (la Vergine Odigitria, Theotókos Odigitria, Panaghía Odigitria, quella che apre o indica la strada) col pennello in mano, lo sguardof isso perplesso. Come di ogni artista. Ma si vede che non ha sciolto le perplessità neppure nel luogo che ne porta il nome.  
 
Malavita di curiosità
“Maranza” e rom, storia di scippi, gioielli rubati, ricettazione, e di case occupate. Nella normalità. A Milano. Il “Corriere della sera” eccezionalmente ci fa una pagina, come di una curiosità. Anche perché tutto avviene alla luce del sole, a un posto di dogana, niente “retate” all’alba, niente indagini, microspie, trojan, intercettazioni. Giusto una storia di controllo aeroportuale, casuale. A una famiglia rom, una famigliola numerosa, in viaggio da Orio al Serio alla Romania, per una festa di nozze. Ma niente scandalo: “maranza”, ladri, ricettatori non sono cose da Dda, non hanno parenti calabresi, nemmeno un cugino. Sono anche noti, “Striscia la notizia” li fotografa ogni giorno mentre lavorano nella metro. Quindi non c’è da preoccuparsi?
La famigliola arriva disinvolta al check-in in aeroporto: “Arrivano carichi di gioielli e trascinando borse di Chanel e Louis Vuitton (anche queste rubate)”: la polizia non può non controllarli. “Addosso alla famiglia, oltre a 15 mila euro in contanti, gli agenti trovano 61 monili d’oro. Alcuni sono «spezzati». Altri hanno incisi nomi e scritte”. “Sono i regali che portiamo per il matrimonio”, lamentano. Ma niente, la polizia non può che fermarli.
È un’organizzazione mafiosa? No, è una famiglia rom. “«Mamma Romania», così i «maranza» delle rapine (giovani sudamericani e africani, n.d.r.) contattavano i ricettatori. Una famiglia di rom che aveva occupato abusivamente un appartamento di San Siro”. A cui confluisce senza sosta il bottino degli scippi: “Rapine di collanine, orologi di lusso e cellulari, che per la maggior parte avvenivano in metropolitana”
Si direbbe un’organizzazione non da poco - “quanto agli arresti…. 18 minorenni e 32 maggiorenni”. Ma niente allarmi, si continua a borseggiare in metropolitana - “Striscia la notizia” può perfino filmare i borseggiamenti e gli scippi. Come dire: uno spettacolo.
C’è crimine e crimine, certo. Si può commetterli alla luce del sole, anche con violenza, e niente succede. È l’origine che fa il crimine dei Cavalieri del Lavoro, buonanima, di Catania, una vita di fatica, distrutti con quattro avvisi di garanzia. Il crimine è un’etichetta. .
 
Il crimine in nuce
“Il fratello di Lea Garofalo fu ucciso solo perché si rifiutò di ammazzarla. Almeno questo è quello che sostiene il collaboratore di giustizia Carmine Venturino, che oggi ha 38 anni ma ne aveva appena 16 quando avrebbe nascosto le armi utilizzate nell’agguato. E avrebbe fatto da vedetta al commando che entrò in azione l’8 giugno 2005 per assassinare Floriano Garofalo”. Che aveva anche lui sedici anni.
Venturino, che oggi, morti gli assassini e i mandanti, quindi non più minacciabile, fa il pentito per uscire dal carcere, la sera dell’agguato faceva finta di raccogliere ciliegie, mentre fungeva da palo. Custodì poi le armi dell’agguato per sei mesi all’interno della sua abitazione.
Venturino è ritenuto attendibile per avere fatto ritrovare i resti di Lea. In un campo vicino Monza - il corpo bruciato, le ossa ridotte in migliaia di frammenti.
Floriano Garofalo non era un brav’uomo: “Ha ucciso tanta gente, imponeva alla povera gente del paese di pagare il pizzo”, ha scritto Venturino da pentito qualche tempo fa ai giornali. Non aveva però ucciso la sorella, rea di avere denunciato l’assassino di Antonio Comberiati a Milano nel maggio 1995, nella persona di Giuseppe Cosco detto “Smith”, dalla pistola, fratello di Carlo Cosco, il suo convivente. Che poi organizza l’eliminazione della compagna. Venturino faceva da palo sulla strada, davanti alla casa in via Fioravanti a Milano, mentre il commando omicida strangolava Lea Garofalo col cordino di una tenda, metteva il cadavere in uno scatolone, lo scatolone in un sacco nero, e il tutto poi portava al quartiere San Fruttuoso di Monza.
Un caso come tanti di cronaca nera. Perché rileggerlo? Perché l’attacco alla delinquenza, dei rozzi e sanguinari, è più fruttuoso delle chiacchiere di mafia, che distolgono l’apparato repressivo – buone giusto per le carriere di pochi, giornalisti, giudici, anche Carabinieri (non c’erano Carabinieri nel paese dei Garofalo – Petilia Policastro è quasi una cittadina, da 9-10 mila abitanti?).
 
Cronache della differenza: Sicilia
Ce l’aveva anche con la Sicilia, naturalmente, Tomasi di Lampedusa, come con la Calabria, scrivendo negli anni 1950 “Il Gattopardo”. A don Fabrizio Salina al suo ultimo viaggio di ritorno da  Napoli, la fa vedere secca e riarsa: “A Messina poco dopo, il mendace sorriso dello Stretto subito sbugiardato dalle riarse colline peloritane”…. Che invece, negli anni in cui il romanzo si scriveva, erano verdissime - come del resto Tomasi sapeva, poiché frequentava i cugini Piccolo poco lontano,  a Capo d’Olando.
 
È però vero che per andare da Messina a Palermo il treno faceva un lunghissimo e sgraziatissimo percorso: Messina-Catania, poi sui per Castrogiovanni (Enna), “la locomotiva annaspante su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforato”, per poi cadere come a strapiombo su Palermo. Per andare da Palermo a Roma bisognava circumnavigare l’isola. E con le locomotive a carbone. La linea Messina-Palermo è stata completata nel 1895. E elettrificata solo negli anni 1960.
Si poteva andare con un viaggio nello stesso posto nella stessa carrozza da Palermo fino a Messina solo dal 1882, l’anno prima dell’ultimo viaggio del principe nel romanzo. Via Girgenti (Agrigento), Caltanissetta e Catania.
 
L’eredità di Letizia Battaglia, fotografa antimafia per eccellenza, si scopre contrattata da un genero, Rosario Marchese, con un (ex? scarcerato dopo vent’anni) boss mafioso, Franco Bonura. Le tre figlie di Battaglia si contendono l’eredità, e Marchese vuole favorire sua moglie. È più questione di mafia o di antimafia?
 
Marchese è “uno degli imprenditori siciliani più noti nel settore del caffè made in Italy”.  Ma fu “condannato ai tempi del maxi processo istruito da Falcone e Borsellino”. Condannato, o forse solo imputato, di “associazione mafiosa”.
 
“Il silenzio” è un racconto “disperso” di Sciascia, recuperato da Squillacioti nella raccolta postuma “Il fuoco nel mare” – ora sceneggiato e filmato da Andò in sotto il tiolo “L’abbaglio”. Sulla “diversione” operata da Garibaldi per aprirsi la via di Palermo, mandando una colonna nel senso opposto per attrarre le truppe borboniche: è il silenzio della gente che, secondo Sciascia, fa il successo dell’operazione.
“Il silenzio” è anche il titolo di un racconto breve pubblicato su “La fiera letteraria” nel 1959, che diventerà il nocciolo, e il capitolo di apertura, de “Il giorno della civetta”. Silenzio come omertà. Sciascia è implacabile con la Sicilia d a subito.
 
Pirandello, Tomasi, Sciascia, Camilleri, “tutti siciliani che hanno parlato di Sicilia e, tramite essa, di un’umanità difficilmente redimibile”. L’antisicilianismo della sicilitudine. Ma più di Autore. Senza misericordia.
O è sempre la lectio parthenopea, “chiagne e fotti”? Ai siciliani piace molto, sono tutti autori bestseller.
 
Sarà per questo che l’isola ha totalmente dimenticato – obliterato – il suo pure fecondissimo secondo Ottocento, Verga, Capuana, e soprattutto De Roberto – che forse non ha mai letto. E con loro Brancati, Musco, Martoglio, Bonaviri, gli stessi Quasimodo, Consolo, Bufalino, quelli dello Jonio, dell’Est, dell’operosità invece dei titoli di nobiltà.

leuzzi@antiit.eu

Israele e il sospetto di razzismo

La testimonianza forse più partecipata, e verace, di Gaza sotto i bombardamenti israeliani, già quindici anni fa.
Reduce da una convulsa attività di volontariato, nell’Est Europa, in Africa, in Medio Oriente, in tutte le mansioni, con corrispondenze per Radio Popolare, “il Manifesto” e altri media, già espulso dall’esercito israeliano più volte, da Gaza, dove rientrava ogni volta dal mare, da Gerusalemme Est, dalla Cisgiordania, l’autore è morto il 14 aprile 2011 a Gaza, a 36 anni, ucciso da un gruppo terrorista islamico. Fautore dei “due Stati” degli accordi di Oslo, ma non per questo inviso a Israele. Il rapporto specialmente agitato di Arrigoni con i governi israeliani negli anni s’innesta sul sospetto, se non un’accusa, di razzismo, di Israele nei confronti dei “palestinesi di Gaza”, cioè poveri. In particolare qui Arrigoni denuncia “la personalissima jihad israeliana contro i luoghi sacri dell’Islam lungo la Striscia”.
Notevole comunque la sottolineatura del fattore religioso (si era al tempo del terrorismo islamico, “religioso”). “Sono venti le moschee finora rase al suolo”. E: “Fortunatamente nessun «razzo» qassam ha ancora sfiorato le pareti di una sinagoga, altrimenti siamo certi che avremmo giustamente avvertito levarsi al cielo grida di sdegno da ogni angolo del mondo. Dio deve pagare il dazio di ricevere preghiere dai palestinesi”.
La denuncia è il filo della cronaca dell’operazione “Piombo fuso”, dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009. Una testimonianza dal vivo, sotto forma di denuncia, che ha avuto all’uscita nel 2009 eco larga – subito tradotta nelle maggiori lingue europee (e in arabo, con una postfazione di Ilan Pappè, lo storico israeliano autore della “Storia della Palestina” e di “La pulizia etnica della Palestina”).   
Arrigoni fu rapito - e ucciso nello stesso giorno - a Gaza il 14 aprile 2011 da un gruppo terrorista del jihadismo salafita, con l’accusa di “diffondere la corruzione” nella Striscia – questa raccolta di testimonianze-corrispondenze fu pubblicata una settimana dopo. Arrigoni era vicino a Hamas, alla cui organizzazione doveva i rientri nella Striscia via mare, ogni volta che l’esercito israeliano lo espelleva.
Vittorio Arrigoni, Gaza.
Restiamo umani, Manifestolibri, p. 127 € 12

domenica 6 aprile 2025

La Cina non vuole litigare

La risposta è fredda da Pechino ai dazi di Trump. Che viene percepito oggi come nella sua prima presidenza: come una manifestazione del declino americano, scomposto nel suo tentativo di reazione. Segno di una rivalità destinata a protrarsi. Ma con gli Stati Uniti disancorati dalla gestione multilaterale degli affari internazionali che aveva assicurato la loro lunga egemonia – e il “decollo”, economico e politico, della Cina.
Una valutazione, nel linguaggio cinese, “benevola”. Di Trump (e Biden) e degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni come dei “vecchi”. Nel senso comune del linguaggio cinese, come di qualcuno anziano, da trattare con sufficienza benché autoritario o scontroso – “vecchia America” come di qualcuno che, per quanto benvoluto, può non essere ragionevole, e anzi irritabile.
La risposta ai dazi è avvenuta senza polemiche, e modulata in vista di una trattativa. Con la quale rabbonire il gigante – ché tale è sempre percepito – americano. Inoltre, l’America è pur sempre in Cina il gestore e garante di quarant’anni di benessere, quelli delle “riforme e apertura” avviate da Deng.
La direzione è chiara: “rispettare e negoziare” con la “vecchia America”. Ma ora, rispetto al 2016, con un deterrente in più: una domanda interna (mercato nazionale) inattaccabile dai dazi. Considerate anche l’autosufficienza tecnologica, oggi rispetto agli anni pre-covid, e l’ampia disponibilità di risorse, sia fisiche che finanziarie.

L’amore, unico rimedio alla violenza

Una presentazione breve dei romanzi della scrittrice coreana premio Nobel - compreso quello cui sta lavorando, “Huin”, bianco, sulla “vita” della sorella maggiore, morta due ore dopo la nascita, e sulla madre. Una dozzina di pagine. Più il discorso breve, una paginetta, tenuto a Stoccolma, al banchetto per il premio con i reali di Svezia.
Centrale, nell’attività della scrittrice, “Atti umani”: la scoperta, tardiva, e la narrazione delle tragedie nella città dove è nata, Gwanju, nel 1980, al tempo della sanguinosa dittatura militare. Con la scoperta che il suo tema è, come già nei quadernetti da bambina, l’amore, “il filo d’oro che unisce i nostri cuori”.
Han Kang, Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, Adelphi, pp. 39 € 6