giovedì 24 aprile 2025
Letture - 576
letterautore
Digressione – È la fuga in
musica? Dà aria alla narrazione, argomenta Gioacchino Lanza Tomasi, in una pagina
di “Lampedusa e la Spagna”, pp. 51-52, che da musicologo apparenta alla fuga: “In
musica la costruzione della fuga si articola nel rapporto fra la sezione libera
del divertimento e la riesposizione in contrappunto obbligato di soggetto e
controsoggetto”.
Papa Francesco si racconta
Papa Bergoglio si spiega, come al suo solito molto faceto. In castigliano rioplatense, come a lui più naturale. Wenders, che
ha preparato il film lungamente, è la voce narrante, in italiano (ma il film narra
anche in tedesco e in inglese). Intervalla quella che si suppone essere stata
un’intervista (papa Francesco è sempre in primo piano, seduto, sorridente, con
la stessa espressione divertita, giovanile, spontanea) con scene e interventi in
occasioni pubbliche. Soprattutto dei tanti viaggi del pontefice, in Africa, America Latina, Medio
Oriente, perfino al Congresso degli Stati Uniti. E nelle conferenze stampa in aereo.
Un documentario, ma il
papa non lo fa pesare. Sembra un attore nato, dalle mile espressioni pur con la
camera fissa.
Il festival di Cannes lo
ha presentato fuori concorso, nel 2018.
Wim Wenders, Papa Francesco
– Un uomo di parola, Sky Cinema, Now
mercoledì 23 aprile 2025
Ombre - 771
Putin
avrebbe volto essere a Roma per i funerali del papa? Probabile, anche se solo per
incontrare Trump, rubare la scena a Zelensky. Ma Piantedosi avrebbe dovuto farlo
arrestare – un altro caso Al Masri. Questa Corte Penale Internazionale, che è
inutile a fini digiustizia, è un grosso impiccio.
Papa Francesco
sarà stato il papa più citato al mondo. Per via delle interviste, telefonate,
conferenze stampa, social, frasi celebri e a effetto. Più che per la dottrina –
le encicliche ripetono, magnificandoli anche, concetti tradizionali, compresa l’enciclica
verde. Una settantina delle interviste sono state lunghe e meditate abbastanza
da essere pubblicate in libro - la statistica è di Luis Eduard López Badilla,
un marianista messicano, per suo conto autore di una quarantina di libri.
È stato anche il papa
più mediatico, ufficialmente e informalmente. Specie nei viaggi internazionali.
All’andata usando fare la conoscenza dei giornalisti al seguito uno a uno, andandoli
a trovare seduti in cabina, lui in piedi nel corridoio, malgrado i mali di
schiena. Al ritorno improvvisando una conferenza stampa, con domande all’impronta,
e risposte che mai mancavano di sorprese. Protagonista anche di dieci film in undici anni, con la sua partecipazione attiva, specie in quello di Wenders, 2018, Papa Francesco - un uomo di parola (Pope Francis - a man of his words), e di una serie Netflix.
Sibillina
viene detta la risposta di Unicredit all’uso che Giorgetti ha fatto del “golden
power”, sull’Ops Bpm. Ma che rispondere?
La “golden share” fu introdotta a protezione dalle scalate delle grandi aziende
pubbliche, Eni, Enel, etc, che andavano sul mercato. Nel 2012 l’onnilegista Monti
la trasformò in “golden power”, un sovraestensione della “golden share” ma con limiti:
la “minaccia di grave pregiudizio” per gli interessi pubblici viene valutata
dal Governo tenendo conto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza. Che
ha di ragionevole un ministro che assoggetta al suo giudizio – personale,
ministeriale – l’attività di un (grande) soggetto economico?
Il “vaffanculo”
è approdato in Parlamento, ma fra banchieri, in affari, non ha senso.
Il “golden
power “ di Giorgetti è un abuso di potere e anche incostituzionale. Ma l’attività
non può fermarsi in attesa dei tribunali. Si capisce che la risposta di
Unicredit sia una non-risposta. O non il segnale che lunedì l’Ops potrebbe non partire?
Diretto ad Agricole, il maggiore azionista di Bpm che nelle more dell’Ops ha
raddoppiato la quota. Pregustandosi socio ben remunerato di Unicredit - nonché
beneficiario dei “ritagli”, gli sportali in eccesso per ragioni di antitrust, con
i quali Agricole è cresciuto in Italia.
Altrimenti
avremmo un “golden power” a favore di una banca straniera. Con la Lega tutto è
possibile, ma ci sono limiti.
Osceno
invece che sibillino il silenzio sull’oscena Ops di Mps su Mediobanca-Generali.
Della pulce che schiaccia l’elefante – una pulce reduce dalla rovina di 50-60
mila piccoli azionisti. Silenzio sulla Lega che si fa una banca, e che banca.
Dal “discorso
di Monaco” (una lezione sulla democrazia, agli europei) alla visita in Vaticano
da buon cattolico, l’Italia scopre Vance. Che si era tutto detto dieci anni in un
libro che fu best—seller in America per molti mesi. Ma che nessuno, nemmeno
Rampini per dire, ha letto. Dove racconta il mondo da cui poi è uscito (e da
cui è stato eletto?). Di una democrazia che è una conquista sempre futura.
Per la
visita a Roma di Vance e famiglia la città scopre che le famiglie non possono accedere
all’Orto Botanico: è chiuso in modo tale che non un passeggino non vi passa in nessun
modo. È l’unico giardino di Trastevere, che però la Sapienza – o Roma 1 – da alcuni
anni si è chiuso, per farsi pagare il biglietto. Per il mantenimento delle preziose
piante. Che però, viste dall’alto, dal Gianicolo, sono malandatissime - a
stento se si ripulisce stagionalmente il sottobosco.
La Repubblica,
che va per gli ottant’anni, non ha piantato un albero – giusto quelli che Fanfani
piantò personalmente, con la vanga.
È più ridicola
la furbata di mettere il Ponte sullo Stretto tra le spese della difesa, per
farlo fuori bilancio, oppure lo sono questi bilanci fatti coi trucchi?
Nella
conferenza stampa al caminetto congiunta con Meloni, Trump ha potuto dire che
“in molti Stati la benzina costa meno di due dollari”, intendendo al gallone,
un po’ meno di quattro litri. In Italia costa due dollari al litro. Gli Stati Uniti
sono proprio un altro mondo.
Solo “La Gazzetta
dello Sport” vende più copie di un ano fa, un paio di migliaia. Tutti gli altri
quotidiani vendono di medo. Meno 10 mila copie il “Corriere della sera”, meno 7
mila “la Repubblica”, “la Stampa”, meno 6 mila il “Resto del Carlino- QN”, meno
4 mila “Il Messaggero”, “La Nazione”, etc. Ma è anche vero che, comprando il giornale,
uno si chiede: perché?
Appena
Meloni ha ricevuto un invito dalla Casa Bianca, Macron si è precipitato a
Washington, senza un motivo e senza un risultato. E questa è l’Europa.
Proporre
la celebrazione della vittoria sul nazismo in Ucraina invece che in Russia è
una provocazione storica, ovvio – doppiamente tale perché innecessaria. Gli ucraini
hanno combattuto più – e più volentieri – con i tedeschi che con i russi nella
guerra. Erano ucraini, abili e applicati, lo spauracchio dei giovani resistenti
veneti nei racconti molteplici che ne sono stai fatti. C’erano più neonazisti
in Ucraina, e più rumorosi, prima della guerra, che neofascisti in Italia.
Kallas o
chi per lei lo ha proposto dice tutto del rischio che l’Europa corre, al carro
delle beghe tribali tra slavi – con i baltici pendenti tra Germania e Russia.
“Il 22
per cento dei contribuenti paga il 64 per cento dell’Irpef”. S’intende l’uguaglianza
come il perno della democrazia, uno dei perni. Ma il fisco è per definizione ingiusto,
“ineguale”. Proprio il fisco del partito dell’uguaglianza. Legalmente ingiusto,
beffa suprema.
Senza
dire che gli stessi che non sfuggono all’Ipef non sfuggono nemmeno alle tante “patrimonialine”
collegate all’Irpef. Pagare l’imposta sul reddito è come proclamarsi di classe
eletta, quindi da sanzionare “democraticamente”. Poi di dice Trump, le destre,
il populismo.
“Il piano
di Londra e Parigi per garantire la pace: 30 mila soldati senza mandato a combattere”.
Dei vigili urbani. Tanto rumore per nulla? No, è il modo di essere di Macron –
allontana i cattivi pensieri, come p. es. governare.
E questa
è tutta l’Europa, dell’“ammuìna” – “faciti ‘a faccia feroci/ cchiù
feroci ancora”.
“Così tramonta
il ruolo guida degli Usa”: il “Corriere della sera” scova un Mohammed El-Erian,
economista a Cambridge, per smontare quello che è sotto gli occhi di tutti: che
Trump (l’America) ha aperto la partita con la Cina, e che non può non vincerla.
Il “Corriere
della sera” che tifa Cina?
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Non c’è chiesa senza Roma
La chiesa
può essere acefala? Senza l’Auctoritas papale? È successo con l’ortodossia.
Che però si è poi frammentata e si frammenta. E sempre i frammenti si danno un’Autorità,
per quanto minima – senza contare che la più grande, quella russa, si vuole la
Terza Roma.
Quanto al
governo sinodale, evocato da papa Francesco, è la cosiddetta “chiesa tedesca”
oggi, peraltro divisa tra sinistra e destra. Come già il gallicanesimo, peraltro
braccio secolare dello Stato, per quanto non massonico.
Nell’Indocina
ancora francese - ma fino poi alla guerra del Vietnam, ogni vescovo in pratica
aveva la sua chiesa (la cosa si può leggere nelle corrispondenze di guerra di
Graham Greene, e in alcuni dei suoi racconti).
Lampedusa visto da vicino
La storia, l’evocazione,
di un’assenza: Lampedusa e la Spagna non hanno rapporto. Memorie grate piuttosto
della famiglia, quella di nascita, dei Lanza, e quella acquisita, con la tardiva
adozione da parte dell’autore del “Gattopardo”. Soprattuto della madre di
Gioacchino, molto spagnola, Conchita Ramírez de Villa Urrutia y Camacho,
contessa di Assaro. La Spagna di Tomasi di Lampedusa è il suo tentativo, poco
convinto o applicato, di avvicarsi alle lettere ispaniche – anche per valorizzare
il contributo del giovane Gioacchino, cresciuto bilingue.
Con aneddoti e aperçus
dell’autore del “Gattopardo”. Non tanto di eccentricità, abitudini, gusti -
a parte il pellegrinaggio mattutino tra i quattro caffè della via Ruggero Settimo,
per conversare con i soliti amici, lo storico Gaetano Falzone, il magistrato
Enrico Merlo, e Virgilio Titone, l’autore di “Sicilia
spagnola”, ricerca seminale (che l’autore dice “veterinario di professione”: Titone
non era uno storico, in cattedra?). Soprattutto dell’autore del “Gattopardo” è il
racconto dell’intelligenza letteraria: “Quattro anni vicino a Lampedusa
hanno lasciato in me una traccia indelebile”, di gusto e di capacità di lettura.
Un volume costruito alla
vigilia della morte, con l’ausilio di Alejandro Luque, sulla base di una conferenza
che Gioacchino ha tenuto a Siviglia nel 2008, invitato dalla Fundaciòn Tres
Culturas andalusa a un convegno sulla Sicilia. Che forse avrebbe avuto bisogno
di qualche correzione.
Il racconto è disteso
anche sui cugini Piccolo - che anche Gioacchino ebbe modo di frequentare dopo l’adozione.
In particolare su Lucio, il poeta: conoscitore universale di poesia, in ogni
lingua, fine persuasivo dicitore, persino in farsì, di cui non sapeva la
pronuncia. Con poche ma eloquenti notazioni su Palermo. Marginalmente anche su “Licy”,
la straordinaria moglie, estone e psicoanalista, di Tomasi. E su Alice Barbi,
già regina delle scene musicali, cantante di Lieder, ultima fiamma di Brahms,
la straordinaria madre di Licy, la suocera di Tomasi – che non amava tanto.
Gioacchino Lanza Tomasi, Lampedusa
e la Spagna, Sellerio, pp.121, ill. € 14
martedì 22 aprile 2025
Quante brecce aperte da Francesco nella chiesa
Veritiero – involontariamente? – il titolo del “Manifesto”: “Addio a
Francesco, il papa che ha smosso le mura della Chiesa”. Altrove molto cordoglio,
con dozzine di articolesse, si cavalca l’emozione per la morte del papa. “Il
Manifesto” invece coglie, se non un lascito di rovine, un terremoto nella chiesa
di Roma.
Il papa “venuto dalla fine del mondo” è stato molto presente, si può
dire quotidianamente, su tutti i canali di comunicazione, su tutti gli argomenti.
Ma senza autorevolezza, a parte la simpatia – per scelta forse, forse per temperamento.
Molto distruggendo, poco o niente costruendo in sostituzione. In particolare
per il suo stesso ruolo, di pontefice massimo.
Voleva forse confondersi col gregge, sul principio dell’uno vale uno. Ma
ha svuotato, involgarito, con ciò stesso, seppure non formalmente, l’Autorità
papale. Il processo decisionale che fa l’Auctoritas del papa, e la
specificità della Chiesa - come riconosciuto e illustrato da Alessandro Passerin
d’Entrèves, e con lui da Hannah Arendt.
Si sa – non si dice ma si dovrebbe sapere – che la democrazia moderna è
quella della chiesa di Roma. Della monarchia costituzionale, elettiva. La chiesa
ha perpetuato le procedure del diritto romano, ma ha dato loro sostanza
democratica, con la cooptazione dal basso (oggi: mobilità sociale). E autorevolezza
sulla base della decisione collegiale. Con delega all’Unus, l’imperatore, il capo,
il papa – il governante. Che se ne avvale non per spregiare – distruggere – l’Auctoritas:
il papa è un ispiratore e un condottiero, non un sfasciachiese. Piazza San Pietro
fremente in attesa di un segno del papa, una parola, una benedizione, un “bagno
di folla”, non è un colosseo: le persone, fedeli e non, hanno bisogno di ispirazione,
di fede.
Fino a quando la chiesa sarà romana
Roma, l’Italia, danno per scontato che la chiesa sia romana, e parli italiano
– privilegi immensi, altro che il made in Italy, di cui non si ha nemmeno la
percezione (l’Italia è un Paese sconosciuto a se stesso: l’unificazione, laica,
massonica, della “borghesia della manomorta”, profittatrice, che ha costretto
tre quarti del paese al “non possumus”, le ha tarpato la fantasia). L’impegno è
stato mantenuto dai tre ultimi papi, stranieri, con il collegio cardinalizio di
papa Bergoglio l’Italia è entrata in orbita remota. Il Vaticano sta sempre a
Roma, San Pietro e Michelangelo non volano, ma il papa ne è sempre più lontano –
Woytiła si faceva obbligo ogni domenica, vescovo di Roma, di visitare una
parrocchia romana, Francesco mai.
Il patriarcato di Venezia e la chiesa ambrosiana hanno perduto con Francesco,
di proposito e non per caso, il titolo al cardinalato. Mentre lo hanno acquisito
decine di sconosciuti, a capo di chiese piccole e minime.
C’entra nell’intiepidimento delle radici romane della chiesa l’umoralità
del papa argentino – parlava benissimo il dialetto piemontese dei suoi
genitori, ma non ha imparato mai l’italiano. Ma la cosa è anche nei fatti, se
la chiesa deve decentrarsi, o comunque indebolire la curia, e il papa di Roma
si avvia ad essere uno tra gli altri – una specie di presidente svizzero,
seppure a vita (o fino a che non sarà a termine).
Francesco e n’è andato e sconcertati ci ha lasciati
Tre ore di un dibattito
sempre serrato, ben condotto (senza sovrapposizioni) e sempre interessante. Celebrativo,
in morte del pontefice. Ma, malgrado l’emozione del momento, con percebili riserve
in tutti gli otto commentatori in studio, con l’eccezione di padre Spadaro,
coautore di molte opere del pontefice - dallo sguardo però perplesso. Anche da
parte di giornalisti (Massimo Franco, Ignazio Ingrao, Carlo Musso, il biografo)
o di religiosi (padre Fortunato, mons. Paglia) che con papa Francesco hanno
avuto frequentazioni importanti e collaborazioni. Nonché di Andrea Riccardi, lo
storico che ha fondato la Comunità di Sant’Egidio. E del novantenne woytiliano Svidercoschi,
che Vespa e la regia hanno ostracizzato, a tratti irridente.
Si concorda che papa
Bergoglio è stato scelto dal conclave perché anti-curia – venendo dopo
Benedetto XVI, che della curia si ritiene stritolato. E perché “popolare” o “di
borgata” ma “anticomunista”: oppositore polemico della “teologia della liberazione" - per questo votato da tutti gli americani, anche del Nord.
Un “peronista”, in termini argentini, ciò che oggi si direbbe un populista.
A più ondate se ne
ricorda la simpatia. Ma anche la modestia esibita, l’individualismo, esacerbato
dalla diffidenza e dalle decisioni brusche, l’improvvisazione, a volte molesta e
anche sconcertante: sull’omosessualità (“frociaggine”), sulla curia romana,
sulle stesse sue riforme – il sinodo dei vescovi, convocato a Roma un anno e
mezzo fa, che doveva ribaltare la gestione della chiesa, non più gerarchica
(patriarcale) ma democratica, non fu mai frequentato da Francesco, non ebbe un
indirizzo, non fu richiesto di proposte. Più un demolitore - qualcuno ha evocato Cossiga, nelle vesti di picconatore. Generale lo sgomento per i troppi
cardinali, nominati a valanga, sconosciuti per lo più e senza pedigree. Sconosciuti
anche tra di loro, poiché non si sono praticate le Congregazioni dei cardinali. Il che rende il conclave una sorta di roulette – e mina
l’autorevolezza del papato.
Bruno Vespa, Francesco: il papa che ha cambiato la
chiesa, Rai 1, Raiplay
lunedì 21 aprile 2025
Problemi di base terminali - 855
spock
È buona cosa a
fin di bene fare male?
“I vecchi
usano tutti gli occhiali, ma vedono lontano”, papa Francesco?
E ci vedono
bene?
“Il principio
delle cose, e di Dio stesso, è il nulla”, Leopardi?
Ma la vita non
è un miracolo?
E perché si
visitano i cimiteri (se non c’è niente)?
spock@antiit.eu
I tormenti di papa Francesco
“Inno al genio femminile”
è il sottotitolo. Con estratti (“pensieri”) di molte scrittrici, alla rinfusa, Austen
e Saffo, Arendt e Christie, Dickinson, Edith Stein, Madre Teresa di Calcutta e
Maria Montessori, Anna Frank, Santa Caterina da Siena, Virginia Woolf, et
al., le considerazioni del papa defunto sull’avvento della donna, auspicato, prossimo. Non una professione di mariologia, come è stato di molti pontefici, ma una
sorta di proclama femminista. Sul filo: “Il
mondo attende la tua luce. Sei chiamata a splendere, perché tu sei unica”. Ma
sul generico, senza entrare nelle questioni femminili, di sessualità,
gestazione, ruoli – certamente non dentro la chiesa.
L’ultimo
libro di papa Francesco. O forse il penultimo, o terz’ultimo. Amava molto esprimersi,
in encicliche sui temi correnti, e in libri, riflessioni, memorie, interviste,
incontri, commenti, conferenze stampa improvvisate – su domande cioè all’impronta,
non vistate dall’ufficio stampa. E questo della donna nella società è solo uno
dei tantissimi temi sensibili toccati da papa Bergoglio nei suoi dodici anni di
pontificato. Con esiti sempre problematici: pedofilia dei preti, aborto,
omosessualità, chiesa conciliare, progressismo, anche se pauperista e dittatoriale (Cina, Cuba,
Venezuela), dialoghi pro forma (molto islam, molto Lutero, niente ebraismo),
periferie. Non quelle urbane in questo caso, quelle ecclesiali – compreso il collegio
cardinalizio, moltiplicato e avventizio, come a volerne diminuire l’autorevolezza
e la compattezza.
Un
papa che ha mosso molto le acque, su molti temi. Ridando vivacità alla chiesa, con
la sua caratteristica sfida costante ai cattolici su ogni tema, come questo
dell’avvento femminile. Sui media - gli effetti ancora non si vedono nella comunità dei credenti. Ma con un senso di durezza da ultimo, nella promessa e
la richiesta insistite di pregare, come di un timore o una mancanza, senza la
serenità che l’età e la salute comporterebbero.
Papa Francesco, Sei
unica, Libreria pienogiorno, pp. 240 € 17
domenica 20 aprile 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (590)
Giuseppe Leuzzi
Le città più trafficate (inquinate, invivibili)
d’Italia? Del Sud, naturalmente. In mancanza di meglio, o di più serietà, ci si
basa su “un rapporto del 2016” – di chi non si sa. Su sette città con più smog
da circolazione automobilistica, cinque sono meridionali. In aggiunta a Milano
e Roma naturalmente. In ordine crescente di velenosità: Palermo, Messina, Napoli, Reggio
Calabria e Catania (Roma dopo Palermo, Milano prima di Catania). Tutte peraltro
città di mare, che respirano.
Oggi però “Il Sole 24 Ore” ha
una statistica insidiosa – vera, Eurostat: “Nel 2024 l’occupazione in Italia è cresciuta
più rapidamente di quella media in Europa, anche in molte aree del Mezzogiorno”.
Ma le regioni del Sud sono le peggiori delle 240 censite, escludendo i
territori “d’oltremare” (nel caso la Guyiana francese): Campania, Sicilia,
Calabria, Puglia, a partire dal fondo.
La graduatoria non tiene conto
del “nero” – il tasso d’occupazione resta in Italia al 62 per cento, contro una
media Ue del 70+. Al Sud indubbiamente c’è più “nero” – se non più povertà.
Se non c’è mafia
non c’è delitto
Le mafie delle “curve” Inter e
Milan, traffico di droga, biglietti e posteggi, con assassinii, sono di ordinaria
amministrazione nelle cronache giudiziarie, nazionali e milanesi. Uno
penserebbe il contrario – tifo calcistico, zone urbane, grandi numeri. Ma non
prendono più spazio e attenzione di un caso di stalking dell’ex, di mobbing in
azienda, di ordinaria amministrazione in tempi di pace. Non c’è inchiesta
giudiziaria più “babba” di questa, pur grave – intercettazioni? connessioni? la
politica? Eccetto che se emerge tra i filibustieri un calabrese, o un siciliano.
Allora paginate.
Si arriva così al “Washington Post”, che fa questa
cronaca dell’affare – in breve e in ritardo, ma in prima pagina:
“La criminalità
organizzata era nel business multimiliardario del calcio italiano prima dei
fondi americani e degli stati del Golfo Persico”.
“I gruppi di
tifosi in Italia conosciuti come «ultras» sono allo stesso tempo un’identità
politica, un business e la parte più rumorosa di uno stadio. I loro
leader sono diventati importanti intermediari di potere, capitalizzando la
quasi religiosità che circonda le squadre più famose d’Italia. Alcuni ultras
hanno forgiato connessioni con l’élite politica; altri sono diventati
potenti trafficanti di droga.
Bellocco e
Beretta (ultras Inter, n.d.r.) erano diventati figure
influenti nella città più ricca d’Italia, fiorendo nel nesso di ricchezza
lecita e illecita. Ciò che pochi sapevano era che due uomini lavoravano per la
mafia italiana trasformando tutto, dalla vendita di biglietti al business delle
birre, in un flusso di entrate per la criminalità organizzata.
“L’indagine
avrebbe stabilito che anche la leadership ultras dell’altra grande squadra
della città rivale storica dell’Inter, l’AC Milan, lavorava per la mafia.
“Ciò mentre il
calcio italiano si trasformava in un business multimiliardario, attirava
una nuova gamma di interessi finanziari, dagli stati del Golfo Persico ai
finanzieri americani. Si è scoperto che il crimine organizzato era già dentro
il business. Vedendo uno sport inondato di denaro, la mafia è venuta
alla ricerca di un pezzo dell’azione: bagarinaggio, gestione di
concessioni, parcheggi, merchandise. Gli ultras, con la loro influenza di lunga data e le
connessioni nei club, così come la loro reputazione per la violenza, erano il
canale della mafia.
“Anche se i gruppi
criminali non si sono infiltrati negli spogliatoi o hanno compromesso i
risultati, dicono gli investigatori, hanno sviluppato linee di comunicazione
con giocatori, allenatori e altri funzionari della squadra — una sorprendente
collisione dei due mondi.
“La mafia si era
insinuata in altre squadre di alto livello. Nel 2018, gli investigatori
italiani hanno scoperto che i mafiosi si erano infiltrati nel gruppo ultra della Juventus di Torino, un’altra delle squadre più famose d’Europa,
sequestrando grandi quantità di entrate da bagarinaggio”.
Il giovane
Bellocco non è una pedina marginale, in una rete di piccoli-grandi affari di
balordi “organizzati”, in un mondo di coatti esaltati, che vanno alla partita per
menare le mani. Le “curve”, per essere veramente tali e punibili, devono essere
“criminalità organizzata”. Ma organizzata come? Con “cupole”, ordini del giorno,
assemblee, comitati ristretti, tribali, di posse, familiari? Non è
giornalismo esotico di colore - un americano tra le “curve” di Milano. È l’informazione,
l’unica. Ed è il sistema giudiziario-repressivo, i Carabinieri. Finché non
moriva (assassinato, per caso e senza sviluppi, senza vendette), uno di Rosarno
non c’era la notizia, non c’era la mafia delle curve, il pizzo, il riciclaggio di
denaro sporco, i traffici anzi potevano svolgersi in tranquillità.
Si stava meglio
quando si stava peggio
Ci fu bene un periodo, nel
lungo dopoguerra, in cui il Meridione rischiò il “balzo in avanti” verso lo
sviluppo. Fu quello del ventennio 1951-1971. Con una riduzione forte del divario
di reddito Nord-Sud. Nei cinquant’anni successivi il divario è rimasto uguale.
In un quadro generale che, forse non per caso, vede il complesso dell’Italia ferma
negli ultimi trent’anni, dall’avvento della globalizzazione – con tassi di crescita
del’economia dello zero virgola, e redditi reali in perdita vertiginosa di
potere d’acquisto, di valore reale.
Nei venti anni del “miracolo”
meridionale il pil pro capite, ricalcolato oggi a parità di potere d’acquisto,
progredì mediamente del 6,3 per cento l’anno – come il Giappone (la Cina dell’epoca,
la “lepre” mondiale della crescita) negli stessi anni. Contro il 4,9 per cento medio del
Centro-Nord. Un incremento solo in minima parte, lo 0,5 per cento, dipendente dalla
bassa dinamica della popolazione residente -
per effetto della parallela robusta emigrazione dal Sud al Nord (due milioni
e mezzo di trasferimenti si conteggiano).
Fu il ventennio della Cassa
per il Mezzogiorno, benché invisa all’ideologia liberale, e subito poi all’opportunismo
leghista - e in parallelo dell’obbligo fatto per legge agli enti economici pubblici, all’Iri e all’Eni principalmente, e poi all’Enel, di destinare al Sud il 40
per cento degli investimenti. Di un organismo creato da De Gasperi a Ferragosto
dell’anno prima, 10 agosto 1950. Ma non improvvisato.
La Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale nasceva su iniziativa della Svimez, Associazione per lo sviluppo del’Industria nel Mezzgiorno, creata a fine 1946 dal ministro per l’Industria Rodolfo Morandi, su impulso dell’economista Pasquale Saraceno, di Donato Menichella, direttore generale della Banca d’Italia, già direttore generale Iri, e di altri uomini Iri, Nino Novacco, Francesco Giordano, Giuseppe Cenzato. Sul modello delle agenzie di sviluppo locale avviate negli Stati Uniti negli anni del “New Deal” post-recessione.
Paolo Baratta, che della Svimez
è stato a lungo animatore, ne traccia ora un voluminoso rapporto “dall’interno”.
Fu un miracolo. “Un miracolo non di beneficenza” - di opere del regime,
politiche. Il motore del funzionamento furono gli investimenti. Che in Italia passarono
dal 14 al 25 per cento del pil. E al Sud dal 20 al 37 per cento del totale nazionale,
mediamente ogni anno. La quota industriale sulla popolazione attiva al Sud
passò dal 21 al 32 per cento.
In particolare pesarono, oltre
alle opere pubbliche – infrastrutture - della Cassa per il Mezzogiorno, gli investimenti industriali. Specialmente
pubblici, di Eni e Iri, ma anche privati: chimici (Montedison), tessili (Lanerossi,
Rivetti), farmaceutici, agroindustriali, e persino Fiat.
Il Sud è povero perché
è ricco
Si può anche argomentare che il
Sud è vittima, più o meno volenterosa, di Giustino Fortunato. Della triplice
piaga “ereditaria” dell’illustre parlamentare: frane, terremoti e malaria. Tra “il nodo calcareo degli Abruzzi a
settentrione che è tutto un serbatoio da pascolo, e la punta granitica delle
Calabrie che è un vero sfasciume pendulo sul mare”.
Fortunato parlava in polemica
col mito della “naturale” fertilità del Mezzogiorno, e va bene. Però, ci sono più frane in Piemonte,
per esempio, in Liguria, anche in Toscana, e nell’Appennino tosco-emiliano che
al Sud. Né i terremoti sono un’esclusiva di Napoli, la Calabria e la Sicilia. All’Abruzzo
è bastata l’autostrada, e il pendolarismo ferroviario, di Remo Gaspari, per
diventare il fornitore del grande mercato romano, e uscire dal “Sud” – con
scuole, ospedali, restauri urbani, e immigrazione. Dove il Sud è rimasto Sud,
in Calabria e in Sicilia soprattutto? Dove la politica è incapace, quando non
distruttiva. Si vede a occhio nudo in Calabria, dove il reggino, già ricco
all’uscita dalla guerra, si è disastrato con i “boia chi molla”, restando in balia delle
mafie, e di politici di terza o quarta categoria, mentre il cosentino brullo e
povero, amministrato da Giacomo Mancini, è ordinato, pulito, benestante, come
una Toscana.
Ed è pure vero che il bisogno è raro, e limitato –
fatta la tara dell’“industria” dell’assistenza pubblica (del vecchio tipo “una
pensione d’invalidità non si nega a nessuno”). L’emigrazione giovanile è da più
tempo solo professionale - fino a qualche anno fa, ora la demografia ha inaridito
anche questa. E comunque si può vivere bene col poco – da “ricchi”, per il differente
costo della vita, con stipendio pubblico, per quanto da insegnante. E lo “sfasciume
“ è piuttsto verde, e anche coltivato. Dovendo stare agli stereotipi è più vero
quello che fa il meridionale indolente perché non deve faticare per mangiare.
leuzzi@antiit.eu
La menzogna è un’arma
Si è sempre mentito, “a
se stessi e agli altri”. Anche per difendersi: è “l’arma preferita degli inferiori
e dei deboli”, e di chi è in pericolo, una formazione segreta, un gruppo di resistenza
– “dissimulare ciò che si è, simulare ciò che non si è”.
Un libello contro Hitler
e Mussolini, contro il nazismo e il fascismo, regimi totalitari, e un primo abbozzo
di classificazione del totalitarismo – prima di Arendt e di Adorno. Una riflessione
di ottant’anni fa che sembra scritta ora, in epoca di bugia quasi istituzionale,
se non naturale – con l’estensione della propaganda fino ai social, e l’avvento
dello storytelling invece della cronaca, o verità delle cose. Sulla menzogna
come consustanziale ai regimi totalitari tra le due guerre, attraverso la propaganda
– “totalitarismo e menzogna” è il tema, e potrebbe essere il titolo. Oggi però,
si direbbe, veicolo “democratico”, attraverso il trucco linguistico dell’uno
vale uno.
Sono dunque cento anni che
la menzogna fa la politica, l’epoca dei media: la condiziona e la indirizza,
moltiplicata e ramificata. “La menzogna è un’arma”. Ma è anche vero che “è
soprattutto l’arma del più debole”. Delle donne, degli schiavi, delle società
segrete – quindi dei gruppi di resistenza al potere, al totalitarismo (e agli avventuristi no, ai golpisti?)
Una dissertazione breve
ma univoca - e quindi apparentemente trasgressiva: la bugia è buona e fa bene.
Ma non quando è stata scritta, per una rivista pubblicata nel 1943, negli Stati
Uniti, organo di un gruppo di studiosi francesi della resistenza gollista, in
fuga dalla Francia occupata.
A cura, e con una esauriente
postfazione, di Claudio Tarditi.
Alexandre Koyré, Sulla
menzogna politica, Lindau, pp. 69 € 11
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